In un paese come l’Argentina, che calcisticamente continua ad incarnare i topoi di un Sudamerica che ormai non esiste più se non tra le pagine di Osvaldo Soriano ed Eduardo Galeano, il racconto di Marcelo Gallardo costituisce un punto di rottura significativo, la definitiva uscita da una serie di schemi fuori dal mondo e dal tempo e che appaiono ancor più retorici e inutilmente ridondanti se applicati a un tecnico che in panchina è così decisionista, così influente, così sicuro di sé. Tanto da meritarsi un soprannome, “Napoleón”, per il quale non servono traduzioni o spiegazioni. Questo cortocircuito narrativo è tale solo in apparenza visto che, in realtà, tutto ciò che riguarda Gallardo è coerente con il suo modo di essere il tecnico del River Plate più dominante dell’era moderna. Un classico allenatore sudamericano che però è da sempre proiettato verso quell’idea di calcio globale (e globalizzato) che per tanti anni era stata osteggiata da un conservatorismo che aveva relegato l’Argentina, l’Uruguay e gli altri paesi di madrelingua spagnola al ruolo, non sempre comodissimo, di periferia dell’impero calcistico. E non solo in senso geografico.
Non bisogna infatti pensare che la storia di Gallardo, l’uomo che ha restituito al River Plate una dimensione internazionale da River Plate – sei trofei e tre finali di Copa Libertadores in poco più di sei stagioni –, sia così vicina ai luoghi comuni di un calcio fin troppo romanzato, dalla connotazione talvolta inutilmente epica. Il principale tra i tratti distintivi dell’allenatore argentino, infatti, è stato il modo (tutto suo) con cui è stato in grado di costruirsi la credibilità necessaria affinché, oggi, l’ex ct del Cile Claudio Borghi lo indichi come uno dei principali candidati alla panchina del Barcellona in caso di esonero di Valverde.
In effetti, l’analisi del percorso di Gallardo ribalta totalmente le prospettive che sono solite descrivere l’allenatore del XXI secolo: nel 2011, al Nacional, passa dal campo alla panchina pochissimi giorni dopo aver annunciato il suo ritiro, poi vince subito il campionato nazionale; dopo trascorre due stagioni in giro per il mondo per studiare e comprendere le evoluzioni del gioco, gettando le basi di un ciclo che lo porterà a conquistare, con il River Plate, Copa Sudamericana, Recopa e Copa Libertadores nello spazio di un anno. Gallardo è quindi un tecnico precoce e rampante, ma ha anche mostrato di avere grandi capacità strategiche, ha dato alla sua squadra un’impronta e un’identità riconosciute e riconoscibili, al netto della relativa quantità di talento dei giocatori a disposizione. Questa caratteristica fa di lui, al momento, la migliore personificazione possibile della sintesi tra la filosofia della scuola sudamericana e il pragmatismo di quella europea, orientata verso un’organizzazione e un professionismo di alto livello in campo e fuori. Non un caudillo alla Ramón Díaz o alla Daniel Passarella ma nemmeno un liturgico celebrante del gioco alla Marcelo Bielsa, che – esattamente come accaduto per i coevi Sampaoli e Pochettino – è stato comunque il primo modello di riferimento.
La progressiva cesura con Bielsa non è, però, un fatto esclusivamente di campo: «Non mi interessa essere un “amico” dei giocatori ma sono comunque attento a come si sentono, per capire se c’è qualcosa che non va nel loro intimo che possa condizionare la prestazione. L’approccio di Bielsa è più professionale, non ricordo che abbia mai instaurato un rapporto di tipo affettivo con i suoi calciatori. Comunque si tratta solo di un modo di gestire le cose, io penso che ce ne siano altri, altrettanto validi», ha detto nell’aprile scorso in un’intervista rilasciata al sito della Conmebol, in quella che è stata una delle rare, per non dire l’unica, concessioni agli aspetti emozionali del gioco, quantomeno dal punto di vista dialettico.
Per quanto riguarda gli aspetti prettamente tattici della filosofia di Gallardo, è sufficiente osservare un River Plate che è “suo” nel significato più puro del termine, nella misura in cui l’evoluzione della squadra è andata di pari passo con quella del tecnico. Il River 2014/2015 era una squadra feroce, diretta, dalla vocazione offensiva quasi “primordiale”, metronomica nei movimenti e nell’occupazione preventiva degli spazi, con degli automatismi (con e senza palla) talmente codificati nella loro ripetitività da fissare un nuovo standard di eccellenza, la pietra di paragone per tutti i prossimi River che verranno.
Con il passare del tempo, delle partite, delle stagioni, Gallardo però si è dimostrato in grado di adattarsi alle contingenze di un contesto tecnico che lo ha privato, di volta in volta, dei suoi migliori elementi, adattando il sistema ai suoi interpreti e non il contrario. Che, poi, è il motivo per cui il River si è imposto – senza eccessive difficoltà e andando oltre la retorica guerriera dei “Superclásicos tra i Superclásicos” – negli ultimi due derby di Libertadores (finale 2018 e semifinale 2019) contro il Boca. Rose alla mano, gli Xeneizes erano (e sono) certamente superiori nelle principali individualità offensive, ma si sono trovati di fronte un collettivo equilibrato e solido e che aveva sempre un’efficace contromisura di squadra da opporre alle iniziative isolate dei singoli.
È evidente come Gallardo attui una preparazione fisica, tattica e mentale per certi versi sconosciuta a quelle latitudini, soprattutto nelle partite in cui la componente emotiva rischia di prendere il sopravvento: «Mi piace che la mia squadra sappia interpretare i momenti», ha detto in un’intervista, «e che prenda l’iniziativa, perché in questo modo il percorso che porta alla vittoria è più breve. Se c’è la possibilità di essere la squadra che domina il gioco e il possesso, in grado di replicare quelle situazioni provate in allenamento, allora è giusto che i giocatori facciano quello per cui si allenano e dettino loro il ritmo. Ma bisogna anche capire che ci sono momenti in cui queste condizioni non sussistono e allora ho bisogno di giocatori che sappiano come uscire fuori da situazioni non previste e allenate». In virtù di queste considerazioni, se oggi volessimo tracciare il profilo del giocatore ideale di e per Marcelo Gallardo, dovremmo rintracciare un elemento multidimensionale, dalla sviluppata capacità di lettura e reazione, e in grado di svolgere il compito (o i compiti) richiesto mettendoci il massimo dell’intensità
Che si tratti di Santos Borré, dello sfortunato Quintero, del “Pity” Martinez, di Leo Ponzio (che è stato a lungo il vero equilibratore della mediana dei Millionarios), dei due “gemelli” Alario e Driussi, chi ha giocato, gioca e giocherà per Gallardo deve sottostare a quell’idea di dinamismo che è alla base di tutto. Non si tratta più di scegliere tra tecnica e velocità, ma di sviluppare la tecnica in velocità esercitandola attraverso un possesso palla che sappia essere, in determinate circostanze, più conservativo e meno vertiginoso, riprendendo quell’idea di “difendersi con la palla” mutuata dal juego de posición che Guardiola ha elevato a forma d’arte contemporanea. Anche in questo caso si tratta di due principi in controtendenza a parole più che nei fatti, l’ennesima felice commistione tra due elementi in antitesi che ritorna ciclicamente nella storia dell’unico uomo in grado di vincere la Libertadores con il River sia da giocatore che da allenatore.
Indipendentemente da come andrà la finale di Lima contro il Flamengo, la prima in gara unica nella storia della Copa Libertadores, Gallardo sembra essere arrivato alla conclusione del suo percorso in un contesto per il quale risulta già oggi, a 43 anni e con sette stagioni in panchina alle spalle, sovradimensionato per quantità e qualità delle conoscenze assimilate. Serve un nuovo banco di prova, serve quell’Europa che da tempo è la sua destinazione naturale e che troppo a lunga è stata messa in secondo piano rispetto all’idea di tornare a far rispettare la legge del “Más Grande” in tutto il Sudamerica. Una scelta inspiegabile per chiunque tranne che per Marcelo Gallardo, l’allenatore argentino che ha cambiato l’idea stessa di allenatore argentino.