Storia breve e tristissima di Rivaldo al Milan

Perché il fallimento del brasiliano fu uno dei più eclatanti della storia recente.

Di Rivaldo ricordavo, come tutti, la rovesciata con la maglia del Barcellona contro il Valencia, con il pallone stoppato di petto fuori area e la coordinazione perfetta, come la coreografia di un balletto, con cui impose al corpo di ruotare sull’asse orizzontale per calciare il pallone a due metri da terra. Ricordavo anche la tripletta contro il Milan nel 2000, un 3-3 spettacolare a San Siro in cui segnò anche due gol Albertini, e come tutti ricordavo il Mondiale del 2002, il gol contro il Belgio, quello contro l’Inghilterra, il tridente dei sogni formato con Ronaldinho e Ronaldo.

La Serie A nel 2002 era già stata abituata a diversi tipi di fenomeni, tra cui, cinque anni prima, quello che era all’epoca il giocatore più forte del mondo, e che proprio nel 2002 vincerà un altro Pallone d’Oro dopo quello stesso Mondiale, ma il calciomercato non era quello degli anni Dieci: gli acquisti dall’estero erano più rari, la stessa Juventus completerà l’anno precedente una delle migliori campagne acquisti della sua storia pescando solo in Italia Buffon, Thuram e Nedved. Rivaldo aveva il fascino di un Ronaldo-2. Aveva la Coppa del mondo appena vinta, aveva quel nome così simile, era brasiliano – erano ancora gli anni in cui il Brasile era la sublimazione del calcio – e una tecnica mostruosa.

Nel settembre 2002 il Milan esordisce in Serie A a Modena, squadra con una maglia strana per l’epoca e un soprannome buffo, canarini, che non vedeva quel campionato da oltre 30 anni. Ci sono, davanti, Inzaghi e Rui Costa, dietro Maldini e Nesta, in mezzo Seedorf e Pirlo. A venti minuti dalla fine entra Rivaldo con il numero undici. Ci mette poco a tagliare al centro dell’area, raccogliere un cross rasoterra e segnare di tacco. Annullato per un fuorigioco molto dubbio. Lui probabilmente sa che non è il caso di protestare eccessivamente alla prima partita, anche se chiunque avrebbe perso la testa, a vedersi annullare un gol del genere, sono quelle cose per cui viene da pensare che le regole si dovrebbero ammorbidire lasciando spazio alla bellezza, ma Rivaldo non dice niente, anzi fa il segno ok con il pollice al guardalinee. Probabilmente sa che ci sarà tempo per segnarne decine di gol così, ed è d’altra parte quello che pensano tutti dopo quel posticipo.

Non sarà così: ci saranno dei momenti buoni, in autunno, ma è curioso constatare come un altro momento che tutti i tifosi del Milan ricordano, di Rivaldo, sia un altro quasi-gol. A San Siro contro il Como, il 3 maggio, a fine campionato, si libera di tre difensori a centrocampo, avanza nel campo vuoto, e alza un pallonetto da fuori area che appassisce contro la traversa. È un Como disastrato, già retrocesso, e l’attenzione di tutta Milano non è, quel giorno di sole, su San Siro. Mancano pochi giorni alle partite davvero importanti di quell’anno, il doppio derby contro l’Inter per andare in finale di Champions League, e Rivaldo, lì, giocherà soltanto nove minuti su centottanta. La finale, vinta ai rigori, in cui ci sarebbe anche necessità di un po’ di freschezza nei 30 minuti supplementari, la guarderà tutta dalla panchina. La carriera di Rivaldo al Milan è riassumibile in un gol annullato e una traversa: quello che poteva essere e che non è stato.

È sempre particolarmente triste, anche se non certo raro, assistere all’improvvisa involuzione di quello che fino a poche settimane prima era uno dei giocatori più straordinari del mondo. L’ambiente intorno al Milan di Ancelotti, a inizio stagione, è ambizioso e poco paziente: già a novembre e dicembre Rivaldo sente arrivare i primi fischi. Lui, schierato spesso sulla sinistra, si muove troppo lentamente, perde molti palloni, e il tifoso, guardandolo, si chiede cosa possa essere cambiato, che fine avrà fatto quel giocatore visto in Giappone e Corea fatto di dribbling, assist e gol sotto la traversa dopo due palleggi fuori area.

Erano dieci anni che Rivaldo non terminava una stagione senza andare in doppia cifra: con il Milan, alla fine, saranno solo 8 i gol, in 40 presenze

Di Rivaldo fu particolarmente triste la manifesta impotenza. Siamo abituati a pensare che il calcio sia gioia, ed è per questo che lo seguiamo, non certo per soffrire. Forse sì, anzi, la sofferenza è una parte intrinseca dell’esperienza calcistico-religiosa, ma è una sofferenza che porterà a una riscossa, prima o poi, propedeutica a un ritorno. Ci sono tristezze, invece, più acute perché rappresentano un declino senza possibilità di appello, ed era il caso di Rivaldo. Le motivazioni del fallimento erano anche personali, dicevano i giornali, e non solo sportive: una saudade famigliare accentuata dalla partenza della moglie, che decise di tornare in Brasile lasciando Rivaldo a Milano, mostrando che un uomo fragile sarà anche un atleta fragile. E poi, certo, le incomprensioni tattiche con Ancelotti, la convivenza difficile con Manuel Rui Costa.

La terza immagine che un tifoso ricorda è l’ultimo gol, a San Siro, contro la Roma, finale di ritorno di Coppa Italia. Il Milan ha già vinto la Champions, esattamente una settimana prima, ha già vinto 1-4 la finale di andata, e quindi lo stadio è pieno solo per la passerella della coppa. Rivaldo segna di testa il gol dell’uno a zero su assist di Serginho. Non esulta: rimane fermo sul posto, e quando il pallone torna verso di lui, dopo essere rimbalzato in rete, lo calcia via rabbioso. In quel calcio c’è tutta la consapevolezza di quello che Rivaldo poteva essere e non è stato.

Un anno dopo l’esordio contro il Modena in una sera di fine estate, a settembre 2003, Rivaldo saluterà la curva in un addio che verrà rimandato e si concretizzerà soltanto poco tempo dopo. Nonostante un anno di incomprensioni, San Siro gli regalerà una standing ovation commovente. Lui è vestito con un abito nero, esattamente come quando atterrò per la prima volta a Milano.