La stagione in cui Thierry Henry diventò l’attaccante del futuro

Nel 2002/03, con i suoi gol e i suoi assist, il francese ha mostrato in anticipo come sarebbero stati gli attaccanti della nuova generazione.

Il 16 novembre 2002, a Highbury, è di scena il primo North London Derby della stagione. Al minuto 13 Thierry Henry controlla il pallone sulla sua trequarti difensiva e parte a testa bassa puntando la porta avversaria. Ha già preso due metri a Matthew Etherington sulla prima accelerazione: a destra lo accompagna Wiltord, a sinistra Bergkamp, mentre Stephen Carr e Ledley King decidono di scappare all’indietro a protezione dell’area di rigore per evitare di farsi saltare di slancio e spalancare una via dritta verso Kasey Keller.

Giunto ai 20 metri Henry alza lo sguardo per la prima volta dall’inizio dell’azione: finta di calciare con il destro per saltare Carr, tocca ulteriormente la palla dopo essere rientrato sul sinistro per vanificare la chiusura di King e chiude di piatto sul palo lungo. È un gol che diventa famoso, il settimo nelle prime 13 partite di campionato, che arriva dopo quasi un mese di digiuno: e Henry lo celebra (ri)facendosi tutto il campo di corsa prima di scivolare in ginocchio sotto la tribuna alle spalle della porta di Rami Shaaban, quasi a voler sottolineare la grandezza della sua cavalcata in solitaria.

L’Arsenal vincerà 3-0 ed Henry entrerà anche nell’azione del raddoppio di Ljungberg, recapitando sui piedi dello svedese un pallone che chiede solo di essere spinto in rete. È l’assist numero sei della stagione, tanti quanti ne realizzerà in tutto il 2003/04.

«Non sono solo un realizzatore. Talvolta qualcuno mi include nella stessa categoria di Owen o Van Nistelrooy ma non sono un giocatore di quel tipo», dice al Guardian. Sembra la solita dichiarazione precofenzionata per evitare la pressione di un confronto che rischia di farsi insostenibile con il passare delle settimane e dei mesi: in realtà è il manifesto programmatico della miglior stagione della sua carriera.

Il coast to coast nel North London Derby del 2002

L’arma totale   

Su YouTube è ancora possibile recuperare il video della prestazione di Henry contro l’Ajax in Champions League del 26 febbraio 2003. È una partita che l’attaccante francese domina tecnicamente, fisicamente e mentalmente pur senza gol o assist a referto. Le due linee di pressione degli olandesi vengono continuativamente disordinate dalla mobilità del numero 14: sembra di vedere un pugile che saltella da un lato all’altro del ring e che, in attesa del momento decisivo, colpisce con jab veloci e precisi un avversario fermo al centro del quadrato e che non riesce mai a prevedere da che parte arriverà il colpo successivo. La sua è una dimensione creativa a tutto campo e che impone un canovaccio di strappi e accelerazioni fuori scala per chiunque, talvolta persino per i suoi stessi compagni.

Le sue azioni palla al piede su 60/70 metri di campo sembrano il classico bug da modalità arcade di un videogioco, l’anomalia di sistema connessa ad una serie di circostanze e situazioni uniche e non ripetibili. Non è così. Di fatto, Henry è un 9 e un 10 in grado di creare per sé e per gli altri senza vincoli di ruolo e posizione, l’arma offensiva totale che si inserisce in un preciso percorso evolutivo e che cambia la concezione del ruolo, da statica a dinamica: «Romario, Ronaldo e George Weah sono stati i primi attaccanti box-to-box in grado di portare palla da un lato all’altro del campo, disorientando i difensori con la corsa e il dribbling. Nessuno lo aveva mai fatto prima, né Gerd Muller né Paolo Rossi».

E il francese è la sintesi perfetta dell’una e dell’altra categoria, il metro di paragone di una nuova razza di centravanti che si appresta a dominare il mondo: dal 21 dicembre al 22 febbraio mette assieme 10 gol e 7 assist in 10 partite, con il picco delle cinque reti (sulle sette di squadra) realizzate nella terza settimana di gennaio a Birmingham e West Ham.

La tripletta realizzata contro il West Ham

Gli assist di oggi per i gol di domani

Tra l’agosto 2003 e il maggio 2006 Henry realizzerà 83 gol in 101 partite di Premier League, nell’ultimo passo della sua trasformazione in centravanti di livello mondiale. È un percorso a tappe, che Wenger ha pianificato in modo da far coincidere il prime della sua stella con gli anni di piena maturazione del gruppo. L’Henry capocannoniere per tre volte nelle successive quattro stagioni è, quindi, figlio dell’Henry assist-man: nel 2003/04, l’anno degli “Invincibili”, le reti saranno 30, molte delle quali in circostanze che nella stagione precedente avevano portato ad un assist. Nulla di forzato in entrambi i casi, solo la diretta conseguenza di una nuova consapevolezza di sé all’interno del sistema in cui è perfettamente collocato: «Certe volte provo più piacere a far segnare che a segnare io stesso. Quando scendo in campo non penso di dover segnare per forza perché se, per esempio, faccio due grandi gol ma perdiamo 4-2, sarò ugualmente nervoso».

Dal punto di vista tecnico gli assist di Henry sono l’espressione di un’associatività diretta, immediata, verticale: il suo ultimo passaggio non spiazza per la visionarietà ma colpisce comunque per la superiorità tecnica insita nella preparazione di una rifinitura solo all’apparenza banale. Henry che riceve palla sulla trequarti, spezza il raddoppio, supera il terzo uomo sull’allungo e imbuca per chi si inserisce tra le linee è il set offensivo di riferimento dell’Arsenal 2002/03. Dei 18 gol che i Gunners realizzano nelle ultime sei giornate, nove vengono da assist di Henry in situazioni di azione manovrata. A beneficiarne sono soprattutto i soliti Pires e Ljungberg e persino Jermaine Pennant, autore di una tripletta nel 6-1 al Southampton del 7 maggio.

Gli highlights di Sunderland-Arsenal

Le variazioni sul tema sono costituite dal cross da sinistra verso destra a premiare l’inserimento dell’uomo dal lato debole o il tocco orizzontale fronte porta per un comodo tap-in del compagno dopo aver creato la superiorità numerica sull’esterno. In entrambi i casi attingendo a quegli istinti da ala mai del tutto sopiti: «Quando cambia passo e ti punta è come cercare di voler raggiungere a piedi qualcuno che sta viaggiando su una motocicletta», spiegherà poi Jamie Carragher, impotente. A fine campionato Pirès e Wiltord riusciranno a raggiungere entrambi la doppia cifra e persino il carneade Jeffers troverà per due volte la via della rete grazie a due passaggi di Henry troppo comodi per non essere sfruttati: «Se un giocatore non si sente coinvolto al 100% nella chimica di squadra allora la chimica di squadra non esiste. Probabilmente non avrò mai l’egoismo che rende così speciali alcuni attaccanti. Giocare sull’esterno mi ha insegnato ad essere meno egoista ed è per questo che mi arrabbio così tanto con chi non passa la palla a un suo compagno».

Non ingannino, quindi, i dati relativi a un drastico calo negli assist nelle successive stagioni di strapotere realizzativo. Henry non cambierà la sua forma mentis diventando più egoista: semplicemente Wenger sceglierà di accentuarne le qualità di finalizzatore, passando progressivamente dal 4-3-3/4-4-2 al 4-2-3-1 che andrà a 15 minuti dalla conquista della Champions League, in inferiorità numerica e contro il Barcellona del miglior Ronaldinho di sempre.

L’attaccante del futuro

Alla fine della stagione il Manchester United conquista il titolo numero 15 della sua storia e Ruud Van Nistelrooy si laurea capocannoniere con 25 gol in 32 presenze. Ma a essere votato miglior giocatore della Premier League è Henry: ha segnato 24 gol e servito 20 assist – record tutt’ora imbattuto – nel primo 20+20 dell’era moderna in uno dei primi cinque campionati europei. È una stagione in cui, pur facendo le prove generali per gli anni successivi, riesce a disporre dei suoi mezzi come mai prima e mai dopo. Esattamente come Ronaldo o come Cruyff, Henry sembra provenire da una dimensione diversa per velocità di piede e di pensiero: influenza il gioco in ogni zona del campo, segna (e fa segnare) in tutti i modi, è l’espressione di quella modernità che cambia la percezione e i limiti su ciò che un giocatore può o non può fare.

Il 2003/04, da questo punto di vista, rappresenta la conferma di qualcosa che si era già intuito. A 26 anni Henry è l’attaccante più forte del mondo, l’anello di congiunzione tra il passato di Ronaldo, il suo presente e il futuro che sarà di Cristiano Ronaldo e Kylian Mbappé. Segna 10 gol nelle prime 11 partite, 20 tra la diciottesima e la trentaquattresima: il 9 aprile vince praticamente da solo la partita contro il Liverpool, una settimana dopo umilia il Leeds con quattro gol in 40 minuti.

La notte in cui Thierry Henry rese inerme l’Inter, ma anche lo stadio di San Siro

In Champions League si segnala, tra le altre cose, per una partita a Milano contro l’Inter di totale onnipotenza. La rete dell’1-3, in particolare, è la replica di quella realizzata un anno prima contro il Tottenham, inseguito da Javier Zanetti. La differenza è tutta nella corsa: nel puntare la porta palla al piede Henry quasi non tocca l’erba, mentre l’argentino deve dare fondo a tutta la sua potenza muscolare per provare quanto meno a chiudergli la traccia interna. Sembra riuscirci quando, appena dentro l’area, Henry si ferma per quella che sembra essere una giocata in surplace: in realtà impiega pochi decimi di secondo a spostarsi la palla sul sinistro e a prendersi quel metro di vantaggio che gli permette di incrociare sul secondo palo. È il minuto 85 e ha già un gol e un assist a referto dando l’impressione di non impegnarsi nemmeno più di tanto. Troppo più veloce, troppo più forte, troppo più completo. Per tutti.

La stagione 2002/03 è il momento di svolta della carriera di Henry, quella che lo proietta sui livelli di eccellenza che manterrà almeno fino alla 2010. Ma è anche quella che ridefinisce gli standard di riferimento della nuova generazione di attaccanti. Non solo finalizzatori ma giocatori totali a tutto campo, in grado di garantire la doppia cifra nei gol e negli assist sempre e comunque. E se oggi questo ci appare normale è solo perché Thierry Henry lo rese tale in un passato che non è mai stato così vicino a quel futuro in cui ci aveva portati mentre guardavamo le sue corse coast to coast.