Forte dei buoni risultati ottenuti dalla sua Nazionale, che dopo le sei vittorie dall’inizio del girone è vicinissima alla qualificazione per Euro 2020, Roberto Mancini ha chiesto in ogni maniera di anticipare di una settimana le date del campionato, in modo da non chiuderlo troppo a ridosso degli Europei. Naturalmente non c’è stato verso, perché in Italia l’emergenza azzurra viene vissuta come tale soltanto all’indomani dei disastri – come la mancata partecipazione al Mondiale 2018 – e appena i flop scolorano nella memoria gli interessi dei club tornano sovrani. Così la Serie A è comodamente ripartita il weekend del 25 agosto, ultima fra i grandi tornei, e si concluderà il 24 maggio: dopo qualche opportuno giorno di riposo, Mancini avrà a disposizione appena due settimane per preparare la squadra a un torneo continentale al quale ci riaffacceremo con qualche (motivata) ambizione. Il che introduce la domanda azzurra dell’anno: per arrivare in buona forma all’Europeo che tipo di stagione deve augurarsi Mancini? Il solito monologo della Juve o un campionato combattuto fino all’ultima giornata? Deve sperare in un cammino infrasettimanale nelle coppe lungo e faticoso o in rapide eliminazioni per risparmiare le energie?
Diciamo subito che le esperienze precedenti non vanno tutte nella stessa direzione, specie per quanto riguarda le coppe. Prendiamo l’anno santo 1982. L’Italia campione del mondo nasce dalle ceneri di una stagione europea dei club che più nera non potrebbe essere, con l’eliminazione delle nostre quattro rappresentanti fin dall’autunno ’81: la Juve viene esclusa negli ottavi di Coppa Campioni dall’Anderlecht, la Roma esce dal Porto in Coppa delle Coppe allo stesso livello del torneo, mentre in Coppa Uefa il Napoli cede al primo turno al Radnicki Nis e l’Inter al secondo contro la Dinamo Bucarest. Un’autentica Caporetto, che certo non lasciava presagire il trionfo di Spagna ‘82. Ma se per l’intera primavera gli azzurri si erano potuti allenare bene, vale a dire senza impegni a metà settimana, l’esatta metà della rosa (6 juventini e 5 viola, 11 su 22) aveva battagliato per lo scudetto in uno dei campionati più tirati della storia, quello risolto all’ultima giornata dal rigore di Brady a Catanzaro mentre la Fiorentina non riusciva a vincere a Cagliari. Una conclusione vivacemente contestata – ancora oggi il tifo viola rimpiange il gol discutibilmente annullato a Graziani al Sant’Elia – che si era comunque esaurita il 16 maggio, un mese prima dell’inizio del Mondiale.
Bearzot aveva avuto il tempo per stemperare le polemiche (il famoso silenzio stampa della squadra ebbe tutt’altra matrice) e per eseguire il richiamo atletico che nella seconda fase del torneo avrebbe fatto correre gli azzurri come nessun altro. Oltretutto, due pilastri della squadra come Paolo Rossi e Giancarlo Antognoni avevano saltato buona parte della stagione per diversi motivi, la squalifica per il calcio-scommesse il primo e un brutto incidente di gioco il secondo. Bearzot se li trovò freschissimi. A lungo quell’esperienza ha costituito la stella polare dei commenti in avvicinamento ai grandi tornei: meno laboriosa era stata la primavera, maggiori speranze potevamo coltivare per un esito felice della nostra Nazionale. In realtà la storia ha poi detto quasi sempre il contrario, ma la pigrizia giornalistica è dura a morire, perché un luogo comune venga abbandonato occorrono decine di esempi opposti. Inoltre, negli ultimi 30 anni – diciamo per comodità da quando la Champions ha preso il posto della Coppa Campioni – il grande calcio è profondamente cambiato nella sua gerarchia di valori: un tempo era abbastanza frequente che a marzo degli anni pari molti campioni tirassero i remi in barca per preparare al meglio Mondiali ed Europei, incontestabilmente gli eventi dell’anno.
Oggi invece le star non barattano una finale di Champions con niente, e chi è in ballo a fine inverno cerca di restare in pista sino a fine maggio (quest’anno l’ultimo atto della coppa più ambita è in calendario il 30 maggio, tredici giorni prima della gara inaugurale dell’Europeo). Infine, la moderna preparazione atletica – oltre a essere sempre più personalizzata – privilegia la costanza di rendimento molto più dei picchi di una volta. E quindi chi arriva bene a maggio generalmente riesce a gestire la prosecuzione agonistica di giugno, anche perché la pausa è stata compressa. Nel 1970, per dire, tra fine campionato e inizio del Mondiale corsero 35 giorni; quest’anno per arrivare all’Europeo ce ne saranno solo 19. In quella stagione, poi, la finale di Coppa Campioni di San Siro vide di fronte il Feyenoord e il Celtic, e né l’Olanda né la Scozia s’erano qualificate per il Messico. Oggi è impensabile assistere a una finale di Champions i cui protagonisti, qualche giorno dopo, si guarderanno dal divano il grande torneo per Nazionali.
Nel 1990 era già un altro mondo, rispetto all’82. Al primo raduno di Coverciano per il “nostro” Mondiale si presentarono tutti gli azzurri, ma molti tornarono subito ai club perché c’erano le finali europee da giocare: in ordine di tempo, in quel mese di maggio la Samp vinse la Coppa delle Coppe, la Juve la Coppa Uefa in finale sulla Fiorentina e il Milan la Coppa Campioni (totale: 13 giocatori coinvolti). Azeglio Vicini ebbe nuovamente tutti a disposizione soltanto nella seconda fase del ritiro, a Marino, e per festeggiare venne convocata addirittura Sofia Loren, che abitava in zona.
Ad aumentare l’adrenalina c’era stata anche una conclusione di campionato ultra-polemica, col Milan sconfitto sul filo di lana dal Napoli anche a causa della partita vinta a tavolino dai partenopei per la monetina finita in testa ad Alemão a Bergamo. L’episodio aveva visto coinvolto Salvatore Carmando, il massaggiatore del Napoli, della Nazionale e – nell’86 e nel ‘94 – personale di Diego Maradona. L’uomo, una persona dolcissima, non uscì per questo dalle grazie dei milanisti in azzurro, da Baresi ad Ancelotti, da Maldini a Donadoni: ugualmente Vicini si trovò a dover gestire un viluppo di emozioni e fatiche che avrebbe sfiancato un bue, e col peso supplementare delle ovvie aspettative di vittoria visto che giocavamo in casa e avevamo dominato le coppe. Fu molto bravo a tenere tutti calmi, il buon Azeglio: probabilmente sbagliò qualcosa nella formazione della semifinale contro l’Argentina, dove qualche forza fresca non avrebbe fatto male, ma quello è un torneo perduto per circostanze e un po’ di sfortuna più che per mancato valore.
Ovviamente vorrete sapere come fu la marcia di avvicinamento al Mondiale 2006. Premesso che i fatti di Calciopoli ebbero un impatto emotivo fortissimo sulla Nazionale, e che Lippi fu estremamente abile a trasformarli in motivazione positiva, si veniva da un campionato combattuto che la Juve aveva vinto con tre soli punti di margine sul Milan (entrambe sarebbero state poi penalizzate dalle sentenze, con lo scudetto assegnato all’Inter giunta terza), e da un comportamento nelle coppe di discreto livello: in Champions Milan uscito in semifinale, Inter e Juve fuori ai quarti, in Uefa invece Udinese, Roma e Palermo – che dava ben quattro uomini all’Italia! – si erano fermate agli ottavi.
Nell’ultimo decennio, a fronte di Mondiali orrendi o addirittura mancati, la Nazionale ha giocato due ottimi Europei: quello del 2012, perso in finale contro la Spagna, e quello del 2016, dove siamo usciti ai rigori dalla Germania nei quarti. In entrambi i casi la supremazia della Juve in campionato non era stato dominio, come altre volte in questi anni. Nel 2012 Conte aveva guidato i bianconeri al primo titolo della serie dopo un lungo braccio di ferro col Milan di Allegri (4 punti di scarto alla fine); nel 2016 Allegri s’era liberato soltanto a primavera del Napoli di Sarri (9 i punti di distanza). Tornei combattuti, Nazionale fortunata? La controprova del 2014 lo confermerebbe: Juve da record a quota 102, Roma seconda staccata di 17 lunghezze, e Italia che fa ridere al Mondiale brasiliano. Magari non è matematica, ma anche in chiave azzurra conviene tifare per un campionato a più voci.