La rivoluzione difensiva di Maurizio Sarri

Come l'allenatore della Juve ha provato e sta provando a cambiare il calcio italiano: un estratto dal libro "Sarri. La scommessa".

L’accezione moderna e spregiativa di “retorica” – un termine che nell’età classica individuava la nobile arte degli oratori – definisce un modo di scrivere e/o di esprimersi ampolloso, ridondante, enfatico ma sostanzialmente vuoto, privo o comunque povero di impegno intellettuale. Ecco, quando si parla di Maurizio Sarri, del calcio di Sarri, e di come la sua rivoluzione sia totalmente centrata sulla bellezza, anzi sulla ricerca della bellezza come obiettivo principale, si cammina su un sottilissimo filo sospeso tra verità incompleta ed esercizio di pura retorica – in senso spregiativo, ovviamente.

La bellezza oggettivamente percepita del gioco di Sarri non è un fine, non è il fine del lavoro di Maurizio-Sarri-allenatore-di-calcio, piuttosto è la conseguenza di automatismi che nascono e vengono perfezionati sul campo di allenamento, ogni giorno, e che si concretizzano perché le squadre di Sarri sono state pensate e costruite e addestrate per rispettare una certa identità. Un’identità che, secondo lo stesso allenatore toscano, si fonda su una fase difensiva di grande intensità, estremamente codificata, e una fase offensiva che crei quei presupposti e quei meccanismi necessari per esaltare qualità dei calciatori a disposizione – e che perciò viene modellata di volta in volta, squadra per squadra, stagione per stagione, giocatore per giocatore, sempre in senso collettivo, ma sempre in modo differente.

È il ribaltamento totale della prospettiva teorica su Sarri, della struttura narrativa costruita intorno alla sua figura e al suo modo di intendere il calcio: il gioco delle squadre di Sarri non è bello perché offensivo, come si potrebbe essere portati a pensare, ma è offensivo – quindi godibile, secondo la percezione comune – perché le squadre di Sarri difendono in avanti, in maniera intensa e aggressiva, come si è visto fare raramente in Italia, perlomeno a certi livelli, e con certi risultati. Dopo, ma appunto solo dopo, il gioco delle squadre di Sarri è bello da vedere perché la manovra d’attacco di queste squadre si sviluppa attraverso uno stile e dei sincronismi che aderiscono perfettamente alla qualità del materiale umano a disposizione, o almeno provano a farlo. Il fatto che le sue squadre riescano ad attaccare bene, che ci siano riuscite spesso, che ci siano riuscite con grande efficacia, ha determinato e alimenta la fama di Maurizio Sarri. Ma la sua rivoluzione inizia altrove, in un altro luogo del campo di calcio, decisamente più arretrato dal punto di vista geografico.

Jonathan Wilson è uno dei giornalisti calcistici più famosi e influenti del mondo, soprattutto per le sue grandi conoscenze sulla storia del gioco dal punto di vista tattico. Ha scritto un libro che è diventato un cult per gli appassionati del genere, “La piramide rovesciata”, in cui ha raccontato l’intero percorso evolutivo delle strategie calcistiche, dagli albori nell’Inghilterra del 19esimo secolo fino all’era contemporanea, passando per l’invenzione del Catenaccio, per l’affermazione del Calcio Totale, per il racconto del Milan di Sacchi e della rivoluzione di Pep Guardiola e del suo juego di posición al Barcellona. Proprio Jonathan Wilson, in un articolo pubblicato su Sports Illustrated nel 2011, ha spiegato come che il calcio italiano sembri «tatticamente moribondo perché continua a basarsi su sistemi antiquati, oltretutto privi di dinamismo, quindi non più efficaci in tutte le situazioni, anche in quella fase difensiva per cui ha sempre rappresentato l’eccellenza assoluta. Quando un modo di giocare penetra nel codice genetico di una nazione e di un movimento calcistico e inizia a caratterizzarli, specie se parliamo di un movimento di questa importanza, ci vuole molto tempo per sradicare le vecchie convinzioni, per cambiare le cose. La situazione non cambia nonostante questo stile finisca per diventare un peso e allora si fa fatica ad andare avanti, a evolversi, a progredire, a rimanere al passo con gli altri».

Da quando è arrivato alla Juventus, Sarri ha messo insieme 17 vittorie, quattro pareggi e una sconfitta in 22 partite ufficiali; i gol fatti sono 41, quelli subiti sono 20 (Javier Soriano/AFP via Getty Images)

Ecco, Maurizio Sarri ha rappresentato e vuole continuare a rappresentare l’antidoto a questa impalcatura storica del calcio italiano, a questo blocco evolutivo che ha caratterizzato gli ultimi anni del nostro movimento. Quella che in Serie A abbiamo identificato come la rivoluzione sarrista – al punto che il sostantivo “Sarrismo” è stato inserito nell’elenco dei vocaboli riconosciuti dall’Enciclopedia Treccani – non è una metamorfosi di tipo offensivo, piuttosto rappresenta un tentativo di portare nel nostro campionato un approccio al gioco già ampiamente utilizzato all’estero, che si basa su ritmi alti e sulla codificazione ossessiva dei meccanismi della fase difensiva, dal recupero palla in zone molto avanzate del terreno di gioco, una dinamica dovuta al pressing spinto a massima intensità, fino ai movimenti della terza linea a quattro – posizionata praticamente a metà campo, un altro sintomo delle distanze ridotte tra i reparti, di un baricentro altissimo. È un modo di interpretare il concetto di gioco passivo, quindi, per estensione, di intendere il calcio, che abbiamo già conosciuto e apprezzato grazie all’esperienza di Arrigo Sacchi, prima al Milan e poi alla guida della Nazionale, a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta del secolo scorso – ovviamente con tutte le differenze specifiche tra i due allenatori, dal punto di vista umano e professionale.

È evidente come queste lezioni siano state annacquate se non del tutto dimenticate dagli allenatori di Serie A, soprattutto per quanto riguarda la parte relativa al dinamismo, all’intensità del pressing, alla ricerca continua del gioco d’attacco inteso come gioco proattivo. Forse il movimento italiano, proprio come sostenuto e spiegato da Jonathan Wilson, ha un’anima tattica geneticamente legata a una visione utilitaristica, per non dire speculativa. Di fatto, Maurizio Sarri si è posto come erede diretto di Sacchi, ha sempre voluto ribaltare questi concetti. E cerca di farlo ancora oggi, così da imporre pienamente e compiutamente una rivoluzione difensiva, nel calcio italiano e del calcio italiano. Una nuova rivoluzione difensiva.

Alfonso Fasano
Sarri. La scommessa
Kenness