Il Cagliari campione nel 1970 è la storia perfetta

Sono passati 50 anni dallo scudetto: racconto di una squadra unica, anche umanamente, che portò la Sardegna in Italia.

Sullo scudetto del Cagliari è stato detto tutto, forse troppo. Da cinquant’anni si rincorrono leggende, mezze verità distorte dalla lente deformante del tempo che passa. Si sono sprecati fiumi di retorica ma, per dirla con Pennac, come si fa a non essere retorici quando si parla dei classici?

Ecco allora quale può essere il senso di continuare a raccontare – di padre in figlio, di anno in anno, sino a questo cinquantesimo anniversario così tondo e così cupo per non poterlo festeggiare in piazza. Il senso è che lo scudetto del 1970 è come minimo una buona storia, e per dirla con Baricco non sei mai fregato quando hai una buona storia e qualcuno a cui raccontarla.

Genere letterario? Facile: epica moderna. C’è dentro l’eroe tragico, Gigi Riva; c’è l’impresa impossibile, una provinciale sul tetto d’Italia; c’è il senso di rivalsa, quello di un popolo messo ai margini, quei sardi più simili ai troiani che non agli achei. E infatti in questo poema epico va a finire che Achille e Ulisse giocano per Troia. Oppure si potrebbe dire che Riva – una storia familiare dolorosa, due gambe rotte per la Nazionale, 164 gol con la maglia del Cagliari – è un Ettore che ce l’ha fatta.

Mille furono gli ostacoli: squadre più forti e più ricche, il tentativo del nemico di corrompere l’eroe triste. Rombo di Tuono come Ulisse e le sue sirene, i miliardi della Juve come il canto soave che l’uomo di Leggiuno ha ascoltato senza nemmeno tapparsi le orecchie, semplicemente dicendo no grazie. Ma la verità è che in quello scudetto sono evidenti anche i tratti della commedia, perché una storia, se vuole essere una buona storia, deve fare ridere e piangere, insieme. Una storia corale con tante piccole sottotrame come certi film a episodi di Monicelli. Ricky Albertosi, portiere Azzurro di Messico ’70, come Vittorio Gassman: bello, statuario, seduttore, fumatore incallito, amante del rischio e delle partite a carte e del buon whisky; Comunardo Niccolai, stopper implacabile e una calvizie malcelata dal riporto sbilenco, segni particolari: autore di autogol d’antologia; ma soprattutto Manlio Scopigno, il Filosofo, condottiero guascone di quell’armata. Una sigaretta come protesi, un senso dell’umorismo fuori dal comune e una serie infinita di aneddoti che ne fanno l’amico che tutti vorremmo avere.

Diceva di lui Gianni Mura (quanto manca e mancherà): «Detestava ogni forma di retorica e anche l’esibizione del potere. Gli piaceva il cinema neorealista, era appassionato d’arte contemporanea e amico di Corrado Cagli. Leggeva moltissimo. Amava, riamato, Luciano Bianciardi, un altro che si distrusse bevendo e fumando oltre misura». Scopigno ha vinto lo scudetto sedendo in panchina davvero pochino a causa di una squalifica di cinque mesi (cinque mesi!) rimediata durante la trasferta di Palermo. Racconta Pierluigi Cera, capitano di quella squadra: «Si era svegliato male, anzi l’aveva svegliato il massaggiatore perché in camera sua non c’era. Doveva aver bevuto qualche bicchiere in più e si era buttato a dormire in una stanza a caso». A partita in corso richiama l’attenzione del guardalinee perché dalla tribuna gli piove addosso di tutto: sputi, insulti, oggetti. Il guardalinee non interviene e il Filosofo gli suggerisce dove infilarsi la bandierina. «Mi sa che il mister non lo rivedrete per un po’», disse uno della terna arbitrale allo stesso Cera, in aeroporto. Adesso cinque mesi te li becchi solo per doping o per qualche partita truccata.

Quell’anno il Cagliari perse la prima partita soltanto il 14 dicembre, a Palermo contro i padroni di casa. Prima, vittorie contro Roma, Napoli, Fiorentina, Lazio e Lanerossi

Le storie, dunque. Di cos’altro ha bisogno una buona storia? Di personaggi conflittuali, irrisolti, complessi. Scopigno conosceva e praticava il poker, aveva le sue idee politiche e la faccia sorniona di uno che costantemente ti prende per il culo. Però sapeva essere pragmatico, affidabile, serio – è stato il confessore di Riva – e aveva una caratteristica che solo certi grandi: sapeva vedere oltre, anticipare i tempi.Abolì i ritiri, responsabilizzò i giocatori, ridusse al minimo le sedute di allenamento. Attenzione, non era uno sprovveduto visionario: il Cagliari dello scudetto è la squadra che ha subito meno gol nella storia dei campionati a 16 squadre, appena 11 in 32 partite, un record mai scalfito. Scopigno fece di necessità virtù gettando le basi per il calcio moderno: infortunato Tomasini, libero granitico, arretrò Cera, che era un centrocampista, inventando il concetto del difensore centrale che imposta l’azione. Scirea dichiarò anni dopo di essersi ispirato a lui per il suo modo di intendere il ruolo. Al tempo stesso mise in mediana un brasiliano dal piede buono e dalla grande falcata, Nene, dando qualità e gamba alla manovra di costruzione. E se quello che abbiamo preparato in settimana non dovesse funzionare, diceva, beh fate un po’ voi.

La Sardegna attraversava un faticoso processo di globalizzazione interna, quando il Terzo mondo eravamo noiCos’era la Sardegna alla fine degli anni ’60 lo ha ricordato sul Venerdì Angelo Carotenuto: “una questione”. «Il capo della polizia Angelo Vicari aveva inviato il corpo speciale dei Baschi blu, un migliaio di poliziotti e carabinieri scelti tra i reparti speciali per combattere il banditismo, i furti di bestiame, i sequestri di persona (12 nel 1968), gli omicidi (dai 42 del ’63 ai 17 dei primi otto mesi del ’66). Reati, scrisse il presidente della Regione Paolo Dettori in una relazione, “riconducibili all’ambiente, al tipo di civiltà, al tipo di cultura dominante, che va modificandosi troppo lentamente perché non siano accentuati gli squilibri, e non appaiano più stridenti i contrasti tra un’economia e una società arretrate, in un certo modo primitive, e un’economia e una società che parzialmente hanno appreso quali modelli di vita proponga la civiltà moderna, e ne sono divenuti in qualche misura partecipi”». Un processo faticoso di globalizzazione interna, ante litteram, quando il Terzo mondo eravamo noi.

Erano gli anni del Piano di rinascita, dell’industria pesante sostenuta a colpi di miliardi pubblici nel tentativo di strappare l’isola alle dinamiche Ottocentesche. La Saras di Moratti, la Sir di Rovelli. I poli industriali di Ottana e Porto Torres. Ci si riuscì solo in parte. Testimoni di quel fallimento sono oggi i tanti cimiteri industriali, i soldi spesi in assistenzialismo e cassa integrazione, le aree inquinate da fanghi e miasmi. Ormai è in declino persino l’industria più patinata, quella delle vacanze dei vip, quella Costa Smeralda che sembra provincia di Monza, o comunque qualcosa d’altro che non sia un’isola ancestrale.

Quella dello scudetto fu nahce la miglior stagione realizzativa in Serie A per Riva: 28 partite e 21 reti, meglio ancora dell’anno precedente, quando ne segnò 20 in 29. Uguaglierà il record nel 1971/72

In quel contesto venne lo scudetto, che per dirla con Gianni Brera e con la retorica che si deve a certi classici, rappresentò il vero ingresso della Sardegna in Italia. Quanti sardi c’erano in quella squadra? Zero. Ma c’erano uomini che hanno onorato il peso di una maglia diversa da tutte le altre, che hanno saputo rappresentare con dignità un popolo senza nazione. Non solo, hanno infine scelto di farne parte: otto giocatori sono rimasti a Cagliari, per sempre. Sardi come i sardi o forse di più, qualunque cosa significhi essere sardi.

Come ogni grande storia, questa storia potrebbe diventare un kolossal. Un regista? L’ultimo Scorsese (ma senza de-aging, per favore), perché l’epica non ci racconta mai che fine fanno i protagonisti quando invecchiano. I nostri, i vecchietti dello scudetto, tutti più che settantenni, hanno smesso i panni degli eroi e adesso combattono i mal di schiena, maledicono il tempo che passa, ricordano gli amici che non ci sono più. Spesso si sentono al telefono: come stai?, hai bisogno di qualcosa? Riva, cinquant’anni dal tricolore – ha domandato Repubblica all’hombre vertical – se si guarda indietro cosa pensa? «Che sono passati in fretta».