Serie A anno zero

Il campionato italiano sta iniziando a costruire la sua nuova identità : progetti a lungo termine, maggior attenzione ai giovani e all'appetibilità del brand.

Gli anni d’oro della Serie A, ovvero gli anni Novanta, luccicavano moltissimo, più di ogni altro decennio nella storia del nostro calcio peninsulare. Come si intuisce dai proverbi, tuttavia, sotto quell’oro si nascondevano muffe e marcio, ma questo lo scopriremo molto tardi e, anzi, ancora oggi tendiamo troppo spesso a dimenticare le montagne di debiti e perdite sulle cui pendici si costruirono le torri dorate, quando guardiamo a quel passato. Ma rimaniamo, per il momento, al luccichio: se guardiamo certe statistiche, il dominio della Serie A in Europa (e quindi, calcisticamente, nel mondo) alla fine degli anni Ottanta e all’inizio dei Novanta era sbalorditivo: nel 1990 il Milan vince la Champions League, la Juventus la Coppa Uefa, la Sampdoria la Coppa delle Coppe. Tre squadre italiane si prendono i tre principali trofei europei, e si può anche abbondare, sottolineando come la Juve abbia sconfitto, in finale, la Fiorentina. L’anno prima era andata in modo simile: Milan che vince la Coppa dei Campioni, Napoli la Coppa Uefa, Sampdoria che perde la Coppa delle Coppe contro il Barcellona in finale. Anche la stagione successiva conferma il dominio italiano, con la finale di Coppa Uefa vinta dall’Inter contro la Roma.

A guardare la classifica dei Palloni d’oro dal 1987 al 2000 l’effetto di egemonia è lo stesso: il vincitore gioca in Serie A nel 1987, nel 1988, 1989 e 1990. Nel 1991 Jean-Pierre Papin lo solleva da attaccante dell’Olympique Marsiglia, ma Le Moko se ne va proprio al Milan l’anno successivo. Poi di nuovo: Van Basten, Baggio, Stoichkov al Barcellona che però passa al Parma, e comunque con Baggio secondo e Maldini terzo, poi Weah, un anno di buio con Sammer e di nuovo Ronaldo e Zidane nel 1997 e 1998. Un po’ di declino: nel 1999 soltanto Shevchenko secondo, nel 2000 Zidane secondo e Sheva terzo. Infine, lampi sempre più isolati: Nedved, Shevchenko, Kaká, l’ultimo rappresentante della Serie A nel lontanissimo 2007, alcuni mesi dopo la presentazione del primo iPhone della storia.

Si può tornare, a questo punto, al marcio che si nascondeva sotto l’oro: come spiega Marco Bellinazzo ne La fine del calcio italiano (Feltrinelli, 2018), nel giro di pochissimi anni la Serie A passa dall’essere il miglior campionato del mondo al posto di quarta lega europea. Il crollo è veloce e brutale come quello delle bolle che scoppiano, e la bolla della Serie A era gonfia oltre ogni cautela. Il debito collettivo del campionato è di 133 milioni nel 2001, 279 milioni nel 2002, 535 milioni nel 2003. La Serie A spende cifre altissime e non riesce a rientrare, né a fermarsi: nel 2002 i salari arrivano a 1013 milioni di euro e gli ammortamenti (sostanzialmente, stipendi “spalmati” sugli anni di contratto di un calciatore) a 640 milioni, il doppio di Liga e Bundesliga.

Il dominio della Serie A alla fine degli anni Ottanta e allinizio degli anni Novanta era sbalorditivoLe perdite operative della Serie A sono altissime e mascherate dalle plusvalenze, ma i diritti tv calano, gli stadi sempre più sgangherati non fanno salire i ricavi come invece succede in Inghilterra, e il “doping amministrativo” – come l’aveva definito l’ex amministratore delegato della Juventus Giraudo – arriva anche ai tragici ma anche un po’ comici casi di società che non pagano l’Irpef. Il tempo non guarisce ma peggiora lo stato dell’architettura del campionato, che inizia a perdere calcinacci e rischia il crollo: all’inizio degli anni Zero falliscono, nelle varie categorie, centinaia di società, tra cui ex vincitrici di scudetti come Fiorentina, Torino, Napoli. «Negli anni in cui in altri Paesi il calcio assurge al rango di comparto industriale autonomo, in Italia viene vilipeso e strumentalizzato per coprire le falle che dilaniano le proprietà dei club», scrive sempre Bellinazzo.

Il Mondiale vinto nel 2006 non fa migliorare la situazione della Serie A: Calciopoli non cambia niente, e l’edificio del campionato si sgretola sempre di più. La difficoltà nel portare persone negli stadi continua a peggiorare, le medie spettatori sono lontanissime da quelle del decennio precedente, e due omicidi “legati al calcio” nello stesso anno, quelli di Filippo Raciti e Gabriele Sandri nel 2007, non aiutano certo il movimento. Nell’aprile 2007 la candidatura italiana per ospitare gli Europei del 2012 perde contro la coppia formata Polonia-Ungheria. Al Mondiale del 2010 la Nazionale esce ai gironi senza vincere nemmeno una partita contro Slovacchia, Nuova Zelanda e Paraguay. Pochi mesi dopo, nella primavera del 2011, si apre un nuovo scandalo calcioscommesse che coinvolge anche giocatori e club della Serie A. La stagione 2011/12 vede l’Italia perdere un posto europeo in favore della Bundesliga. Toccato il fondo, bisogna provare a risalire.

Farsi belli

Ricostruire dopo un crollo del genere non è solo una questione economica: il successo del campionato negli anni Novanta era anche un successo di marketing, di appeal, di immagine: nel Regno Unito, il programma di Channel 4 Gazzetta Football Italia, andato in onda dal 1992 al 2001, ebbe un successo straordinario e contribuì fortemente a creare il mito del campionato più bello del mondo. Era un programma che aveva molto a che fare con l’estetica: come ha raccontato il giornalista Espn James Horncastle, il conduttore, James Richardson, «creava la rassegna stampa leggendo la Gazzetta e altri quotidiani sportivi in esterna in un bar, collegato da location stupende su e giù per l’Italia, spesso con un enorme gelato in mano (…). A guardarlo dalla cupa Inghilterra, ti sentivi in vacanza. Escapismo allo stato puro».

Per anni, la Serie A non ha saputo raccontarsi né comunicarsi, oggi alcuni club hanno capito che lavorare sui contenitori media e social è fondamentalePer anni, la Serie A non ha saputo raccontarsi né comunicarsi, e la situazione non è poi così migliore oggi: prendiamo l’immagine coordinata della Premier League, rinnovata nel 2017 e firmata da DesignStudio, la stessa agenzia che ha ideato i brand e la comunicazione per Twitter e Airbnb: il motto del campionato è “The greatest show on Earth” e, per far sì che il livello di entertainment sia effettivamente altissimo, ogni dettaglio è stato calcolato. Avete provato a confrontare i colori dell’erba di una partita trasmessa in televisione di Premier con una di Serie A? L’erba inglese è – non è un modo di dire o un proverbio – più verde di quella italiana. Non è, naturalmente, un tipo di erba diverso, ma l’effetto di saturazione che è aumentato dal broadcaster. Lo stadio del Brighton sembra più rumoroso dell’Olimpico durante un derby? Perché i microfoni sono concentrati vicino alle curve, vicino ai pali per riuscire a sentire quel TING! metallico quando la palla li colpisce anche tra le imprecazioni degli astanti, e poi, certo, perché gli stadi sono pieni, e sono pieni soprattutto nelle prime file, quelle inquadrate dalle telecamere, quelle che, se guardate una partita proprio all’Olimpico o al San Paolo, sono quasi regolarmente vuote. «Alla Serie A manca un art director», scriveva il direttore di Studio Federico Sarica su queste pagine esattamente un anno fa, e le cose nel frattempo non si sono mosse granché.

L’iniziativa individuale, cioè privata, cioè di alcune squadre, è quello che per il momento ci rimane. Sono esempi, come si dice, virtuosi, come l’identità della Juventus, dal nuovo logo al progetto “Undici” (che non ha a che fare con il giornale che state leggendo), oppure come l’attività di social media della Roma, che ha un profilo in lingua inglese specializzato in meme e altre cose divertentissime, oltre che un account in pidgin nigeriano – un mercato fondamentale, ignorato completamente dall’Italia ma sfruttatissimo dalla Premier League –, o la nuova Inter Media House che si propone di comunicare il brand della squadra nel miglior modo possibile, con un vestito su misura per ogni contenitore.

L’anno zero

Alcune basi fuori dal campo, insomma, sono state poste. Ed è positivo, intanto, questo: che molte società abbiano capito l’importanza di questo particolare tipo di fondamenta, propedeutiche e non accessorie allo sviluppo in campo delle squadre vere e proprie. Il campo, quello, ci ha messo un po’ di più, ci sta mettendo un po’ di più, ma ci sta arrivando. A guidare il gruppo, con anni di anticipo, è sempre la Juventus, con due finali di Champions League negli ultimi sei anni, una competitività sul livello di Barcellona, Real Madrid, Liverpool e Manchester City, e soprattutto la firma su quello che è stato definito, dai media di tutto il mondo, “il trasferimento del secolo”, il passaggio di Cristiano Ronaldo da Madrid a Torino.

Servono modelli a lungo termine, come quelli di Tottenham e Atlético Madrid, ma intanto è stato significativo trattenere giovani fortissimi come Zaniolo e ChiesaÈ un secolo ancora agli inizi, eppure anche in quello precedente e terminato da 19 anni sono pochi gli eventi in grado di reggere il paragone. Ronaldo non è arrivato in Serie A, tuttavia, come Pelé arrivò negli Stati Uniti a metà anni Settanta: la competitività della Serie A era in crescita da alcuni anni, l’Inter si era già registrata con Suning dopo la traballante era Thohir, il Napoli continuava nella sua paziente ma ambiziosa crescita con la nomina di Carlo Ancelotti come nuovo allenatore, il Milan usciva dall’episodio dei Monthy Python in cui si era trovato imprigionato grazie al tragicomico Li Yonghong, la Roma, almeno in quell’estate di speranze, contava di non lasciare che la semifinale di Champions League persa contro il Liverpool rimanesse un iceberg isolato. «Non mi aspettavo tanta qualità», ammetterà poi Ronaldo a marzo 2019 intervistato da DAZN.

L’onda lunga dell’effetto-Cristiano non è ancora arrivata del tutto a Torino, tra l’altro: nell’ultimo rapporto Deloitte Football Money League la Juventus è all’undicesima posizione tra i club europei come entrate totali, ma è facilmente prevedibile che la posizione migliorerà. Sempre Bellinazzo, a proposito, mi spiega: «La Juventus si candida a essere stabilmente tra le prime dieci squadre in Europa per fatturato e l’Inter, grazie a Suning, viaggerà sopra i 400 milioni, dimensioni che fino a due-tre anni fa erano impensabili per dei club italiani. Quest’anno può essere considerato, in un certo senso, il primo anno che ferma la crisi».

A cosa guardare

Uno dei principali problemi degli ultimi campionati di Serie A, in termini di appetibilità e marketing, ha riguardato la scarsa competitività delle squadre non-di-vertice. Sia in Serie A che in Europa League, le prestazioni delle squadre “dal quinto posto in giù” sono state scarse, altalenanti, più vicine al fondo che alla testa della classifica. Qualcosa è cambiato già lo scorso anno, con una lotta per due posti in Champions League che si è allungata fino all’ultima giornata e che ha, in un certo senso, riempito l’Europa League di squadre che ambivano o meritavano la Champions: una delusione maggiore per i club, ma una speranza di competitività in più per il cosiddetto movimento.

La fondamentale trasformazione della provincia italiana in costellazione europea passa certamente dall’Atalanta, per la prima volta in Champions League nella sua storia, che ha già avviato i lavori per un completo rinnovamento dello stadio, ma anche da realtà oggi più indietro, almeno sul lato sportivo, eppure ambiziose: il Cagliari, che ha già ottenuto, nella primavera 2019, il via libera da parte del Comune per l’approvazione della delibera di pubblico interesse e ha costruito una squadra più che interessante, con Nahitan Nández, Luca Pellegrini, Nainggolan, Rog e Mattiello, e anche il Bologna, che pianifica il nuovo Dall’Ara comprensivo di antistadio e “cittadella”, mantenendo però la Torre di Maratona progettata da Giulio Ulisse Arata nel 1929. E, stadio a parte (non c’è ancora una decisione su dove costruirlo), inizia in modo ambizioso – soprattutto considerato il pochissimo tempo di manovra – il progetto della Fiorentina italo-americana: acquisti mirati come Pulgar, Badelj e Lirola, un buon esperto ancora in forma come Boateng e l’interessantissimo primo anno italiano di Franck Ribéry, uno degli attaccanti più straordinari, eleganti e talentuosi della sua generazione, tuttora in grado, nonostante i 36 anni, di giocare 38 partite (segnando 7 reti) tra Bundesliga, Champions League e Coppa di Germania con il Bayern Monaco.

I ritorni di Conte e Sarri, il consolidamento di Ancelotti: per quanto riguarda il “pulling power” delle panchine, la nuova Serie A è seconda soltanto alla Premier LeagueÈ comprensibile, tuttavia, che i non più giovanissimi Nainggolan, Balotelli e Ribéry si possano leggere come tanti bicchieri mezzi vuoti: giocatori ridimensionati e intenzionati a farsi cullare dalle onde leggere di un porto sicuro senza troppe ambizioni fino a fine carriera. Ma quello che i club di Serie A stanno riuscendo a fare, accompagnati da pochi titoli perché, comprensibilmente, il consolidamento fa meno notizia della rivoluzione, è sviluppare una generazione di giovani promettenti per club e Nazionali – maggiore e Under – italiane. Ciò che, guardando al campionato degli anni Novanta, chiamiamo fascino, oggi lo tradurremmo con la parola brand, e in trent’anni sono mutate, radicalmente, le nostre categorie mentali, i recettori grazie ai quali ci facciamo conquistare da una certa estetica, affascinare da un determinato brand. Servono modelli a lungo termine, più che a breve: l’ispirazione, per le squadre che non hanno ancora la solidità della Juventus, deve essere quella di Tottenham e Atlético, una classe media che ha saputo essere attrattiva – grazie al gioco espresso e all’ideologia costruita – in modo nuovo per investitori, giocatori e pubblico mondiale.

Guardando anche agli andamenti delle maree economiche, è la categoria dei “giovani”, in questi anni, a rappresentare il taglio più pregiato del calcio mondiale. Mantenere in Italia ragazzi come Chiesa e Zaniolo, due tra i migliori under 23 probabilmente al mondo, è segno di una ritrovata solidità da un lato, e di una buona strategia sportiva e di marketing dall’altro – e le “perdite” di Cutrone e Kean, comunque molto diverse tra loro, non sono drammatiche ma naturali, per un campionato che storicamente non sa né riesce a esportare talenti. Altre luci nella notte, da questo punto di vista, si intravedono: il grande talento dell’Under 21, il buon Mondiale dell’Under 20. I dati sull’età media vanno presi con cautela: la Serie A è in linea con Liga e Premier (27,3 anni in media) ma avere squadre particolarmente “anziane”, come la Juventus, non è un problema di appetibilità: anche il Barcellona campione di Spagna ha una media anagrafica superiore ai 28 anni.

Guardando alle panchine, i ritorni di Antonio Conte (vincitore di una Premier League impressionante nel 2017) e Maurizio Sarri (campione in carica in Europa League), uniti al consolidamento del Maestro Carlo Ancelotti, fanno della nuova Serie A un campionato con un “pulling power” fortissimo, secondo soltanto alla Premier League, dal punto di vista dei manager. Per ricostruire un panorama servono anni, e ancora più sforzi che per crearlo dal niente: perché bisogna pulire le macerie, prima, e analizzare le cause del crollo precedente. La Serie A è solo all’inizio di questo processo, e non possiamo nemmeno considerarlo, per il momento, un processo pienamente avviato. Mancano moltissimi passi: nell’offerta televisiva, negli stadi, nei bilanci, nelle proprietà, nell’indirizzamento a livello organizzativo di un prodotto che sappia guidare le squadre, e non soltanto vivere di luce riflessa dai successi dei singoli. Mancano anni, per tornare a essere il campionato più bello del mondo, ma la sensazione è che, tolti i detriti di decenni passati, la prima buona semina sia stata fatta.

Dal numero 29 di Undici