Con Arteta, l’Arsenal vuole finalmente entrare nel calcio contemporaneo

Il nuovo manager dei Gunners proverà a fare la rivoluzione, a tutti i livelli.

L’arrivo di Mikel Arteta all’Arsenal è una storia perfetta, cioè sembra essere stata scritta appositamente per raccontare il nostro tempo, l’era calcistica che stiamo vivendo. Il primo ingrediente della contemporaneità è di tipo identitario: il nuovo allenatore dell’Arsenal è stato capitano e giocatore simbolo dell’Arsenal, è stata una figura ammirata dall’ambiente dei Gunners per la sua qualità tecnica ma anche per la sua leadership emotiva. Come Frank Lampard per il Chelsea o Ole Solskjaer per il Manchester United, come Zinédine Zidane per il Real Madrid, come Pep Guardiola per il Barça di dieci anni fa: sono tutti tecnici arrivati a guidare i grandi club che hanno rappresentato per tanti anni come calciatori, è come se fossero riusciti a impadronirsi di uno spazio che già possedevano, di un luogo che già conoscevano, solo facendo leva su nuovi strumenti e nuovi significati – del resto sono diventati allenatori, quindi hanno dovuto proporre per forza delle cose diverse. Il punto, però, è che parliamo di professionisti che sono stati scelti anche perché hanno permesso di rinnovare una vecchia sensazione di appartenenza. Un aspetto che, evidentemente, stimola la fidelizzazione dei fan, alimenta la sensazione di un certo romanticismo delle tradizioni, per cui una società di calcio intende valorizzare la sua storia attraverso un legame nuovo con un volto riconoscibile del proprio passato.

Anche la presenza di alcuni deuteragonisti importanti, per non dire ingombranti, alimenta la perfezione della vicenda: l’esonero di Emery è arrivato in un momento particolare, in cui Ancelotti e Allegri – giusto per fare due nomi vicini al nostro contesto – erano liberi da impegni lavorativi, così come lo erano e lo sono Pochettino e Marcelino, altri due tecnici di primo livello che avrebbero le credenziali per guidare l’Arsenal. I media hanno accostato tutti questi allenatori alla panchina dell’Arsenal, invece l’Arsenal ha scelto Mikel Arteta. Anzi, in realtà l’aveva già scelto in passato, però forse i tempi non erano ancora maturi, come ha spiegato il Guardian in un articolo pubblicato prima che lo spagnolo ex Manchester City venisse annunciato ufficialmente come nuovo manager: «Diciotto mesi fa, al termine dell’avventura ventennale di Wenger, la dirigenza dei Gunners ha avviato un lungo processo di selezione per individuare il suo successore. Arteta era stato praticamente bloccato dopo il colloquio, ma alla fine Ivan Gazidis, Sven Mislintat e Raul Sanllehi hanno preferito ingaggiare Unai Emery. Il paradosso è che anche due anni prima, nel 2016, al termine della sua carriera da calciatore, Arteta dichiarò di avere ricevuto diverse offerte come coach. Una dall’Arsenal, una dal Tottenham e una dal Manchester City. Alla fine scelse i Citizens. Da allora, c’è una domanda che si rinnova: l’Arsenal ha fatto abbastanza per convincerlo?».

Da giocatore, Arteta ha uno score di 16 reti in 150 partite ufficiali con la maglia dell’Arsenal; con i Gunners, ha vinto due volte la Fa Cup e due volte il Community Shield (Julian Finney/Getty Images)

Questa volta, evidentemente, non sono stati posti ostacoli a un epilogo che sembra naturale, che – come detto – sembra perfetto. Arteta ha semplicemente impiegato un po’ di tempo in più per raggiungere l’Arsenal, ma comunque ha centrato l’obiettivo che si era prefisso: diventare allenatore, magari partendo subito da un grande club. Dopotutto gli ultimi anni sono stati pieni di segnalazioni e anticipazioni sul suo futuro, sul fatto che fosse inevitabilmente destinato alla panchina, di racconti entusiastici sul suo impatto come coach e come allenatore in seconda del Manchester City. Anzi, la sua nuova carriera sembra essere iniziata anche prima dell’esperienza accanto a Guardiola: quando ancora era un calciatore, il suo mentore Wenger era affascinato del «suo occhio per i dettagli più piccoli del gioco», al punto da consentirgli di partecipare in prima persona alla gestione di alcune sedute di allenamento.

Al City, invece, uno dei meriti più evidenti di Arteta riguarda la maturazione di Sterling, curata personalmente attraverso un rapporto di strettissima simbiosi con l’attaccante della Nazionale inglese. È stato lo stesso Guardiola a confermare il legame profondo tra il suo ex allenatore in seconda e Sterling: «Dopo gli allenamenti, Mikel ha spesso lavorato da solo con Raheem per spiegargli alcuni movimenti, soprattutto quelli in area di rigore, negli ultimi tre o quattro metri di campo». Non solo Sterling: anche Gabriel Jesus ha confermato come il basco sia stato «un punto di riferimento per tutti i giocatori del Manchester City, chiunque voleva spiegazioni sul lavoro fatto in allenamento, oppure intendeva crescere in un certo aspetto del proprio gioco, sapeva di potersi rivolgere a lui».

Pure lo stesso Arteta è parso avere le idee chiare sul proprio futuro, in alcune dichiarazioni del passato era risultato un po’ presuntuoso per non dire arrogante, di certo aveva identificato dei modelli chiari cui ispirarsi per un’eventuale vita da allenatore. Già nel 2014, due anni prima di smettere col calcio giocato, diceva di ammirare «la filosofia di Wenger e di Guardiola, il gioco ambizioso di Pochettino e Bielsa, dei tecnici che non hanno paura di prendersi dei rischi, per cui i giocatori sono felici di scendere in campo». In un’altra intervista dello stesso anno, diceva di intendere il calcio come uno sport «che non può essere basato sul concetto di opposizione, una squadra deve sempre tentare di prendere l’iniziativa, deve intrattenere il pubblico che ha deciso di pagare il biglietto per venire allo stadio o di seguire la partita in televisione. Sono convinto di questo approccio e penso di poterlo mettere in pratica come tecnico».

Al Manchester City, dal 2016 fino a pochi giorni fa, Arteta ha lavorato prima come collaboratore tecnico, poi come allenatore in seconda di Pep Guardiola (Nathan Stirk/Getty Images)

È questo l’altro tema centrale nel racconto dell’incontro tra Arteta e l’Arsenal. L’incastro si preannuncia perfetto, almeno ipoteticamente, perché lo spagnolo possiede già l’aura del tecnico sistemico, moderno per non dire post-contemporaneo; ha una visione del calcio come ricerca del risultato da portare avanti attraverso la costruzione di un’identità di gioco ambiziosa, offensiva, esteticamente ricercata. Era quello che serviva all’Arsenal, un allenatore totalizzante, intransigente dal punto di vista tattico, per cui il lavoro sul campo è la base da cui far discendere il tutto, senza compromessi, senza deviazioni, una figura che potesse guidare e rappresentare in maniera chiara, definitiva, la nuova era del club – che, al netto della confusione reale e percepita, ha costruito una struttura societaria variegata e verticale, potenzialmente perfetta per sostenere un nuovo progetto pluriennale.

Sull’Independent, subito dopo l’annuncio ufficiale dell’arrivo di Arteta all’Emirates, Miguel Delaney ha scritto: «L’Arsenal ha fatto una scelta epocale ma anche di rottura, simile a quella del 1996, quando Wenger avviò la ricostruzione del club per come lo conosciamo oggi. L’ex allenatore in seconda del Manchester City non è un conservatore come Emery, lo spagnolo aveva proseguito la linea morbida sposata dal suo predecessore nei suoi ultimi anni a Londra, per cui sembrava che all’Arsenal ci fosse un’indulgenza eccessiva nei confronti dei giocatori, della loro personalità. Ora invece c’è Arteta, un allenatore esigente, che in virtù di questo non avrà paura di imporsi in maniera netta, che sembra pronto ad arrivare allo scontro pur di difendere le sue idee. Gli servirà tempo, ma l’Arsenal sembra destinato a diventare una squadra in cui si gioca e si lavora con grande intensità, come avviene da tempo al Manchester City con Guardiola, oppure al Liverpool con Klopp».

Arsenal-Chelsea 1-2, l’esordio di Arteta all’Emirates come manager dei Gunners

Arteta deve portare a compimento una missione difficile, cui ha deciso di approcciare disegnando una rivoluzione immediata eppure già pensata per durare del tempo, una sorta di terapia dello shock prolungato. Le due partite d’esordio hanno confermato tutte le sensazioni iniziali: contro il Chelsea, i Gunners hanno mostrato grande aggressività in tutte le fasi di gioco, soprattutto nella prima parte del match, e questo è un segnale positivo, anche perché il continuo movimento ha innescato combinazioni interessanti tra i giocatori di qualità in attacco.

Lo sforzo è stato consistente, così nel finale i giocatori dell’Arsenal sono crollati, vittime della stanchezza, della disabitudine a certi ritmi, ma anche di un «fatalismo innato che rappresenta l’eredità più tossica con cui Arteta dovrà confrontarsi», secondo la lettura del Guardian. In realtà, Arteta è stato assunto proprio per ribaltare e cancellare questa retorica esistenzialista, per trascinare di peso l’Arsenal nell’era moderna, un’era in cui il gioco è al centro del progetto, anzi è il centro del progetto, e perciò determina l’identità – tecnica, manageriale, persino economica – di una grande società di calcio.