Il Manchester City di Guardiola è meno perfetto rispetto al passato

Eppure questo potrebbe essere l'anno giusto per la Champions.

Due terzini, sette centrocampisti, due attaccanti davanti al portiere. Nella partita di Selhurst Park, stadio del Crystal Palace, Guardiola ha schierato il suo Manchester City senza centrali difensivi di ruolo, non nominalmente almeno. Nei due slot di centrali della terza linea a quattro – che nel caso specifico vuol dire posizionarsi mediamente a cinque metri dalla linea di metà campo – hanno giocato Fernandinho e Rodri, due che normalmente si alternerebbero nello slot di mediano. Una scelta non legata al valore dell’avversario, infatti non si trattava di una partita semplicissima, non sulla carta almeno: il Crystal Palace veleggia in piena zona Europa League e il City veniva da una sconfitta contro il Wolverhampton prima della pausa per le Nazionali. La scelta di Guardiola è in realtà un manifesto del suo modo di lavorare, di gestire la rosa, di governare lo spogliatoio. Soprattutto in questa stagione, in cui mettere e mettersi alla prova è una necessità assoluta, perché il City ha bisogno di trovare nuovi stimoli dopo due strepitosi successi in Premier League con 198 punti conquistati.

La formazione scelta per affrontare il Crystal Palace ci ha ricordato quanto Guardiola ami sperimentare, in allenamento e in partita, usando consapevolmente stravolgimenti anche solo difficili da immaginare per tenere alto il livello di tensione nella sua squadra. È un approccio tattico e tecnico che responsabilizza tutti settimana dopo settimana, che sconfina nella sfera umana, perché determina il rapporto che Guardiola ha con i giocatori: è come se il tecnico catalano sfidasse i suoi uomini, creando per loro condizioni estranee alla loro comfort zone. Un modo per impedire che si rilassino ma anche una necessità, come detto, dopo le due ultime stagioni di assoluto dominio domestica. Così la vittoria finale per 0-2, con gol di Gabriel Jesus e David Silva, diventa un dettaglio quasi laterale della partita. Al tempo stesso, però, il punteggio maturato a Selhurst Park è stato fondamentale, non solo in termini di classifica  – i Citizens avevano assolutamente bisogno della vittoria, erano a meno otto dal Liverpool e ora sono risaliti a meno sei, grazie al pareggio dei Reds in casa dello United –, ma soprattutto nell’economia dell’intera campagna del City. Perché la squadra di Pep Guardiola ha dimostrato di poter essere ancora devastante quando gioca al massimo, anche dopo un cambiamento così radical.

Il punto è che Guardiola sa di vivere una situazione particolare per questa sua quarta stagione al City. Quattro anni sono un tempo lunghissimo per un tecnico come Pep, per come Pep intende i cicli di un tecnico su una panchina. Soprattutto su una così importante. Al Bayern è rimasto per tre stagioni; al Barcellona ha resistito un anno in più, ma il rapporto del catalano con i blaugrana è diverso da qualsiasi altro rapporto allenatore-club, forse nella storia. Annunciando il suo addio al Barça, nel 2012, disse: «Quattro anni sono un’eternità per chi guida il Barcellona. Rimanere qui vuol dire essere presente ogni giorno, con grande energia, per contagiare la squadra e tutto l’ambiente, con grande concentrazione ed enorme passione. Nessuno può immaginare cosa abbia rappresentato per me raggiungere certi risultati e vedere la qualità del gioco che abbiamo espresso. Ma ora devo fermarmi. Quattro anni a questi livelli sono un’eternità e adesso sono stanco. A un certo punto ho capito che il mio ciclo era finito». Inoltre, c’è un discorso che abbiamo già fatto percepire in queste righe: per il Manchester City 2019/20 pesa, tanto, l’obiettivo imposto dalla dirigenza emiratina: vincere la Champions League.

Lo ha detto lo stesso Guardiola: «so che alla fine sarò giudicato sulla base di questo, se l’avrò vinta oppure no». Sembra un’ingiustizia, in termini sportivi, perché il lavoro di Guardiola al City va ben oltre i risultati sul campo. E perché la Champions è, per definizione, la competizione più incontrollabile, più soggetta agli episodi, quella meno programmabile. Guardiola ha sempre rifiutato questa visione resultadista del mondo del calcio, preferisce imporre la sua idea di gioco per tutta la stagione, tutti i giorni, anziché puntare tutto sul tentativo di vincere una competizione episodica che si gioca in partite da win or go home da febbraio a maggio, in cui anche un tocco di mano dell’attaccante di riserva dei tuoi avversari, o una decina di centimetri in fuorigioco, possono fare la differenza tra eliminazione e qualificazione. Tra vittoria e sconfitta. Ma quest’anno potrebbe essere diverso: il City sembra avere più possibilità in Champions che in Premier. E non solo per colpa del Liverpool.

Delle sue 187 partite alla guida del Manchester City, Guardiola ne ha vinte 137; nelle restanti 50, 25 pareggi e altrettante sconfitte (Alex Pantling/Getty Images)

La sensazione è che il Manchester City non sia più in grado di reggere l’eccellenza richiesta dal suo allenatore per tutta la stagione, su tutte le competizioni, sessanta partite l’anno. Non può più reggere l’utopia che ha portato in campo nelle ultime due annate. Allo stesso tempo, però, dimostra di poter ancora replicare a intermittenza quei picchi assoluti di rendimento che ha raggiunto negli ultimi anni. Può succedere quando trova la carica giusta, e questa è un’altra angolazione da cui leggere gli esperimenti di Guardiola: contro il Watford, per esempio, nel match di Premier vinto 8-0; o in Champions, dove ha portato a casa sei punti in due partite con cinque gol fatti e zero subiti, concedendo solo due tiri nello specchio in 180 minuti. Queste vette di qualità sono anche individuali, come quelle di un Kevin De Bruyne che, a 28 anni, sembra essere pronto per prendersi il titolo di giocatore più decisivo del calcio europeo, ben al di là dei due gol e nove assist nelle prime nove presenze stagionali – non a caso, viene da dire, le due sconfitte con Norwich e Wolves sono arrivate in sua assenza.

L’impossibilità di mantenere questi apici di rendimento su lunghe distanze è fisiologica, considerando il dispendio di energie, fisiche e mentali, dell’ultimo biennio: Guardiola è un allenatore estremamente esigente in termini di dedizione e professionalità per i suoi calciatori, e un suo quarto anno di gestione diventa forse insostenibile. Quindi è prevedibile che il Manchester City perda punti per strada in una competizione sfibrante come la Premier League il City – come d’altra parte è già successo in tre occasioni, tra l’altro contro avversari di qualità leggermente inferiore (Tottenham) o molto inferiore (Norwich e Wolves).

In questa stagione, il Manchester City ha accumulato 19 punti nelle prime nove partite di Premier League: è il peggior avvio domestico del’era Guardiola (Lindsey Parnaby/AFP/Getty Images)

Allora le sperimentazioni di Pep non mirano più all’eccellenza come un valore assoluto, quasi astratto, piuttosto a sopravvivere in funzione di un obiettivo, anzi l’obiettivo, inteso come unico possibile, che quest’anno sembra alla portata più di altre volte. È una situazione paradossale: Guardiola è l’allenatore dell’era moderna che più di tutti ha mostrato e insegnato come il valore potenziale di un sistema possa essere più alto della semplice somma dei suoi interpreti. Invece, al quarto anno in Inghilterra, con una squadra che ha interiorizzato gli automatismi ma non ha più la potenza nel motore per metterli in pratica ogni volta, tutte le volte, il suo City sta imparando a vincere (anche) giocando sui momenti, sfruttando gli episodi e navigando sul flusso della partita, pronto ad esplodere in pochi istanti di arte in movimento. È quella capacità di aggiungere qualcosa di più nelle partite che contano, necessaria per vincere la competizione meno intellegibile di tutte, quindi più difficile da pronosticare.

Il Manchester City di quest’anno è forse meno meccanicamente perfetto rispetto al passato, ma sa ancora trasformarsi in un’onda anomala incontrastabile, contro qualunque avversario. Se davvero riuscisse a comprendere e a gestire davvero questa sua nuova caratteristica, qualora imparasse a individuare i suoi momenti migliori, per poi controllarli e riprodurli quando più serve, allora potrebbe davvero essere l’anno buono per la Champions. E allora a quel punto anche il City-di-Guardiola entrerebbe nella leggenda, senza alcuna possibilità di discussione.