La Supercoppa italiana del 22 dicembre al King Saud University Stadium di Riyad è la seconda consecutiva che si terrà in Arabia Saudita – dopo Juventus-Milan giocata lo scorso gennaio a Gedda. È la seconda delle tre edizioni previste nel quinquennio 2018-2023, come da accordi tra Lega Serie A e autorità sportiva saudita. L’anno scorso, l’organizzazione della Supercoppa aveva portato con sé le proteste di moltissimi gruppi di attivisti per i diritti umani e dei giornalisti Rai, che avevano definito «inaccettabile» la scelta di Gedda come città ospitante. Di certo non per motivi nazionalistici, cercati magari da chi avrebbe voluto vedere una competizione italiana in uno stadio italiano davanti a tifosi italiani: queste argomentazioni non reggono, non possono reggere, non nel calcio globalizzato degli anni Dieci e Venti del Duemila, fatto da tornei internazionali itineranti, tornei estivi in tutti i continenti e giocato da squadre che hanno brand riconoscibili a tutte le latitudini. Le vere motivazioni dietro la contestazione erano chiare e precise: l’Arabia Saudita è uno Stato autoritario e repressivo, dove i diritti umani vengono negati tutti i giorni.
Per avere una misura di cosa si intende: le nuove leggi anti-terrorismo saudite permettono discriminazioni di ogni tipo nei confronti dei cittadini sciiti; Amnesty International ha condannato il Regno per l’arresto e la detenzione di attivisti della società civile; il report 2019 di Freedomhouse apre la panoramica sull’Arabia Saudita con la frase «limita quasi tutti i diritti politici e le libertà civili». E poi, ancora, va ricordato l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, uno dei principali critici del regime del Golfo, fatto a pezzi tra le mura del consolato saudita in Turchia. E, ancora, la guerra civile in Yemen, dove dal marzo del 2015 l’Arabia Saudita ha preso le parti del governo nella sua lotta contro la fazione islamica armata degli houthi.
Resta da chiedersi cosa abbia spinto la Serie A a scegliere di giocare la Supercoppa italiana in Arabia Saudita. L’accordo porta in Italia 7,5 milioni di euro per ciascuna delle tre edizioni del torneo. Il dato economico si ferma più o meno qui, almeno il grosso. Quindi nessuna offerta irrinunciabile, che da sola può cambiare il destino del movimento calcistico italiano o delle due squadre che giocheranno la Supercoppa. Oltre a questo, però, vanno considerati altri aspetti: la visibilità del brand calcistico italiano, che viene esportato in un mercato ancora non molto esplorato ma con un potenziale enorme; una questione diplomatica non irrilevante, che aveva sollevato anche l’ex presidente della Lega Serie A Gaetano Micciché dicendo che «il calcio fa parte del sistema culturale ed economico italiano e non può avere logiche diverse da quelle del Paese a cui appartiene». I rapporti diplomatici tra Roma e Riyad risalgono agli anni Trenta, cioè alla nascita del Regno dell’Arabia Saudita, e prevedono accordi economici importanti – l’Italia esporta soprattutto macchinari e armi, e importa in prevalenza petrolio, da quello che è indubbiamente il maggior partner commerciale nella regione.
Solo che nessuna di queste tre motivazioni – entrate economiche, visibilità del calcio italiano, consolidamento delle relazioni diplomatiche – sembra poter legittimare la scelta. L’unico vantaggio potrebbe, anzi dovrebbe essere il cambiamento interno alla società saudita. A differenza dell’anno scorso, quando la partita si disputò a Gedda in uno stadio con dei settori non aperti alle donne, quest’anno la richiesta della Lega di dare libero accesso per tutti gli spettatori, senza più limitazioni per il pubblico femminile, è stata accolta. È la prima volta che le autorità saudite concedono simili libertà per una partita di calcio giocata sul suolo nazionale: la visibilità dell’evento, soprattutto agli occhi del mondo occidentale, ha costretto un cambiamento là dove altrimenti ci sarebbe solo immobilismo.
Tuttavia, c’è più di qualche dubbio sul fatto che sia un cambiamento vero, sostanziale, significativo. Come aveva scritto Karim Zidan su Deadspin nel 2018, prima che il sito fosse svuotato di senso dai nuovi proprietari, «l’ammissione delle donne negli eventi sportivi rappresenta il volto pubblico e progressivo che Bin Salman cerca di presentare, ma non riflette ciò che sta realmente accadendo nel suo Paese. Queste politiche selezionate sembrano liberali, ma sono anche misure superficiali se pensiamo all’oppressione sistematica che le donne devono ancora vivere nel Regno».
Zidan faceva chiaramente riferimento allo sportswashing, ovvero una serie di iniziative – comuni a molti Stati autoritari e repressivi – attraverso cui l’Arabia Saudita tenta di lavare la propria immagine pubblica ospitando grandi manifestazioni sportive. Una tattica per distrarre dalle violazioni dei diritti umani. Lo sport è solo uno strumento: niente fa apparire progressista e simpatico un regime non democratico come uno stadio pieno di spettatori in festa. Dal 2016 Riyad ha iniziato a investire nello “Sports Development Fund”, tracciando le linee guida di un programma che ha portato a organizzare numerosi eventi, dalla prima tappa della nuova stagione di Formula E alle prossime quattro edizioni della Parigi Dakar, dagli incontri di wrestling della WWE alla Supercoppa spagnola del prossimo gennaio – la prima edizione con il format a quattro squadre – e l’amichevole tra Brasile e Argentina.
Ma l’idea apparentemente liberale di promuovere lo sport internazionale in Arabia Saudita nasconde l’assenza di qualsiasi riforma significativa. E i tentativi del Regno di mascherare la realtà alla fine si rivelano vani. Perché buttare la polvere sotto il tappeto non risolve davvero il problema. Ne è un esempio la partita di tennis tra Nadal e Djokovic che avrebbe dovuto svolgersi esattamente un anno prima di questa Supercoppa, al King Salman Tennis Championship. Quel match d’esibizione non c’è mai stato. Tra l’accordo dell’evento e la sua realizzazione c’è stato di mezzo l’omicidio di Jamal Khashoggi; poco dopo è stato lo stesso Djokovic ad annunciare che la partita non si sarebbe giocata. Formalmente per un infortunio di Nadal, per chi vuole crederci. A dimostrazione di come lavare l’immagine pubblica di un Paese costantemente agli ultimi posti in tutti gli indici di rispetto dei diritti umani sia un’operazione abbastanza complicata.
Non è possibile ragionare per compartimenti stagni, far finta che il calcio (o lo sport, in generale) sia separato da questioni politiche. Non di fronte a situazioni così estreme come quella dell’Arabia Saudita. E non prendere una posizione diventa sempre più difficile. Deve averlo imparato anche il pugile Anthony Joshua. Aveva detto che il Regno sta «cercando di fare un buon lavoro politicamente» e che «tutti nel Paese sembrano divertirsi». Inevitabili le critiche delle organizzazioni umanitarie di tutto il mondo: Amnesty International ha sottolineato come il peso massimo sia circuito dalle autorità saudite, o meglio dai 70 milioni di euro che ha incassato per la rivincita del titolo mondiale WBA, WBO, IBF, IBO dei pesi massimi contro Andy Ruiz, disputata a Diriyah sabato 7 dicembre. Forse ha peggiorato la situazione il suo procuratore Eddie Hearn, negando che Joshua stesse prendendo le parti dell’Arabia Saudita. «Non è un endorsement», ha detto, sottolineando che il suo obiettivo non è in nessun caso quello di portare un cambiamento attraverso la boxe. Un po’ come ha fatto l’Arsenal con Özil sulla questione degli Uiguri nello Xinjiang.
Il procuratore di Joshua, come la dirigenza dell’Arsenal, cerca di difendere i suoi interessi, quelli del suo assistito, principalmente per non perdere delle enormi occasioni di mercato. Dimenticando, però, l’impatto che potrebbe avere un’affermazione forte e in opposizione all’autoritarismo di certi regimi. Gli atleti come Joshua potrebbero essere megafono per tante battaglie, potrebbero essere un veicolo per un messaggio di cambiamento che milioni di persone – in Arabia come in altri Paesi – aspettano. In questo c’è una similitudine con la Lega Serie A. Quando Micchichè dice che «il calcio fa parte del sistema culturale ed economico italiano e non può avere logiche diverse da quelle del Paese a cui appartiene», si nasconde nella lunga coda delle relazioni diplomatiche tra Roma e Riyad, fingendo di essere soltanto un’altra goccia nel mare dei rapporti tra i due Paesi. Invece in Italia il calcio avrebbe il potenziale per produrre un cambiamento. Per essere protagonista del cambiamento. Schierarsi politicamente per non giocare nella monarchia del Golfo – e quindi non darle visibilità – vorrebbe dire lanciare un messaggio. Il calcio, inteso come «parte del sistema culturale ed economico» (Miccichè dixit) non può essere confinato al campo, soprattutto in Italia, dove è parte integrante del tessuto sociale molto più di quanto si possa pensare.