Il Manchester United ha sbagliato tutto, per anni. E sta sbagliando ancora

La crisi della squadra di Solskjaer ha radici molto profonde.

Un anno dopo il suo esonero, José Mourinho è pronto a tornare a Old Trafford. Prenderà posto nelle caratteristiche panchine a contatto con i tifosi, quelle delimitate dai muretti in mattoni rossi, un simbolo dello stadio del Manchester United, della Premier League, del calcio inglese. Guarderà verso il campo, vedrà il Tottenham impegnato in una grande classica, in una partita sempre suggestiva, guiderà la sua squadra contro una squadra che è stata costruita da lui. E che, esattamente come succedeva ai suoi tempi, non sembra essersi scrollata di dosso una sensazione di staticità, anzi di blocco temporale, creativo, istituzionale.

Certo, i problemi del Manchester United si sono materializzati ben prima dell’avvento di Mourinho. Anzi, sembrava che l’arrivo del portoghese potesse essere l’unica cura possibile per un club che, dopo il regno infinito e totalitario di Alex Ferguson, aveva fatto una fatica tremenda per mettersi al passo con il mondo – un mondo che nel frattempo si era evoluto, era diventato molto più complesso. Prima di José, lo United aveva già fatto due tentativi in tre anni: all’indomani del ritiro di Ferguson, la dirigenza aveva provato la strada della successione “interna”, aveva messo sotto contratto (per sei stagioni) David Moyes e aveva deciso di non rivoluzionare la rosa. Un esperimento fallimentare, ribaltato già un anno dopo dall’arrivo di Louis van Gaal. L’allenatore olandese aveva avviato un piano a lungo termine, basato su un mercato molto dispendioso e su un sistema tattico ambizioso, che il Telegraph definì con termini impegnativi: «La Grande Muraglia Cinese fu un progetto colossale, realizzato attraverso spese quasi inconcepibili: un monumento di 5.500 miglia alla leadership autocratica, alla vanità culturale e diplomatica. Si può dire la stessa cosa del progetto da 250 milioni di sterline dello United e di Louis van Gaal. Certamente un atto di maestosa ingegneria del calcio, che voleva invertire la parsimonia e l’incuria degli ultimi anni dell’era Glazer nello spazio di una sola stagione». Con Mourinho, la strategia era più chiara e semplificata e immediata: arrivarono Pogba, Ibrahimovic e Mkhitarian, Jamie Carragher aveva spiegato come Mou fosse «un vincitore seriale, del resto allo United, oggi, vogliono semplicemente riempire la bacheca con dei trofei. E hanno scelto l’uomo migliore per questo lavoro».

Queste differenze così marcate nella scelta del nuovo allenatore, del suo stile manageriale, mostrano chiaramente il vero problema del Manchester United post-Ferguson: la mancanza di una visione, di una direzione imposta dall’alto, quindi la conseguente – e inevitabile – assenza di un progetto sportivo coerente, pensato e attuato per durare nel tempo, per governare variabili e determinanti senza farsi condizionare dagli umori derivati dei risultati sul campo. Non a caso, Mourinho è rimasto in carica finché il Manchester United ha avuto un rendimento buono o comunque accettabile. Appena è mancato il supporto dei numeri, l’intero edificio si è sgretolato. Esattamente come era capitato ai suoi predecessori.

È inevitabile, dunque, pensare che il problema sia da rintracciare nelle fondamenta. I tifosi avversano – in maniera anche molto violenta – la famiglia Glazer, che detiene la proprietà del club, e il vicepresidente esecutivo Ed Woodward, imputando loro una gestione orientata esclusivamente agli aspetti commerciali, come se il Manchester United fosse un brand da far fruttare senza passare dal campo da gioco, dalle classifiche, dagli albi d’oro. È una sensazione verificata dalla realtà, nella realtà: nonostante i risultati dello United siano deludenti da anni – i trofei vinti da Mourinho e van Gaal, un’Europa League, una Fa Cup, una Coppa di Lega e un Community Shield, non bastano a controbilanciare sei stagioni senza titolo nazionale e otto senza raggiungere le semifinali di Champions League –, il club ha fatturato circa 710 milioni di euro nella stagione 2918/19, chiudendo il bilancio in positivo per 21,4 milioni. Il punto è che anche il rifugio degli introiti commerciali, che incidono per il 39% sul fatturato, è destinato quantomeno a ridimensionarsi senza successi sportivi: Calcio&Finanza ha preannunciato una contrazione degli introiti nel prossimo esercizio a causa della mancata partecipazione alla Champions League. Non sarebbe un problema, se non fosse che le spese sono altissime – il monte ingaggi supera i 188 milioni di euro, la quota più alta di tutta la Premier League, almeno ufficiosamente – e i risultati continuano a essere molto deludenti.

David de Gea è il giocatore più pagato nella rosa del Manchester United e dell’intera Premier League: il suo stipendio è tra i 19 e i 23 milioni di sterline annui (Catherine Ivill/Getty Images)

Lo United si è rinchiuso da solo in un vicolo cieco: la mancanza di successi ha portato il club a rivoluzionare praticamente ogni anno il suo progetto, a cambiare allenatori e giocatori, solo che la mancanza di un’identità gestionale ha fatto in modo che tutti questi processi avvenissero senza una logica, semplicemente accumulando stipendi da pagare – Alexis Sánchez, per esempio, è stato ceduto in prestito secco all’Inter ma continua a incassare circa 7 milioni di euro a stagione dai Red Devils. Non a caso, la rosa gestita oggi da Solskjaer è la più costosa in termini di ingaggi di tutta la Premier, ma è addirittura la quinta del campionato inglese per valore totale dei giocatori (fonte Transfermarkt). Questi e altri squilibri sono inaccettabili per un club così prestigioso, e secondo alcuni commentatori autorevoli – per esempio Jacob Steinberg del Guardian –, sono da attribuire alla mancanza di un dirigente che faccia da cuscinetto tra la società e la squadra, che si occupi del mercato e di altri aspetti gestione sportiva al posto dell’allenatore, oppure collaborando con lui, in pratica di quel Director of Football che è equiparabile al direttore sportivo delle società di Serie A e che sta diventando un professionista necessario per tutte le società calcistiche moderne, anche quelle di Premier League – al punto che il manager all’inglese, inteso come riferimento storico, è una figura destinata all’estinzione.

È come se il Manchester United fosse rimasto sospeso nel tempo, perdendo contatto con la realtà circostante. Una condizione che ovviamente si è riflessa sulla squadra, nel senso che la crisi progettuale ha finito per alimentare un’altra crisi inevitabile e consequenziale, quella dei risultati e del gioco. La classifica della Premier vede lo United più vicino alla zona retrocessione che al quarto posto che vale l’accesso in Champions, in Europa League i Red Devils sono qualificati ai sedicesimi ma non sono ancora certi del primo posto nel girone; le sole note positive arrivano dalla League Cup, in cui la squadra di Solskjaer ha eliminato il Chelsea agli ottavi di finale e ora è attesa dal Colchester nei quarti. Se il cambio in panchina tra Mourinho e Solskjaer aveva in qualche modo rinfrescato l’ambiente e l’impianto di gioco dello United, l’effetto è svanito praticamente subito, e così sono riemersi i problemi strutturali dell’organico. Una delle letture più efficaci sull’impatto breve del tecnico norvegese è quella di Jonathan Wilson: «Al suo arrivo, Solskjaer ha cercato semplicemente di utilizzare un sistema tattico meno bloccato, più fluido nella corsa e nell’atteggiamento, rispetto a quello di Mourinho. Alcuni giocatori dello United si sono sentiti liberati dal cambio in panchina, e così sono arrivati quasi tre mesi di gloria, 14 vittorie in 17 partite. Dopo, però, sono iniziati gli infortuni in serie e la regressione del modello di gioco. Oggi la sensazione è che il successo iniziale di Solskjaer dipendesse dal fatto che lui non fosse Mourinho, semplicemente. La sua leadership non era legata a un programma sistemico, piuttosto alla ricerca di risultati immediati che sono arrivati e poi si sono sgonfiati. Ma è vero anche che la rosa è troppo frammentata, è formata dai resti di quattro gestioni tecniche molto diverse, è quasi impossibile da allenare».

Rashford è il capocannoniere stagionale del Manchester United: 10 gol in tutte le competizioni (Oli Scarff/AFP via Getty Images)

Si torna sempre allo stesso punto, inevitabilmente. È difficile pensare che possano esistere dei rimedi tecnici o tattici per superare difficoltà così radicate, la disorganizzazione è talmente profonda che il Manchester United è stato definito da The Athletic come «la squadra che non sa creare occasioni da gol su azione manovrata» – sono parole che danno il titolo a questo articolo, ricco di statistiche e di riferimenti tattici. Il paradosso, anzi il vero problema è che le difficoltà di Solskjaer sono le ultime in ordine di importanza, sono l’effetto di un malessere che si è originato ai vertici della società, che ha condizionato addirittura la gestione e la manutenzione di Old Trafford (diventato un impianto ormai vetusto, anacronistico), che ha finito per infettare tutti i reparti del club. E che sembra ben lontano dall’essere debellato. Alla presentazione del bilancio relativo al primo trimestre della stagione 2019/20, Ed Woodward ha spiegato come la visione della dirigenza per il futuro del Manchester United sia «estremamente chiara, soprattutto in termini di filosofia e acquisti concordati con il manager: il nostro obiettivo finale è vincere trofei giocando a calcio in maniera entusiasmante, con una squadra che fonde giocatori della nostra Academy con acquisti di livello mondiale».

La realtà è molto diversa: il Manchester United possiede effettivamente il miglior vivaio della Premier per numero di calciatori che militano nel massimo campionato inglese, ma il lancio di nuovi prospetti da parte di Solskjaer sta avvenendo in modo disordinato. Dopo 21 partite stagionali in tutte le competizioni, solo Rashford e McTominay, calciatori che si sono ritagliati un ruolo in prima squadra molto prima della nomina del manager norvegese, hanno giocato più di tre match da titolare in Premier; Williams, Greenwood e Tunazebe hanno avuto spazio più che altro a partita in corso (nessuno di loro supera i 600 minuti in campo in tutte le competizioni) oppure in Europa League, un torneo affrontato in maniera grottesca – basti pensare ai giocatori schierati (Lingard, Shaw, il terzo portiere Grant, lo stesso 22enne Tunazebe e sette elementi nati tra il 1999 e il 2001) ad Astana, in una partita che avrebbe potuto chiudere il discorso per il primo posto e invece è stata inevitabilmente persa. Al Manchester United, insomma, tutto sta procedendo esattamente come negli ultimi anni, senza un metodo, senza reale organizzazione; sono cambiati solo i nomi e le facce dei protagonisti, ma non i risultati. E la sensazione è che il ritorno alla normalità, cioè all’inevitabile grandezza di uno dei club più importanti del mondo, sia ancora lontano nel tempo.