Il futuro del calcio è a porte chiuse?

Coronavirus, ma non solo: gli spettatori dal vivo sono sempre meno importanti, anno dopo anno, per le società.

È ufficiale: lo scontro scudetto – uno dei pochi degli ultimi otto anni di Serie A – tra Juventus e Inter si giocherà a porte chiuse. Se non fossimo soltanto a febbraio, potremmo accarezzare l’emozione di vedere il campionato deciso da un gol che esplode nel silenzio generale. A suo modo, affascinante.

Coronavirus o meno, in Italia quando si parla di calcio si parla di polemiche. E così Maurizio Sarri si lamenta che, se loro devono giocare senza tifosi, allora potrebbe anche succedere la stessa cosa per tutte le altre partite. Un’ipotesi che, visto come procede l’epidemia – quella virale e, ancora di più, quella mediatica – forse non è poi così campata in aria: magari, ci ritroveremo a seguire un girone di ritorno in lockdown, con stadi deserti o, al massimo, con un gruppo selezionato di tifosi, a cui verranno fatti i test sul virus prima di entrare nella struttura o scelti a sorte tra i pazienti già guariti. La fantasia corre veloce, in questi giorni: narrativa e cinema ci mangeranno su per anni, potete starne certi.

Gli scenari distopici affondano le loro radici all’interno delle nostre pulsioni e delle nostre paure più profonde. Pensateci: vi fa più paura il Coronavirus, o l’idea che per causa sua possano saltare gli eventi sportivi, come ad esempio le Olimpiadi di Tokyo di quest’estate? Non vi mette a disagio che il massacro dei curdi del Rojava non sia stato sufficiente a convincere la Uefa a spostare da Istanbul la finale di Champions League, ma che invece questa epidemia potrebbe? Ma soprattutto: e se dovessimo scoprire che le partite con gli stadi vuoti non sono poi un gran problema?

Lasciate perdere il virus: sono anni che il mondo del calcio ha a che fare con gli stadi che si stanno svuotando. Adesso stiamo vivendo un’inversione di tendenza, che sta facendo registrare oltre 28mila presenze medie, ma gran parte del merito si deve al ritorno in Serie A di piazze importanti come quelle di Lecce, Brescia e Verona, nonché alle prestazioni di Lazio e Atalanta. Il trend degli ultimi anni resta però discendente, e l’ottimo andamento della stagione attuale rischia di far passare in secondo piano quei problemi strutturali di cui si è spesso parlato, come la necessità di rimodernare gli stadi: negli ultimi anni, il nostro campionato ha portato in Europa due club – Sassuolo e Atalanta – che non hanno potuto giocare le partite casalinghe sul proprio campo, in quanto non in linea con le regole Uefa.

La partita di Nations league tra Croazia e Inghilterra, giocata a porte chiuse il 12 ottobre 2018 a Fiume, a causa di precedenti episodi di razzismo da parte dei sostenitori croati (Michael Regan/Getty Images)

Tifo violento e razzismo hanno contribuito nel tempo a dare un’idea degli stadi come di luoghi ostili per il tifoso medio; d’altro canto, gli ultras sono sempre più spesso in polemica con le società, vuoi per i risultati della squadra vuoi per rapporti tra tifo organizzato e dirigenza: gli scioperi del tifo, che un tempo erano assolute rarità, oggi sono eventi ricorrenti. A settembre, gli ultras della Juventus hanno disertato la trasferta europea a Madrid, e successivamente c’è stato un lungo sciopero di una delle tifoserie più calde d’Italia, quella del Napoli, arrivata fino all’assenza della Curva B nel recente match del San Paolo contro il Barcellona. Solo negli ultimi mesi, abbiamo assistito a simili proteste anche da parte dei tifosi di Atalanta, Genoa, Torino, Inter, Lazio, Milan, Parma; e poi, nelle serie minori, di Modena, Empoli, Ravenna, Nocerina, Frosinone, Catania…

Le polemiche sull’accesso agli stadi e il crescente prezzo dei biglietti sono ormai note e diffuse in tutto il mondo (ricordate le proteste durante i Mondiali in Brasile?), ma in generale il tifo organizzato sta vivendo un periodo di crisi perché il proprio ruolo nel sistema calcio odierno è sempre meno rilevante: gli stadi come li conosciamo oggi sono stati concepiti in un’epoca completamente diversa, in cui i club – con il passaggio al professionismo dei loro giocatori – contavano sul pubblico per poter pagare gli stipendi. Ma oggi, tra diritti tv, sponsor esterni e quotazioni in borsa, le società si mantengono grazie ad altro e gli stadi pieni – purtroppo – sono soprattutto uno status symbol, e non una reale necessità.

Quando arrivò Netflix, gli esercenti lamentavano che avrebbe portato alla crisi dei cinema, perché consentiva alla gente di poter vedere molti film di qualità, comodamente da casa e a un prezzo molto basso. Il tono del discorso è simile per il calcio: per il pubblico in sala si usavano gli stessi termini di quello degli stadi, appellandosi a un valore “spirituale” e intangibile del vedere un film al cinema rispetto al vederlo sulla propria tv. Ma Netflix ha avuto successo, e ha generato tanti altri figli, tra cui lo stesso Dazn, un primo tentativo di creare un “Netflix per lo sport”.

Rispetto ai primi anni delle pay tv, oggi gli abbonamenti sono pure calati enormemente nel prezzo, diventando più alla portata di tutti: nei primi anni Novanta, Tele+ costava un minimo di 37.000 lire al mese (circa 61.000, se adeguate all’inflazione), più quasi 200.000 per il decoder, e metteva a disposizione un solo canale; oggi, Sky fa offerte da 33 euro al mese per un pacchetto molto più ampio, mentre Dazn arriva a meno di 10 euro. Il costo medio per un biglietto in Serie A è di 69 euro: è facile capire che il calcio da casa sia più conveniente.

La partita tra Barcellona e Las Palmas dell’ottobre 2017, giocata al Camp Nou a porte chiuse dopo gli scontri tra manifestanti e polizia, inseguito al referendum sull’indipendenza catalana giudicato “illegale” dal governo centrale (José Jordan/AFP via Getty Images)

Oggi, nell’epoca dello streaming, l’esperienza dal vivo sta iniziando a perdere fascino, soprattutto tra gli addetti ai lavori: a fine novembre, i Coldplay hanno tenuto due concerti in Giordania, trasmessi live su YouTube in tutto il mondo. Grimes, una delle cantanti più sperimentali della scena pop, ha sostenuto di recente che presto la musica dal vivo diverrà obsoleta. Forse è proprio questa la direzione verso cui stiamo andando, nell’industria dell’intrattenimento di cui lo sport fa da sempre parte.

Nei giorni scorsi è emersa anche la notizia che la Premier League starebbe studiando un proprio servizio globale di streaming a pagamento, togliendo l’intermediazione delle pay-tv: prezzo per l’abbonamento ancora più basso, offerta completa e  personalizzabile in base alla tua squadra preferita. Un esperimento interessante, perché avviene nel paese in cui i biglietti sono i più costosi in Europa. Come reagirà la tradizione inglese del calcio dal vivo di fronte a questa nuova rivoluzione?

In un articolo su FourFourTwo, Seb Stafford-Bloor collega il probabile successo di un PremFlix con il crescente bisogno da parte dei tifosi di chiudersi all’interno di una propria bolla di canali e fonti autoreferenziali, considerando quelle neutre come implicitamente schierate contro la loro squadra. Potersi abbonare solo al proprio club e seguirlo da casa finirebbe con il generare un “isolazionismo calcistico” ancora più grande di quello attuale, in cui la crisi di un luogo di confronto come lo stadio sarebbe un ulteriore fattore accelerante.

Sembra allora che i tifosi abbiano iniziato a segregarsi nei propri luoghi sicuri ben prima che il Covid-19 entrasse a far parte delle nostre vite, e non è una questione limitata ai campi sportivi. Il derby d’Italia a porte chiuse fa rumore, ma la tendenza generale punta verso forme d’intrattenimento sempre più privato: magari, il futuro ci riserverà campionati in stadi con pochi posti a invito, dirette streaming programmabili, e ultras che si ritroveranno a tifare in chat di gruppo, inviando cori di like davanti a un pc.