Il campo, la Nazionale e la nuova popolarità: intervista al portiere della Juventus e dell'Italia.
Laura Giuliani si è ritrovata a fare il portiere (così lei si definisce, ma è bello anche portiera) quasi per caso. Anzi quasi inevitabilmente, visto che «ero la più alta di tutti, non correvo perché non mi piaceva correre, non sapevo ancora dare un calcio al pallone», come racconta lei. La incontro in un pomeriggio di ritiro a Roma, mentre con la Nazionale sta preparando le partite di qualificazione all’Europeo, che si terrà in Inghilterra nel luglio 2021. Dopo Israele e la Georgia (entrambe battute tra fine agosto e settembre), ci sono Malta e la Bosnia Erzegovina (il 4 e l’8 ottobre) e poi, a novembre e aprile 2020, il ritorno. A giugno e a settembre prossimi c’è anche la Danimarca, che nell’Europeo del 2017 è arrivata seconda, e che un po’ di preoccupazione la dà. Il 27 ottobre, giusto per aggiungere un altro po’ di carico, c’è anche la finale di Supercoppa italiana con la Fiorentina, che l’anno precedente ha negato «un bellissimo triplete» alla Juventus che già aveva campionato e Coppa Italia.
La quotidianità di Giuliani, ventiseienne originaria di Milano, è questa cosa qui, com’è normale che sia per uno sportivo professionista, se non fosse che quando si parla di calcio, o più in generale di donne che fanno sport a livello agonistico in Italia, c’è sempre da considerare il fatto che le nostre atlete non possono accedere a quella legge dello Stato – la n. 91 del 1981, la citeremo ogni volta finché non verrà cambiata – che regola i rapporti tra società e sportivi professionisti. Quindi sono delle dilettanti, bisogna ripetere pure questo, anche perché quando chiedo a Giuliani che differenza c’è tra la Germania, dove ha giocato per cinque anni prima di arrivare alla Juventus nel 2017, e l’Italia, lei non esita mica. «La differenza è in realtà il professionismo: lì sei una professionista, almeno sulla carta. Poi è vero che non tutte le squadre fanno professionismo, a volte sono delle “dilettanti professioniste”, se così si può dire, per cui tante ragazze si allenano tutti i giorni, ma vanno anche a scuola o fanno Ausbildung [un percorso di formazione professionale, nda] e si allenano il pomeriggio tardi o la sera. È anche un campionato diverso dal nostro, ma quando sono andata via dall’Italia [nel 2012, nda] era il miglior campionato d’Europa».
Oggi il calcio femminile tedesco, che ha vissuto un processo di crescita esponenziale soprattutto dopo che il Paese ha ospitato i Mondiali nel 2011, attraversa un momento di difficoltà, mentre altrove l’investimento in questo momento delle calciatrici è diventato quasi una sorta di febbre, che il Mondiale di Francia, e le braccia aperte di Megan Rapinoe, hanno finito per consacrare anche nell’immaginario collettivo. Quando nel 2012 Giuliani è andata a giocare a Gütersloh, squadra dell’omonima città della Renania Settentrionale-Vestfalia, infatti, «non c’erano ancora i campionati inglese, francese e spagnolo, che sono oggi quelli che incarnano l’evoluzione migliore del calcio femminile». In Italia stiamo iniziando adesso, «con un ritardo di almeno dieci anni rispetto agli altri, ma siamo ancora in tempo per cercare di colmare quel gap che esiste a livello strutturale e, soprattutto, culturale». Perché l’accesso al professionismo è fondamentale, ma lo è anche il sistema in cui le atlete giocano, e tutto quello che sta loro intorno.
Lo sa bene Giuliani, che «nel nostro Paese c’è una cultura ancora arretrata, se mi passi il termine, non solo quando si tratta di calcio femminile, ma di sport in generale: lo si nota ancora di più guardando i passi in avanti fatti dalle altre nazioni. Per questo, secondo me, bisogna lavorare sulla cultura prima di ogni cosa, cambiare il punto di vista tradizionale, eliminando i pregiudizi. Solo eliminando quei pregiudizi sarà più facile, per le nuove generazioni, abituarsi a vedere le donne in ruoli come il mio: è questa l’evoluzione». Una cultura primitiva che vediamo sbattere ormai quotidianamente su temi come il razzismo, in campo e nelle curve, e sulle reazioni sempre insufficienti, quando non oltraggiose, di dirigenti e istituzioni. Anche le giocatrici hanno i loro troll, ma hanno anche un sempre più folto esercito di fan, come dimostra il balzo nei follower dei loro profili Instagram: quando, ad esempio, ho intervistato Cristiana Girelli per il numero di maggio di Undici, la numero 10 della Juventus ne aveva 37.000, ora ne conta 122.000. Ne ha quasi 120.000 mentre scrivo, invece, Giuliani, che durante il Mondiale è diventata la paladina di Twitter – ribattezzata con affetto il muro italiano, due soli gol presi, nessuno su azione – e che nelle sue Stories (mai troppe) e nei post (misuratissimi) ricondivide gli amici, le compagne, il fidanzato, i regali che le fanno, le vacanze o il vestito elegante messo la sera prima – «Mi piacciono quelli lunghi, e mi piacciono i tacchi», mi dice.
Ma com’è usare i social, ora che c’è tutta questa attenzione, tutto questo scrutinio? Lei non si scalfisce, «Personalmente non vivo i social come un impegno, ma come un divertimento. Per me postare foto o Stories significa raccontare la mia quotidianità e cerco di farlo sempre attraverso il mio lavoro. Dall’altra parte, tutta la visibilità di questo momento è accompagnata dall’obbligo e dalla responsabilità, per noi, di insegnare qualcosa». Perché c’è da cambiare quella cultura, e c’è da farlo anche dove quella cultura oggi passa, quindi anche su Instagram: «Oltre a essere un personaggio pubblico sei anche un esempio, per tante bambine e per tanti bambini, per cui devi mantenere la tua integrità morale e personale per portare avanti le tue idee, per dare il buon esempio. A parlare sono bravi tutti. È vero anche, però, che noi tutta questa visibilità ce la siamo guadagnata e dobbiamo cercare di mantenere una linea propositiva nei confronti delle nuove generazioni, sapendo di essere state delle precorritrici di una cultura che prima non c’era, e che noi stiamo costruendo».
Mentre dice queste cose, Laura Giuliani scherza con la fotografa e l’assistente di scena, ci fa googlare improbabili somiglianze – tira fuori riferimenti inspiegabilmente vintage per la sua età, come Le avventure di Bianca e Bernie – e si concede a patto che le promettiamo di essere veloci, perché ha appena finito un allenamento e vorrebbe avere il tempo di riposarsi, immaginiamo anche di farsi un po’ i fatti suoi. Davanti all’obiettivo è sicura come una che sa portare a casa il risultato, che poi è un po’ il suo mestiere, e che è abituata a non tirarla tanto per le lunghe. Le chiedo se è difficile fare il suo lavoro e studiare allo stesso tempo (è iscritta a Scienze Motorie indirizzo Calcio all’Università telematica San Raffaele) e lei mi risponde che no, anzi «Per noi è abbastanza facile, perché ad esempio a Torino ci alleniamo dalle 11:30 fino alle 14:30-15, poi sei a casa e hai tutto il tempo di studiare. Se lo vuoi fare, lo fai». Come quando, dopo aver passato le elementari a giocare a calcio sul cemento con i compagni dell’oratorio, ha chiesto a suo padre se poteva fare un provino per la scuola di calcio da dove passavano ogni giorno per accompagnare sua sorella a scuola. «Lui mi ha risposto: “E che problema c’è, proviamo a chiedere e andiamo”», e lei è diventata il numero 1 della Nazionale.