L’Ascoli di Costantino Rozzi: un romanzo provinciale

La saga di una città da 25mila abitanti e i suoi anni di gloria in Serie A, con un presidente che faceva tutto da solo.

Fondato nel 1898, l’Ascoli è il quarto club più antico d’Italia, dopo Genoa, Udinese e Juventus, il quinto è il Milan. Ha disputato 16 stagioni in Serie A (miglior piazzamento il 4º posto nel 1979/80) e 19 in Serie B. Dalla serie cadetta ha ottenuto cinque promozioni. Ha vinto due campionati di Serie B, uno di Serie C, uno di Serie C1, una Mitropa Cup e una Supercoppa di Lega Serie C1. Ha giocato inoltre una finale del Torneo Anglo-Italiano contro il Notts County nel 1994/95. Il 22 giugno 1980, a Hamilton in Canada, vinse il torneo internazionale The Red Leaf Cup, cui parteciparono anche Botafogo, Nancy e Rangers. Di tutta la sua lunga storia però, e nonostante la presidenza di un editore e produttore cinematografico come Cino Del Duca negli anni ’50, c’è sicuramente un solo presidente che si è stampato nella memoria collettiva: Costantino Rozzi.

Rozzi era nato nei giorni più freddi del gennaio del 1929. Forse per reazione, la sua vita è stata un’allegra sarabanda di fiammate contro il destino provinciale in cui era nato. Vulcanico, preso da sempre nuove attività che andavano ben oltre la ditta di costruzioni di famiglia, non si era potuto laureare in ingegneria, come avrebbe invece voluto, e per questo fu felicissimo di ricevere la laurea honoris causa da Carlo Bo a Urbino, seppur in sociologia. Fino all’ultimo si era battuto per portare ad Ascoli Piceno una sede universitaria, seppur distaccata da Camerino, in architettura, inaugurata poco prima della sua scomparsa nel 1994. Ora che la sua città lo ha ricordato a 25 anni dalla morte con una mostra al Palazzo dei Capitani del Popolo – una delle più belle architetture manieriste italiane che forse diventerà un piccolo mausoleo permanente –, si può misurare tutta la sua inattualità.

Perché il Presidentissimo faceva tutto da sé, col solo aiuto di una segretaria: amministrazione (sempre oculatissima), campagna abbonamenti, mercato, servizio stampa parlando direttamente coi giornalisti come il mitico Tonino Carino, perfino giardiniere del manto verde grazie a un suo amico contadino e soprattutto promotore dell’immagine della squadra in televisione. Il suo fu un fair play finanziario ante litteram, per di più volto a valorizzare il territorio inteso come vivaio e di giocatori locali, caratterizzandolo come uno strenuo cantore del genius loci: l’animosità che lo spingeva era alimentata dal desiderio parallelo di far conoscere la sua città oltre che la società calcistica. Tutto il contrario del calcio finanziario e globalizzato odierno dove i presidenti vanno e vengono da altri continenti oppure cambiano con disinvoltura squadra e città alla bisogna. Solo con lo sponsor tecnico non gli riuscì l’autarchia, visto che le aziende conterranee Ariston di Fabriano e Pooh Jeans di San Benedetto del Tronto gli preferirono rispettivamente Juventus e Milan. Rozzi si dovette rivolgere così alla Pop 84 della non lontana Isernia, un marchio minore ma molto popolare negli anni ‘80.

Diventato presidente dell’Ascoli Calcio quasi per caso nel 1968, il profilo istrionico di Rozzi si è imposto grazie soprattutto al suo accento inconfondibile: il marchigiano infatti era già stato usato spesso nel cinema del dopoguerra come inflessione dei villici e dei sempliciotti, scalzando ad esempio il romagnolo che è ancora presente in Il presidente del Borgorosso Football Club di Luigi Filippo D’Amico (1970) con Alberto Sordi. Grazie al presidentissimo però ottenne una nuova linfa tanto che in Mezzo destro mezzo sinistro – 2 calciatori senza pallone (1985) di Sergio Martino, già autore de L’allenatore nel pallone dell’anno precedente, i protagonisti Gigi e Andrea parlano ancora romagnolo, ma la loro squadra non è più la Longobarda di Oronzo Canà, bensì la Marchigiana del presidente Beccaceci interpretato da Silvio Spaccesi e chiaramente ricalcato sulla figura di Rozzi. Segno che in quel quindicennio trascorso tra i due film la parabola di Costantino si era già ampiamente consumata, determinandone nel frattempo anche la fortuna professionale, che era alla base della solidità societaria visto che la sua azienda, con la notorietà conquistata gradualmente, aveva costruito numerosi stadi da Serie A tuttora in funzione a Lecce, Avellino, Benevento e Campobasso, oltre a quello del capoluogo piceno.

Il presidente Costantino Rozzi con i suoi proverbiali e scaramantici calzini rossi: ancora oggi i calzettoni della prima squadra sono rossi in suo onore.

Eterno contestatore delle decisioni arbitrali – divenne una sorta di Masaniello delle piccole squadre provincia – Rozzi era anche e soprattutto hombre vertical: per esempio non è mai stato mangia allenatori, tutt’altro: per lui veniva prima di tutto la squadra vissuta come un bene comune: in diverse interviste si azzarda a definirla un “fatto sociale”, prendendo a prestito la celebre definizione di Émile Durkheim probabilmente a sua insaputa, anche se al caso dell’Ascoli si potrebbe applicare tranquillamente la definizione più evoluta di “fatto sociale totale”, ovvero ciò che influenza ogni aspetto della società. Già alla fine degli anni Settanta gli spettatori allo stadio Del Duca salgono stabilmente a oltre 23.000, un numero più alto rispetto a quelli di club di città decisamente più popolose, come Atalanta, Catanzaro, Perugia, Verona, Vicenza.

Ad ogni modo Rozzi era un uomo di parola e quando in un infuocato derby Sambenedettese-Ascoli un centrocampista romano a fine carriera ebbe un bruttissimo infortunio, che metteva a rischio anche la sopravvivenza della giovane famiglia che aveva a carico, il presidente lo rassicurò subito: «Stai tranquillo, ci sarà sempre posto per te all’Ascoli». Quel centrocampista era Carlo Mazzone, che ancora vive nel capoluogo piceno ed è stato allenatore delle giovanili e poi della prima squadra marchigiana a salire nella massima serie alla fine del campionato di Serie B della stagione 1973/74, arrivano primo a pari merito con Varese.

Costantino Rozzi e Vujadin Boskov, allenatore dell’Ascoli nelle stagioni 1984-85 e 1985-86

Trent’anni dopo, Mazzone a fine carriera diventerà il decano di tutti gli allenatori italiani con ben 797 panchine ufficiali in Serie A, lanciando calciatori come Francesco Totti o rilanciando Roberto Baggio al Brescia, fino a essere definito maestro nientemeno che da Pep Guardiola. La grinta di Mazzone bene si abbinava con quella del presidentissimo Rozzi, che non ci stava mai a perdere, ma soprattutto non ci stava a fare la figura della Cenerentola al gran ballo degli squadroni: i suoi allenatori sono stati quasi tutti ambiziosi: non solo Mazzone ma anche Giovan Battista Fabbri che col Lanerossi Vicenza era arrivato secondo nel campionato 1978/79 e l’anno dopo porterà i bianconeri a un magnifico quinto posto – poi quarto data la squalifica del Milan per via del Totonero – oltre che a un’indimenticabile vittoria a Torino contro la Juventus: 2-3 con un bel gol di Pietro Anastasi.

Furono sette i campionati di Serie A consecutivi dell’Ascoli fino alla retrocessione nell’anno dello scudetto al Verona. Dalla Serie B, Rozzi ripartì pescando dal cilindro un jolly corsaro come Vujadin Boskov, tecnico bianconero per il biennio 1984-86 prima del trasferimento alla Sampdoria – con cui vincerà lo scudetto 1991 e raggiungerà la finale di Coppa del Campioni – che lancia fra gli altri Beppe Iachini dal vivaio. Splendide anche le vittorie contro il Milan di Silvio Berlusconi al suo debutto come presidente il 14 settembre 1986: clamoroso 0-1 a San Siro con gol di Barbuti, ma se all’epoca la squadra di Liedholm era in rodaggio, tre anni dopo al Del Duca la vittoria arrivò con lo stesso risultato contro la squadra scudettata di Arrigo Sacchi, con un cavaliere seccatissimo in tribuna costretto a leggere i titoli del giorno dopo: «L’Ascoli proletario batte il Milan capitalista».

Walter Casagrande, attaccante brasiliano dell’Ascoli fra il 1987 e il 1990, acquistato da Rozzi per un miliardo di lire dal Porto vincitore della Coppa dei Campioni ’87.

Tuttavia la squadra marchigiana non fece incetta solo di giocatori a fine carriera come Liam Brady, Bruno Giordano, Dirceu, Fabrizio Lorieri e Walter Novellino, ma anche di belle scoperte come Walter Junior Casagrande, Pedro Antonio Troglio e Oliver Bierhoff, nonché qualche trovata mediatica come l’ingaggio di Hugo Hernan Maradona, il fratello brocco. Costantino Rozzi sapeva insomma attirare la simpatia anche delle massime firme giornalistiche come Gianni Mura, Italo Cucci o Giorgio Bocca. Dopo di lui la società sprofondò in Serie C, solo negli ultimi anni è tornata in B con vari passaggi di mano della proprietà.

Le immagini di Costantino però restano: i suoi scaramantici calzini rossi, il cappotto di cammello gettato al vento, le sue invasioni di campo, i suoi interventi polemici e sanguigni al Processo del lunedì di Aldo Biscardi, le oltre ventimila persone accorse ai suoi funerali sono impressi nella memoria collettiva come croccanti olive ascolane fatte a mano come una volta. Cioè introvabili.