Come i portieri brasiliani si sono impadroniti del calcio

Alisson ed Ederson sono forti e sicuri nei fondamentali del ruolo, ma sono anche perfettamente adatti al gioco moderno.

«Il Brasile è davvero ben fornito in quanto a portieri. Purtroppo può giocarne solo uno e in questo momento Alisson è avanti». È una frase di Ederson, anche piuttosto vecchia, ma racconta ancora oggi la crudele competizione che ancora oggi c’è per la maglia di portiere titolare della Seleçao. Il ct Tite ha a disposizione due dei migliori estremi difensori in circolazione, Ederson e Alisson giocano da titolari nel Manchester City e nel Liverpool, le migliori squadre della Premier League, tra le più forti d’Europa. Sono anche relativamente giovani: Alisson compirà 28 anni a ottobre, Ederson ne ha appena fatti 27, così è facile immaginare che il testa a testa – per ora l’ex Roma è in vantaggio – sia destinato a durare ancora diversi anni.

La scuola di portieri brasiliana sta vivendo un momento d’oro. In parte si deve alla fortuna, è inevitabile: avere a disposizione due numeri uno del livello di Ederson e Alisson, il fatto che siano praticamente coetanei, che siano completi, estremamente moderni e sicuri, tutto questo non può essere programmato, non fino a questo punto. Ma non è solo una coincidenza, lo testimoniano le promesse delle nuove generazioni: alle spalle di Ederson e Alisson sembra già pronta una nuova leva di portieri brasiliani pronti a raccoglierne l’eredità. Daniel Fuzato, classe 1997 di proprietà della Roma, è già stato convocato in Nazionale da Tite; stesso discorso per il suo coetaneo Ivan Quaresma Da Silva, che, secondo alcune voci di mercato, sarebbe vicino al Milan per affiancare Donnarumma; ancora un passo indietro c’è il giovanissimo Gabriel Brazão – classe 2000, protagonista con le selezioni giovanili dei verdeoro da qualche stagione – acquistato dall’Inter e attualmente in prestito all’Albacete, nella seconda divisione spagnola.

La sensazione è che il gioco contemporaneo abbia avvicinato l’idealtipo del portiere al modello brasiliano, proprio come avvenuto con i difensori olandesi, di nuovo dominanti negli ultimi anni. In un calcio sempre più liquido, i compiti dell’estremo difensore si sono aggiornati, forse ancor più degli altri ruoli, oggi sono richieste capacità e interpretazioni molto diverse rispetto a venti, quindici o anche solo dieci anni fa. Lo sentiamo ripetere da un po’: il portiere moderno deve essere protagonista anche nella costruzione dell’azione, deve far progredire la manovra con passaggi lunghi e corti, non semplicemente spostando la palla verso il difensore più vicino o lanciandola via per liberarsene. Un cambiamento che nasce da un’idea di controllo e gestione dell’azione, di tutto quel che accade in campo, non solo con il pallone tra i piedi: sempre più spesso le squadre europee – specialmente le più forti, quelle che vogliono determinare l’andamento di tutte partita, per tutta la loro durata – preferiscono tenere una linea difensiva alta, anche a metà campo se necessario. Così il portiere deve saper accorciare le distanze e intervenire anche lontano dalla sua porta coprendo ampie porzioni di campo.

Ederson e Alisson rispondono perfettamente a queste caratteristiche, coprono l’intero spettro dei compiti del moderno sweeper-keeper. Più che avanguardisti o rivoluzionari, che hanno introdotto un cambiamento, i portieri di Manchester City e Liverpool si sono rivelati i più adatti – per caratteristiche e stile di gioco – a interpretare il ruolo in chiave moderna. Sono eccellenti nel controllo di palla, nel resistere al pressing avversario e nella distribuzione, sia per quanto riguarda i passaggi nella loro metà campo (che realizzano con il 95% di precisione contro l’86% della media del ruolo nelle cinque grandi leghe europee, dati Soccerment) sia per quanto riguarda i lanci lunghi (oltre il 55% di precisione per Ederson, 50% Alisson, rispetto al 40% della media degli altri portieri).

La qualità nel gioco con i piedi, però, non sostituisce l’abilità tra i pali o in uscita, ma si somma a queste in un portiere più completo, moderno. Entrambi hanno qualità straordinarie nella lettura dell’azione – fondamentale soprattutto nelle uscite – nei riflessi e nel posizionamento: la percentuale di parate sui tiri concessi supera l’80% per Alisson, dato più basso per Ederson (intorno al 68%, come la media dei portieri), su cui però incide lo scarso rendimento complessivo del City in Premier League. Soprattutto, sono consapevoli dei vantaggi a livello di squadra: «Significa avere un giocatore in più, diventa un valore aggiunto. Il portiere deve anche rischiare un passaggio più difficile tra le linee che possa aprire la squadra avversaria. Ma per essere moderno deve avere anche personalità, posizionamento, concentrazione e soprattutto deve saper leggere in anticipo il gioco», aveva detto Alisson in un’intervista pubblicata sul numero 20 di Undici, nel 2018.


Insuperabile tra i pali, reattivo nelle uscite, primo regista della squadra in fase di possesso

Un giocatore in più. Non è una frase fatta, scelta a caso. È stata l’evoluzione del gioco, dal punto di vista normativo – l’introduzione delle regole attuali sui retropassaggi che si possono giocare solo con i piedi sono state introdotte nel 1992 – e tattico, ad allargare la prospettiva, a costringerci a vedere il portiere come parte del sistema di squadra, non più come un elemento solitario e distaccato. Perciò abbiamo dovuto ricalibrare i giudizi sul ruolo, valutando gli estremi difensori per il valore aggiunto che possono dare alla squadra una volta inseriti nei meccanismi di gioco. Proprio come si fa per tutti gli altri calciatori.


Ederson anticipa un attaccante del Wolverhampton, vince un contrasto, poi scambia un paio di volte il pallone con i compagni di squadra, con la proprietà tecnica di un centrocampista

Inserire il portiere in un contesto di squadra significa anche ridisegnare la lavagna tattica includendo le sue capacità nelle strategie. Negli ultimi due anni abbiamo visto Liverpool e Manchester City preparare schemi dal rinvio dal fondo proprio per sfruttare l’abilità di calcio su lunghe distanze di Alisson e Ederson, come nel video qui in basso.


Nella prima clip Salah scappa in campo aperto appena Alisson blocca il pallone, anticipando di qualche secondo la transizione difensiva. Nella seconda clip Aguero sfrutta il rinvio dal fondo di Ederson per partire oltre la linea difensiva dell’Huddersfield

I riflessi di questo cambiamento di prospettiva li vediamo anche nel calciomercato. Al netto della crescita generale dei prezzi, negli ultimi anni si è più volte superato il record di spesa per i portieri. Il primato oggi spetta a Kepa Arrizabalaga, il cui cartellino è stato rilevato dal Chelsea per 80 milioni di euro, ma prima erano stati, nell’ordine, proprio i due brasiliani a segnare i nuovi standard di valutazione: prima Ederson, 40 milioni al Benfica da parte del Manchester City, poi Alisson, passato dalla Roma al Liverpool per oltre 70 milioni di euro. Al di là della loro nazionalità, sono tutti portieri abili a trattare il pallone con i piedi.

Se è vero, però, che il gioco contemporaneo ha rimodellato le priorità dell’estremo difensore facendole aderire meglio ai criteri della scuola brasiliana, è anche vero che certe qualità devono essere allenate, affinate e smussate per poter raggiungere i massimi livelli. Lo stesso Alisson, cresciuto nelle giovanili dell’Internacional de Porto Alegre, è stato guidato nel suo sviluppo dal preparatore dei portieri Andre Jardim. Nella ricostruzione del New York Times, si legge che Jardim si era convinto l’importanza di poter riciclare il possesso appoggiandosi al portiere guardando il primo Barcellona di Pep Guardiola. Un’intuizione non scontata, considerando che prima degli anni Dieci il processo di trasformazione del portiere era in uno stato embrionale. E soprattutto che il campionato brasiliano era ancor più distante: Jardim aveva programmato, per Alisson, un percorso di crescita già tarato sulle richieste delle squadre europee che aveva intravisto nel suo futuro.

Ederson è cresciuto nelle giovanili del San Paolo, poi si è trasferito al Benfica quando aveva 17 anni; dopo una sola stagione in prima squadra, è stato acquistato dal Manchester City per 40 milioni di euro (Clive Brunskill/Getty Images)

Più che un cambiamento sistemico operato dall’alto per assecondare l’evoluzione del gioco – come avvenuto ad esempio in Germania con le direttive della federazione e il conseguente arrivo di Neuer, ter Stegen, Leno e gli altri – in Brasile la figura del portiere moderno doveva per forza di cose trovare terreno fertile, come se fosse naturale o scontato. Non tanto per una presunta supremazia tecnica innata di chi nasce a certe latitudini – sarebbe assurdo – quanto per una prassi ormai consolidata di far sviluppare un certo tipo di confidenza con il pallone anche a chi poi dovrà andare in porta, magari giocando nei campi indoor del futsal. È il caso di Ederson, che oggi mostra proprietà tecniche da centrocampista, o come i giovani già citati Fuzato e Brazão, cresciuti come giocatori di movimento nel calcio a 5 e che solo in un secondo momento hanno scelto di indossare i guanti.

La trasformazione dei compiti e delle priorità del portiere ha fatto sì che la scuola brasiliana di oggi sembri sorprendentemente aggiornata e sviluppata, un’avanguardia foriera di certezze e nuove promesse. Ma questa ha sempre avuto la capacità di sviluppare il talento, solo che magari era più difficile comprenderlo. Ora, solo ora, una generazione di portieri giovani e moderni ha trovato il contesto migliore per emergere.

La carriera di Dida è stata piena di successi: ha vinto da titolare due Champions League e uno scudetto con il Milan, una Coppa Libertadores col Cruzeiro e una Coppa America con la Nazionale brasiliana (Pierre-Philippe Marcou/AFP via Getty Images)

Questa nuova tendenza può anche essere vista come una piccola ma gustosa rivalsa storica nei confronti della ritrosia spocchiosa del Vecchio Continente: fino al 2019, anno del trionfo di Alisson con il Liverpool in Champions League, solo quattro portieri brasiliani erano riusciti a vincere una coppa europea da protagonisti, cioè Taffarel, Dida, Júlio César e Hélton. Il fatto che non si vada oltre la Coppa Uefa del 2000 è un’altra prova di come sia stato il calcio ad avvicinarsi ai portieri brasiliani, e loro erano lì, con il loro stile di sempre, pronti a prenderselo.