È il diciassette settembre 1989, è una bella giornata di sole, al San Paolo si gioca Napoli-Fiorentina, è il Napoli di Maradona, la squadra che ho avuto la fortuna di vedere giocare per molte domeniche. Andando a vedere quel Napoli ho avuto il privilegio di osservare da vicino i miracoli di Maradona, gli scatti di Careca, qualche volta Gullit, qualche altra van Basten, qualche altra ancora Platini. Ho vissuto in quel settembre, insieme a molti altri, l’istante in cui il mondo intero ha capito davvero chi fosse Roberto Baggio. Quel giorno Maradona parte dalla panchina, nel primo tempo Baggio prende palla nella sua metà campo e comincia avanzare apparentemente lentamente (negli anni abbiamo ammirato quella apparente lentezza molte volte), in realtà viaggia molto più veloce degli altri, ai venticinque metri triplica la velocità, salta Renica e Corradini, dribbla Giuliani e appoggia in rete a porta vuota. Fantastico.
Un gol che è sicuramente tra i cinque gol più belli di Roberto Baggio, lì c’è tutto quello che il calciatore di Caldogno ci farà vedere negli anni a venire. Segnerà poi il raddoppio su rigore. Maradona, nella ripresa, entrerà e ne sbaglierà uno, cosa rarissima, ma poi il Napoli vincerà. Di quella partita, tutti però ricorderanno, anche a più di trent’anni di distanza il gol di Baggio.
Andando con la mente a quel tempo si può comprendere il motivo per cui Baggio non sia mai appartenuto a una sola tifoseria, ma in un certo senso a tutte. Uno degli aspetti più interessanti del libro scritto da Stefano Piri, Roberto Baggio. Avevo solo un pensiero (66thand2nd, 2020) è proprio questo. Piri mette in risalto, ripercorrendo gli alti e bassi della carriera, dalle incomprensioni con gli allenatori agli infortuni e soprattutto ai gol, come Baggio sia stato amato da tutti gli appassionati, applaudito spesso dai tifosi delle squadre avversarie. Incompiuto per molti allenatori, fenomenale per chi lo vedeva giocare. La sua sincerità, il fatto d’aver subito così tanti infortuni ed essersi sempre rialzato, non aver mai dimenticato come si giochi, l’aver combattuto con un dolore costante, forse non soltanto fisico. Il dolore di chi è forte ma non è capito, di chi è il più forte ma non vince, il dolore di chi ogni volta deve mettersi in discussione e lo fa, e ricominciam e segna di nuovo altri gol.
Il Baggio del Vicenza, quello della Fiorentina, quello della Juventus, quello del Milan, quello del Bologna, quello dell’Inter e quello del Brescia. Tante squadre e tante mancate, il Parma sfiorato più volte, Piri ricorda nel libro come Ancelotti ancora si penta per aver detto di no a quel trasferimento. Il Baggio della Nazionale, le magie del 1990.
«Tra lui e il portiere resta il terrorizzato Kadlec, che continua ad arretrare a passettini convulsi senza avere idea di cosa fare. Baggio gli piomba addosso con le gambe che sembrano incrociarsi e saettare come pulviscolo in controluce, poi finge di andare a sinistra ma con un passo da milonguero cambia direzione, aprendosi un varco per spiazzare Stejskal con un destro secco»
Il rapporto controverso con Sacchi del 1994. Il tradimento con la sostituzione dopo l’espulsione di Pagliuca, ma poi tanto Baggio, fino alla finale, fino a quel rigore che nessuno ha mai più dimenticato, al punto che non ricordiamo – nemmeno chi scrive – che oltre a Baresi avesse già sbagliato Massaro, perciò l’errore di Baggio fu decisivo non così tanto, ma simbolico sì. Baggio aveva vinto il Pallone d’Oro sei mesi prima, arrivava negli Usa come uno dei più forti, dei più attesi, perciò il nostro immaginario ci dice che abbiamo perso per il rigore sbagliato da Baggio. Piri ricorda che il fuoriclasse italiano quel giorno non stava benissimo e infatti fece poco e niente, invece Baresi giocò una delle sue più grandi partite di sempre. Era ovunque e quindi il suo errore dal dischetto è più perdonabile.
Il Baggio del 1998. Quell’anno fece 22 gol in campionato, uno in più di Del Piero, giocando nel Bologna. Una stagione straordinaria, tutti ricordiamo la rete al Vicenza, il pallonetto impossibile di sinistro, calciato quasi dalla fascia laterale, dopo aver addormentato in dribbling un paio di avversari.
«Baggio accede a quello stato di grazia frequentato solo da un campione o due per generazione, in cui gli avversari possono fare poco o niente per arginarlo, e si limitano a contenere i danni collaterali come si fa con i grandi fenomeni naturali»
L’allenatore del Bologna era Ulivieri che non lo amava, doveva metterlo per forza, lasciando fuori uno dei suoi ragazzi, tipo Fontolan. Ulivieri che per la partita con la Juventus non lo inserisce tra i titolari, Baggio rifiuta la panchina e va a casa. Del Piero che si infortuna nella finale di Champions, Maldini quasi a malincuore porta anche Baggio e Baggio si prende la scena, anche perché Del Piero non sta ancora benissimo. Baggio segna due gol nelle partite del girone, manda in porta Vieri, duetta con Inzaghi, fa quello che vuole, il titolare è Del Piero ma ad Alex non gliene va bene una. Il Mondiale del 1998 lo ricorderemo soprattutto per il gesto che fa Baggio con le mani per indicare che il suo tiro perfetto, parliamo dei quarti di finale disputati contro la Francia, era uscito di “tanto così”. Di Biagio stampò il rigore sulla traversa e un Baggio più sereno si limito a una battuta storica: «È il terzo mondiale che perdo ai rigori, scusatemi ma tra quattro anni io non vengo». Invece poi ci sarebbe andato di corsa anche nel 2002 e lo avrebbe meritato, ma Trapattoni non volle saperne e portò Cristiano Doni, come dimenticarlo.
«Sembra sempre che Baggio sia un piacere della vita che gli allenatori sono costretti a negarsi con la maturità, come le sigarette o tirare tardi la sera»
Piri con ammirazione, ma soprattutto con una scrittura che tiene, restituisce un personaggio controverso, intelligente, dalla battuta pronta. Un uomo di poche parole che si è trovato nelle squadre forti in momenti in cui queste non erano così forti. La Juventus, a parte la Coppa Uefa che Baggio in pratica vinse da solo, vedi anno del Pallone d’oro, non era così forte, Maifredi prima e poi il ritorno del Trap, prima di Lippi. Il Milan di Capello che era alla fine di un ciclo e poi l’Inter, prima Simoni e poi di nuovo di Lippi. Lippi è di certo l’allenatore con cui Baggio ha legato di meno, eppure quella triste stagione dell’Inter la salvò proprio Baggio con la doppietta (e che doppietta) al Parma nello spareggio per l’accesso in Champions League. Si sapeva già che quella sarebbe stata la sua ultima partita all’Inter, molti si aspettavano che giocasse male per vendicarsi di Lippi e dei problemi che avevano avuto. Baggio, però, non era capace di giocare male, non deliberatamente, come intitola Piri, aveva solo un pensiero, saltarli tutti in dribbling e arrivare in porta.
Leggendo il libro ci si domanda perché sia ancora importante raccontare di Roberto Baggio. Dopo la passione e l’ammirazione che molti condividono c’è qualcos’altro. Una prima questione interessante può essere quella del suo aver vinto molto poco, non c’entra solo con l’essersi trovato nelle squadre giuste nel momento sbagliato, ma riguarda anche il fatto che Baggio stesso – forse non solo per gli infortuni – abbia contribuito (in alcuni momenti) a far diventare quelle stagioni il momento sbagliato. Erano gli anni in cui si concretizzavano importanti rivoluzioni tattiche, a cominciare da quella di Sacchi, da allora in poi gli schemi hanno contato sempre di più e per qualche strano motivo Baggio non andava bene per nessun modulo, non convinceva da seconda punta, non era adatto a fare il centrocampista, non era Maradona, non era Van Basten, non era Platini. Forse non gli interessava vincere, non così tanto, gli interessava altro, restare in piedi, non avere male, trovare una traiettoria impossibile, dribblare chiunque, andare in porta. Viene in mente Bergkamp quando diceva: «Non credo di essere interessato a fare gol brutti», e anche l’olandese è sempre parso interessato meno alla vittoria di altri suoi connazionali.
Forse è giusto parlare ancora di Baggio per ricordarci come si fa, come si inventi un gol che non venga da una sovrapposizione, una giocata in transizione, da tutti gli uomini messi al posto giusto. Forse è bene ricordarsi che il calcio deve molto allo schema ma almeno altrettanto all’improvvisazione, al talento, alla testardaggine. Il pressing lo si può insegnare, come faceva gol Baggio no.
Baggio si allena da solo a casa sua, dopo la fine del contratto con l’Inter, lo cercano in molti, si vocifera che possa andare alla Reggina, a quel punto gli telefona Mazzone che gli dice: «Se è per andare a Reggio Calabria perché non vieni a Brescia, così sei anche più vicino a casa?». E Baggio dice di sì, per nostra fortuna, regalandoci ancora qualche stagione di calcio meraviglioso.
I gol che Baggio realizza con il Brescia sono quasi tutti belli, ma in generale i gol della sua carriera sono quasi tutti belli. Quando, in quel Juve-Lazio 6 a 1, scartò 5 o 6 avversari prima di battere Marchegiani. Quello in Milan-Juve 1 a 3, quando fece passare la palla con una giravolta a centrocampo lasciando sul posto Costacurta, rendendosi irraggiungibile da Baresi e battendo Rossi dopo aver dribblato un altro difensore in area. La doppietta alla Bulgaria a Usa ’94. Una serie infinita di portieri scartati e di pallonetti. Il pallonetto al volo stupendo in Lazio Brescia 3 a 1, uno dei suoi più belli. Il più bello, simbolico come quello segnato a Napoli nel 1989 è un altro.
È il primo aprile del 2001, si gioca Juventus-Brescia, i bianconeri stanno vincendo 1 a 0. A pochi minuti dalla fine succede qualcosa che nessuno dimenticherà. Andrea Pirlo (arrivato a gennaio in prestito dall’Inter) inventa un lancio – uno di quelli che ripeterà per molti anni – di quaranta metri, Baggio va sul pallone e fa una cosa che sembra semplice ma che è quasi impossibile. Con un solo tocco stoppa il pallone e salta Van Der Saar per andare poi a segnare a porta vuota.
Il 16 maggio del 2004, Baggio gioca a San Siro la sua ultima partita, se vi concentrate sentirete l’applauso di San Siro e vedrete l’abbraccio di Paolo Maldini. Baggio se ne va lasciando indietro tante giocate strepitose e più di 300 gol da andare a rivedere ogni tanto, riavvolgendo il nastro.