Jürgen Klopp è un leader politico

Soft Power e terza via del tecnico tedesco.

Il termine composto “Soft Power” è stato inventato da Joseph Nye, politologo e professore di Harvard, ed è comparso per la prima volta in un articolo pubblicato nel 1990 su The Atlantic. In riferimento all’attitudine storica degli Stati Uniti nelle relazioni internazionali, descrive l’abilità di un potere politico di persuadere, convincere, attrarre delle altre entità tramite risorse intangibili quali «cultura, valori e istituzioni della politica». In parole più semplici, il soft power descrive l’influenza esercitata – da un’istituzione, ma anche da un personaggio – attraverso i suoi comportamenti, i suoi atteggiamenti, piuttosto che le sue pure dichiarazioni programmatiche, di posizionamento ideologico e/o partitico.

È difficile pensare che Jürgen Klopp, uomo e allenatore da sempre etichettato come “hard” – il suo calcio ipercinetico è stato definito “heavy metal” oppure anche “hard rock”, la sua genuinità sanguigna lo ha reso decisamente meno formale, rispetto ai suoi colleghi, nei rapporti con i media, i tifosi, anche con gli arbitri –, possa esercitare del soft power. E invece è proprio così, o meglio è stato così in diversi momenti della sua carriera. È come se il manager del Liverpool fosse riuscito a trovare una terza via – Bill Clinton dove sei? – per quanto riguarda la comunicazione su temi extracalcistici: la sua dialettica è alternata, esattamente come i suoi comportamenti, alcune volte è stato delicato e moderato nelle sue considerazioni e nella sua esposizione, ha espresso le sue idee senza essere categorico, almeno in apparenza; in altre occasioni è stato più netto, molto meno conciliante; e ancora, in altri momenti, Klopp è riuscito a essere lineare nei contenuti ma duro nei modi, basti pensare alla frase «Put your hands away you fucking idiots!» con cui ha rifiutato le strette di mano dei suoi stessi tifosi ad Anfield Road, pochi giorni fa, prima della sfida contro l’Atlético Madrid – una partita disputata mentre l’Europa stava iniziando a fare i conti con il Coronavirus.

Il soft power di Jürgen Klopp

In realtà, la breve sequenza prima della gara contro l’Atlético è un’estensione temporale e corporale delle parole pronunciate da Klopp qualche giorno prima, dopo che un giornalista gli ha rivolto una domanda sull’emergenza Coronavirus. La sua è stata una delle migliori risposte registrate nel mondo del calcio durante la prima fase della pandemia, quando cioè le istituzioni sportive – soprattutto l’Uefa, e poi la federcalcio inglese e quella tedesca – erano ancora riluttanti a interrompere il normale flusso delle partite: «Ciò che non mi piace nella vita è che, per una cosa molto seria, l’opinione di un manager di calcio sia importante. Non capisco, non può essere che chi non ha conoscenza della materia come me parli di certe cose. Le persone che sanno dovrebbero parlarne e dire agli altri fate questo o fate quello e andrà tutto bene, oppure no. Non gli allenatori. Politica, coronavirus… perché chiedete a me?».

C’erano i suoi tifosi che volevano stringergli la mano, e Klopp ha semplicemente rispettato le disposizioni, gli inviti degli esperti. Evitare contatti fisici: ecco, lui l’ha fatto. Ha cercato di ispirare, di guidare le persone con delle parole di buon senso e con un comportamento che gli è stato suggerito da chi conosce la materia, dagli unici che – secondo lui – dovrebbe esprimersi in merito, e perciò dovrebbero dare delle indicazioni alle masse. Per dirla con una parola: Klopp ha voluto dare un esempio. È puro soft power, solo con termini e atteggiamenti un po’ più duri quando è arrivato il momento di interagire con l’esterno.

Un momento destinato a diventare storico

In molte altre occasioni, Klopp ha esposto il suo pensiero politico senza però schierarsi in maniera netta. Nel 2004, dopo la vittoria del premio come allenatore tedesco dell’anno – allora era alla guida del Mainz –, diceva di credere «nello stato sociale» e di «non avere problemi a pagare l’assicurazione sanitaria». La sua visione era questa: «Se sto bene, anche gli altri dovrebbero stare bene». Allo stesso modo, però, non aveva dato una definizione partitica a questa sua ideologia, diceva di «essere orientato a scegliere il candidato da votare, non una formazione politica particolare».

Questo tipo di dichiarazioni sono state ricorrenti nel corso della sua carriera. Dopo le ultime elezioni per il Parlamento Europeo, a maggio 2019, l’allenatore del Liverpool si è espresso in questo modo: «Siamo la generazione che non ha affrontato alcuna guerra. Questo ci ha dato l’opportunità di costruire costantemente sulle cose che abbiamo vissuto in passato, perché una guerra distrugge tutto e fa ricominciare da zero. È evidente come le persone abbiano frainteso questa opportunità, dalle urne sono venuti fuori dei risultati sorprendenti e anche deludenti. Alcuni politici lavorano costantemente per rendere le persone spaventate dal futuro, giocano sulle paure della gente».

Le volte in cui Klopp è stato più esplicito

«Sono a sinistra, ovviamente. Più a sinistra che al centro. Non voterei mai per un partito che ha abbassato o vorrebbe abbassare l’aliquota massima». Queste parole di Jürgen Klopp, attribuite all’allenatore tedesco dal giornalista e scrittore Raphael Honigstein, sono parte di un insieme di dichiarazioni più esplicite e definitive su alcuni argomenti politici. Per lui, ad esempio, non ci sono dubbi sulla Brexit, di cui ha parlato in un’intervista rilasciata al Guardian nel 2018: «Non ha alcun senso, non è una cosa che le persone possono decidere con un voto. L’Unione Europea non è perfetta, ma è stata una delle migliori idee che l’uomo abbia avuto negli ultimi secoli. Non è mai avvenuto, neanche una volta nella storia, che creare divisioni tra gli uomini abbia determinato un successo». Klopp ha confermato queste sue sensazioni sulla Brexit anche in seguito, durante il periodo di stallo post-referendum, per esempio in un’intervista rilasciata all’inizio del 2019 alla BBC.

«Tre decisioni strane a cavallo tra il 2016 e il 2017: Brexit, l’elezione di Trump negli Stati Uniti, l’esonero di Ranieri»

Un’altra figura istituzionale su cui Klopp non riesce a essere per niente morbido o conciliante, nelle sue manifestazioni pubbliche, è Donald Trump. Nel corso di una lunga intervista rilasciata a Channel 4 nel 2018, ha spiegato come si è svolto il processo che, secondo lui, ha portato all’elezione del presidente americano: «Tanti, troppi ascoltano le persone sbagliate. Perciò penso che nel mondo siano successe alcune cose strane. Ecco perché, per esempio, Donald Trump è il presidente degli Stati Uniti. Devono esserci persone che si adattano meglio di Trump a un lavoro così importante. Non è possibile che l’America sia un Paese così grande e importante, e alla fine il presidente degli Stati Uniti è Donald Trump».

Klopp è l’anti o il post Guardiola, allora, anche per quanto riguarda la politica

È evidente che Jürgen Klopp appoggi e privilegi una certa parte politica, e che cerchi di veicolare certi valori con dichiarazioni e comportamenti mirati – riecco il soft power. Nel confronto continuo e più o meno diretto con il suo grande rivale, Pep Guardiola, l’allenatore tedesco risulta meno radicale, anche perché Guardiola – che pure ha espresso in diverse occasioni la sua opinione su temi di politica internazionale – ha rivestito e riveste un ruolo centrale in un progetto che ha una destinazione chiara, e parliamo ovviamente dell’indipendentismo catalano. Klopp si muove su livelli differenti, i temi di cui ama discutere sono più trasversali, sono universali, forse è per questo non li affronta sempre in maniera categorica. Anche in questo aspetto, dunque, il manager del Liverpool si configura come una figura di opposizione ma anche di evoluzione rispetto a Guardiola – un po’ come succede in campo, del resto il Liverpool e il Manchester City sono due squadre differenti, ma presentano anche diversi elementi di prossimità.

A dispetto delle etichette, Klopp sarebbe un leader moderato nei temi e forse anche nei toni, un perfetto esponente della terza via. Il suo approccio potrebbe apparire talvolta qualunquista, ma è anche profondamente coerente: si considera un professionista del calcio interessato alla politica, e la sua visione è proprio questa, tutto parte da una grande attenzione ad alcuni temi sociali, dopo ognuno è esperto nel proprio campo, e allora deve rimanere lì, dove può fare il massimo. Tante volte gli hanno chiesto se il suo carisma e questa passione mai nascosta per la cosa pubblica potrebbero portarlo a una candidatura, e la sua risposta è sempre stata negativa: «No, non lo farei mai. Non avrei le competenze perché possa farne parte attivamente. Mi piacerebbe che i politici parlassero come delle persone normali, ma poi mi rendo conto che il loro lavoro è complesso. Quindi dovremmo essere meno severi con le nostre brave persone in politica, anche perché non ce ne sono molte. È lo stesso discorso degli allenatori: tutti parlano di calcio, ma non tutti possiedono gli strumenti per guidare una squadra. E la politica è un mestiere ancora più difficile».