I giochi degli altri

Il boom di Twitch e di altre piattaforme streaming di videogiochi ha modificato profondamente il rapporto di noi tutti, gamer o semplici spettatori, con l'esperienza di gioco

C’è un nodo segreto che lega noia e divertimento. Come se, invece di escludersi a vicenda, si rincorressero scambiandosi di posto fino quasi a confondersi. Sempre più spesso, ad esempio, mi sono scoperto a ripensare agli anni passati insieme ai videogiochi. Sarà l’età. E ogni volta mi ritrovo sopraffatto dalla vertigine del tempo perduto: certo, un tempo proustianamente perduto, sfilacciato dal morso nero dei giorni e degli anni, irraggiungibile se non in ricordi vaghi e ingannevoli. Ma perduto anche nel più immediato senso di “tempo perso”: davvero ho passato tutto quel tempo a giocare, seduto davanti a uno schermo, da solo con un controller in mano? E cosa me ne è rimasto? Succede qualcosa di simile con la lettura.

Un dubbio, un’angoscia di mezza età direte voi: di tutti i libri letti, alla fine, cosa rimane? Certo, qualche effetto l’avranno prodotto su di me, non lo metto in dubbio, ma è così difficile riconoscerlo, individuarlo con precisione, quando ormai della maggior parte dei libri che ho letto da ragazzino non solo non ricordo nulla (o poco), ma spesso non mi ricordo nemmeno di averli letti. La lettura e il videogioco hanno anche un’altra caratteristica in comune: sono due attività tanto intense per chi le esercita (al punto di pensare che la vita vera, quella più autentica, più trasformativa, è la vita vissuta leggendo – o giocando), quanto noiose per chi le osserva da fuori. Il lettore e il giocatore visti dall’esterno sono sospesi in uno statuto esistenziale per certi versi unico: fisicamente presenti, lì, davanti a voi, eppure altrove, immobili eppure in viaggio, insieme eppure soli. Ma se guardare qualcuno giocare è noioso quasi quanto guardare qualcuno leggere, come accidenti è possibile che oggi lo streaming di videogiochi sia un business da milioni di dollari?

Se un appassionato di videogiochi si risvegliasse oggi dopo un’ibernazione di una decina anni, troverebbe il suo mondo completamente cambiato. A cominciare, ma è davvero un esempio tra tanti, a un tasto nuovo che scoprirebbe sul joypad della sua Playstation: introdotto al lancio della Play 4, il tasto share permette di condividere uno screenshot sui social o iniziare direttamente lo streaming di tutta la partita sul proprio canale. Navigando tra i menù della console si può accedere alle migliaia di partite trasmesse in quel momento, da match di Fifa a tornei di Rainbow Six (uno sparatutto strategico a squadre), da contemplative cavalcate nei deserti di Red Dead Redemption 2 a centinaia di partite a Fortnite. Questi streaming, fruibili dal televisore o da qualsiasi altro device collegato a internet, vengono trasmessi su Youtube e, soprattutto, su Twitch.

In un mondo in cui giocare in multiplayer fisicamente insieme è diventato più difficile, i broadcaster di Twitch offrono un sostitutoLanciato nel 2011, Twitch venne acquistato per quasi un miliardo di dollari da Amazon nel 2014 (dopo un’asta con Google stessa che si è ritirata per timore dell’antitrust e delle possibili accuse di posizione dominante nello streaming video). Oggi Twitch è tra le prime quattro piattaforme al mondo a generare più traffico, dopo Netflix, Google e Apple, arrivando a sommare 533 miliardi di minuti all’anno di streaming, 15 milioni di utenti attivi al giorno e circa 3 milioni di broadcaster al mese. L’anno scorso Twitch è stato visto dal pubblico tra 18 e 25 anni per 3 ore e 25 minuti a settimana, un’ora in più di quanto sia visto lo sport, come dire, “reale”. Può capitare che una partita a Fortnite di Tyler Blevins, ventottenne gamer dal nome di battaglia di Ninja, venga seguita in diretta da più di un milione di persone. Lo stesso Ninja gestisce il canale Twitch di maggior successo: nel 2018 i suoi follower l’hanno guardato per un totale di 150 milioni di ore.

C’è stato un periodo della mia vita in cui passavo le notti insonni a guardare le partite di Texas Hold’em via satellite. Anni prima era stato il golf. Non che fossi particolarmente appassionato di questi sport, anzi non lo ero per nulla: se ne avevo imparato le oscure regole e gli ancor più oscuri nomi dei suoi protagonisti, era solo dopo le notti passate a guardarle, quasi per osmosi, controvoglia. Tempo fa avevo iniziato a fare lo stesso con le partite in streaming (almeno qui le regole le conoscevo già): ne sceglievo una, un po’ a caso, azzeravo il volume, disabilitavo la chat e lasciavo che gli automatismi del gioco, le sue leggi e la sua grammatica, le sue maree segrete salissero fino a lavare via la malinconia.

C’era in quel guardare e non giocare un che di ipnotico, un lento rilascio di serotonina più efficace del giocare vero e proprio, pensavo. Non era come guardare una partita di calcio o una gara di atletica o qualsiasi altro sport, che non solo non potevo fare in quel momento, ma anche se avessi potuto non sarei stato mai lontanamente in grado di farlo a quel livello. In fondo mi sarebbe bastato allungare la mano di pochi centimetri, impugnare il joypad e giocare direttamente. Eppure non lo facevo. C’era stato qualcosa che mi aveva trasformato da giocatore in spettatore, da giocatore in tifoso.

Ma perché la gente guarda la gente giocare ai videogiochi? Una domanda tanto misteriosa che se l’è posta anche la scienza: un gruppo di ricercatori ha pubblicato nel 2016 un articolo sulla rivista Computers in Human Behavior dal titolo “Why do people watch others play video games? An empirical study on the motivations of Twitch users”. È emersa una correlazione tra ore di streaming guardate e diversi bisogni che vengono soddisfatti, da quello “cognitivo”, per imparare a giocare meglio o trovare informazioni sugli acquisti futuri, a quello emotivo, al rilascio delle tensioni, a quello sociale. Il fenomeno dello streaming ha fatto sì che si imponessero una serie di broadcaster che, più o meno velocemente, sono diventati delle vere e proprie star globali. Non si tratta cioè di guardare semplicemente una partita, ma anche guardare qualcuno che la sta giocando (spesso hanno anche la webcam puntata su di loro), o quantomeno sentire l’audio del suo commento.

C’è tutto un sottobosco di personaggi così anche in Italia. Ma che senso ha definire sottobosco un fenomeno così grande e assolutamente mainstream, solo perché non entra nel radar di ciò che io considero mainstream? Cicciogamer89 ha pubblicato un libro per Electa Mondadori, così come molti altri (tentativo delle case editrici di intercettare il pubblico dei giovanissimi con libri a metà tra lo pseudo-diario, tips & tricks per Minecraft e frasi ispirazionali per adolescenti). Favij, fino all’anno scorso il più famoso gamer italiano, ha avuto il suo album delle figurine e ha girato anche un film. Libri, figurine, addirittura film, oppure diventare megafoni dell’alt-right: è quello che è capitato a Pewdiepie, al secolo Felix Kjellberg, ventinovenne svedese da 97 milioni di follower su YouTube, partito con gli streaming di videogames horror e finito l’anno scorso in una tempesta di polemiche per l’essersi avvicinato al mondo dei suprematisti bianchi.

C’era in quel guardare e non giocare un che di ipnotico, un lento rilascio di serotonina più efficace del giocare vero e proprio, pensavoIl punto è che in un mondo in cui giocare in multiplayer fisicamente insieme, seduti sullo stesso divano, davanti alla stessa televisione, è diventato sempre più difficile, i broadcaster di Twitch offrono un sostituto con queste figure che stanno tra le star dei reality, i critici e i comici. Basterebbe pensare cosa è successo nel mondo delle riviste videogiochi: prima c’è stato il grande passaggio dall’edicola e la carta stampata ai siti internet, adesso non c’è sito, per quanto autorevole e “storico”, che non faccia dirette di gameplay con un redattore che chiacchiera durante la partita. Naturalmente sul treno dello streaming sono saliti anche – se non soprattutto – gli esport. La community di spettatori (oltre che di giocatori professionisti) interessati a guardare un torneo di Fifa in streaming invece di una partita di campionato in televisione è cresciuta insieme all’esplosione di Twitch e simili. La finale dei Mondiali di League of Legends (uno dei titoli più giocati a livello competitivo) è stata vista da 99 milioni di contatti, mentre una ricerca di Goldman Sachs breve che da qui ai prossimi quattro anni i ricavi generati dagli esport triplicheranno, aumentando in particolare i diritti televisivi. Al punto che adesso sono le stesse squadre professionistiche o le leghe a ingaggiare gamer professionisti: anche in Italia, Roma, Sampdoria, Genoa e altre squadre hanno un proprio team di Fifa o almeno un giocatore. Mentre Ligue 1, Bundesliga e Premier hanno il loro campionato virtuale parallelo. Esclusi dal Cio come discipline olimpiche, gli esport saranno però ai giochi di Tokyo 2020 e Parigi 2024 come esibizioni.

Ma lo streaming ha profondamente modificato anche il modo in cui i videogiochi vengono sviluppati: le software house sanno che i giocatori non solo chiedono di poter giocare con altri esseri umani attraverso la rete, eventualmente organizzarsi in comunità, team, di giocatori con cui fare squadra e socializzare. Oggi i giocatori vogliono essere visti mentre giocano, condividere le loro partite e i contenuti creati in esse. Questo alle case di produzione fa decisamente comodo, del resto, dato che il desiderio di successo di questo tipo di giocatori aumenta la loro propensione a acquistare, attraverso le microtransazioni, contenuti aggiuntivi, armi, costumi personalizzati o in edizione limitata. Il rilascio del gioco, la “scatola” che si andava a comprare in negozio, non è più la fonte primaria del fatturato degli editori, anzi: è una quota minoritaria, quando non completamente assente (con i giochi rilasciati gratuitamente), rispetto al vero guadagno che si fa nel tempo. Del resto la stessa idea di data di lancio, pubblicazione di un gioco è ormai piuttosto sfumata: vengono rilasciati in una fase molto primitiva, magari ancora piena di bug, che nel tempo muterà, crescerà, verrà costantemente aggiornata.

Oggi i giocatori vogliono essere visti mentre giocano, condividere le loro partite e i contenuti creati in esseL’importanza della dimensione sociale nel modo in cui si progettano videogiochi si vede bene con Stadia. Quando Google decide di entrare nel mercato con un proprio sistema, Stadia appunto, lo fa con una non-console: i giochi vengono fatti girare su server remoti e appaiono sullo schermo (o sullo smartphone) del giocatore attraverso la banda larga. Non c’è nessun supporto, nessun hardware nel salotto dell’utente, ma è tutto nel cloud, per così dire, liberando una potenza di calcolo notevole (linea telefonica permettendo) e la libertà di fruirne in ogni luogo. Ma anche, e su questo Google ha molto insistito, con la possibilità di trasmettere sul proprio canale YouTube in qualsiasi momento, di chattare con i propri follower, di trasformare ogni partita in un evento social.

Non sono mai stato un grande giocatore in multiplayer: troppo impegnativo, le partite da accumulare prima di poter muoversi senza essere blastato dal primo ragazzino giapponese che passa erano troppe, in fondo troppo agonistico. Per me un gioco è sempre stato una storia, un modo di raccontare una storia. Dei pezzi da rimettere insieme di una narrazione infranta. Per quanto l’aspetto agonistico – le vittorie, i punteggi, le sfide – lo comprenda e l’abbia anche frequentato (principalmente a Pro Evolution Soccer), non posso negare di averlo sempre un po’ guardato da fuori. Mi chiedo se, quando ormai il mio joypad prende sempre più polvere e passi più tempo a guardare altri giocare, mi chiedo, ecco, se il vero motivo, la ragione autentica per cui guardo la gente giocare, almeno per me, non abbia a che fare con qualcos’altro.

Appunti di un tifoso è il capolavoro di Frederik Exley: scritto nel 1968 e a lungo dimenticato, è un romanzo bellissimo, dolente, pieno di rabbia e di pace. È la storia di un insegnante di inglese, Exley stesso, dei suoi tentativi di scrittura, di amori sbagliati e di bottiglie di whisky e di partite di football: suo padre era stato un grande giocatore da giovane, mentre il protagonista, voltando le spalle alle aspettative paterne, scelse la letteratura. A un certo punto Exley scrive: «Lottavo perché capivo, e capirlo mi risultava intollerabile, che quello era il mio destino; che, a differenza di mio padre, il cui destino era sentire il boato della folla, il mio era stare seduto sugli spalti, confuso tra la massa ad applaudire gli altri. Il mio fato, il mio destino, la mia fine: essere un tifoso». Forse sta tutto qua.

Dal numero 29 di Undici