David Beckham ha compiuto 45 anni pochi giorni fa. Uno dei motivi per cui viene indicato come uno dei giocatori inglesi più rappresentativi degli ultimi vent’anni, oltre ovviamente alla sua immensa qualità, alla sua capacità di essere un personaggio in grado di unire mondi che fino agli anni Novanta sembravano molto distanti tra loro – il calcio, la moda, la cultura pop – riguarda il suo grande impatto quando ha deciso di tentare un’avventura lontano dalla Premier League. L’ex capitano della Nazionale inglese ha vissuto quattro stagioni da star assoluta in Spagna, al Real Madrid; poi è diventato un simbolo del calcio americano, anzi ha cambiato completamente la Mls dopo il suo arrivo a Los Angeles; al Milan e al Psg gli sono bastati pochi mesi per entrare nel cuore dei tifosi, prima come professionista e poi come icona glamour. Si tratta di un’anomalia, pochi calciatori britannici sono riusciti ad avere gli stessi risultati fuori dalle isole. Anche perché, tra i Paesi delle cinque leghe top in Europa, il Regno Unito è quello che ha esportato meno calciatori in Liga, Serie A, Bundesliga e Ligue 1.
In totale, sono 43 i giocatori britannici e/o irlandesi che hanno disputato almeno una partita nel massimo campionato italiano. Una cifra bassissima se confrontata con gli 82 spagnoli, i 93 svedesi, i 136 francesi. Le proporzioni sono simili se analizziamo la storia della Bundesliga (38 giocatori britannici e/o irlandesi), quella della Liga (37) e della Ligue 1 (35). Nel momento in cui scriviamo, ci sono otto tesserati britannici in Bundesliga, quattro in Serie A, tre nella Liga, uno in Ligue 1, mentre solo i francesi che giocano nelle prime divisioni di Inghilterra, Spagna, Italia e Germania sono addirittura 93. E se questi dati non fossero convincenti, basta consultare le rose delle Nazionali britanniche ai Mondiali e agli Europei: l’ultimo convocato di una squadra extra-UK è Gareth Bale, protagonista con il Galles agli Europei del 2016; andando indietro nel tempo, il secondo in ordine cronologico è David Beckham, capitano dell’Inghilterra ai Mondiali del 2006, allora tesserato con il Real Madrid.
È la classica eccezione che conferma la regola: tra i giocatori delle isole britanniche, negli ultimi anni, solo due superstar globali come Beckham e Bale si sono imposti all’estero dopo essersi affermati in Premier League. Molti altri calciatori nati e cresciuti nel Regno Unito, invece, hanno preferito rimanere nel campionato inglese. Certo, la nuova nuova tendenza per cui molti giovani delle Academy valutano e spesso accettano proposte da club esteri – soprattutto della Bundesliga – potrebbe modificare la situazione da qui a qualche anno. Ma la storia resta intatta, e di certo non si può spiegare in maniera semplicistica, magari con un discorso generico e genetico sulla scarsa adattabilità dei giocatori britannici, su presunte mancanze tecniche o tattiche. I numeri sono troppo evidenti perché non esistano dei tratti comuni, delle motivazioni reali e condivise per cui i giocatori inglesi, scozzesi, gallesi, irlandesi sono stati e sono così reticenti a trasferirsi lontani da casa.
Pochi giorni prima che venisse ufficializzato il passaggio di Gareth Bale al Real Madrid, l’ex commissario tecnico della Nazionale inglese, Glenn Hoddle, si disse molto preoccupato per il trasferimento, ancora ipotetico, del campione gallese nella capitale spagnola: «Se dovesse decidere di andare all’estero, i primi cinque-sei mesi potrebbero essere difficili per lui. Dovrebbe riguadagnare la forma, e non è facile se la sua famiglia non è con lui al 100%». Le parole di Hoddle avevano un valore doppio, dato che anche lui, un giocatore-simbolo del Tottenham proprio come Bale, nel 1987 aveva deciso di accettare un’offerta dal Monaco.
Una possibile problematica familiare è stata utilizzata anche per spiegare il fallito adattamento di Michael Owen a Madrid, quando nel 2004 l’attaccante inglese decise di lasciare il Liverpool e di diventare uno dei Galacticos di Florentino Pérez. Il Guardian scrisse che «Owen non percepiva l’esistenza di un reale supporto intorno alla sua famiglia, pensava che sua moglie e sua figlia non fossero felici, del resto erano a fare nulla in albergo mentre lui si allenava, oppure giocava a golf con i suoi compagni del Real». Nonostante un impatto abbastanza positivo in campo (16 gol e due assist in 45 partite di tutte le competizioni), Owen lasciò la Spagna dopo una sola stagione, tra l’altro per unirsi al Newcastle, un club in cui non ha disputato una sola partita in tornei internazionali.
Se la capacità di integrarsi – e di fare integrare i propri parenti più stretti – in un nuovo contesto culturale non è un dato empirico, quindi non è un parametro su cui poter fondare un’analisi, il discorso cambia quando si passa a un altro aspetto che determina l’adattamento a una nazione differente: la lingua. Una delle indiscrezioni più ricorrenti per raccontare lo scarso ambientamento di Bale in Spagna, ne leggiamo ancora oggi nonostante si sia trasferito a Madrid ormai da sette anni, riguarda la sua difficoltà nell’imparare e praticare il castigliano. Al di là del caso specifico, dei luoghi comuni e della veridicità di certe voci, si tratta un atteggiamento che può essere attribuito ai cittadini britannici: nel 2018, uno studio condotto dall’Unione Europea ha rilevato che solo l’11,5% degli adulti in età lavorativa nel Regno Unito sanno utilizzare una seconda lingua.
La percentuale è bassissima, ma risulta in netto miglioramento rispetto al passato: nel 2005, infatti, meno del 5% dei lavoratori britannici sapeva contare fino a venti in un’altra lingua. Quindici anni fa, l’ex ispettore capo delle scuole inglesi, Mike Tomlinson, descrisse se stesso i suoi connazionali come «barbari linguistici», perché «viviamo su un’isola e non abbiamo nazioni confinanti; anche per questo non abbiamo cultura dell’apprendimento delle lingue e facciamo affidamento sul fatto che altre persone imparino la nostra lingua piuttosto che fare questo sforzo da soli». Questa posizione di superiorità è ovviamente legata al primato dell’inglese, al fatto che sia la lingua più parlata al mondo (da più di un miliardo di persone, 370 milioni sono madrelingua e in 900 milioni la utilizzano come seconda lingua), ma viene ribaltato all’estero, soprattutto in Paesi in cui esiste un altro idioma molto forte – come lo spagnolo, il francese, l’italiano. E potrebbe rappresentare un fattore scoraggiante per un calciatore quando riceve un’offerta dall’estero, insieme alle diverse abitudini sociali, alimentari, alle differenze nell’approccio lavorativo.
L’autoreferenzialità linguistica viaggia in parallelo con quella calcistica. Se in passato la Premier League – anche ai tempi della First Division, prima dello scisma del 1992 – era un torneo con caratteristiche uniche, con uno stile di gioco ben definito, crudo per non dire duro, che rendeva difficile l’inserimento degli stranieri e forse ancora più complicato l’adattamento all’estero ai giocatori britannici, oggi la differenza rispetto alle altre leghe è soprattutto economica. Basta confrontare i dati relativi al monte ingaggi: il West Ham, il Watford e il Bournemouth, le tre squadre a pari punti tra il 16esimo e il 18esimo posto in classifica, spendono rispettivamente 60 milioni, 48 milioni e 40 milioni di euro per gli stipendi dei propri giocatori (fonte Spotrac). I club italiani che occupano le stesse posizioni in Serie A, Sampdoria, Genoa e Lecce, hanno un budget ingaggi di 40 milioni, 36 milioni e 32 milioni di euro, rispettivamente (fonte Gazzetta dello Sport). E le stesse proporzioni valgono anche per la Liga e la Bundes, mentre la Ligue 1 è ancora più indietro.
L’aspetto economico risulta centrale anche nell’analisi storica: per i giocatori britannici, il periodo con la maggior tendenza a espatriare si colloca a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, ovvero quando la First Division non aveva un grande vantaggio economico sulle altre leghe europee, anzi era indietro per forza finanziaria, e inoltre pagava l’esclusione dei club inglesi dalle coppe internazionali dopo l’Heysel. In quegli anni, diversi giocatori inglesi si trasferirono in Serie A, il campionato più ricco del mondo (Brady alla Juventus, Blissett, Hateley e Wilkins al Milan, Rideout, Cowans e Platt al Bari, Walker alla Sampdoria, Gascoigne alla Lazio), ma anche in Liga (Lineker, Hughes e Archibald al Barcellona) e in Ligue 1 (il già citato Hoddle al Monaco, Waddle al Marsiglia). Quando poi la nuova Premier League, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, diventò il torneo più ricco e glamour d’Europa, il flusso si era già interrotto, i club inglesi iniziarono ad attrarre e importare tantissimi campioni stranieri, e solo operazioni imponenti come il passaggio di Paul Ince all’Inter nel 1995, oppure quelli di McManaman, Beckham, Owen e Bale al Real Madrid, sono riusciti a convincere pochi sportivi britannici ad allontanarsi da casa – e solo per trasferirsi in club d’élite, tra l’altro.
Negli ultimi vent’anni, il campionato inglese è stato trasformato dalla globalizzazione in tutti gli aspetti, nel gioco, nell’allure mediatico, nella gestione del marketing. Per quanto riguarda il reclutamento dei giocatori, il cambiamento risulta evidente solo nelle operazioni in entrata: nelle rose delle 20 squadre di Premier ci sono 279 calciatori non britannici, il 54% del totale. Nonostante questa altissima competitività, i giocatori locali preferiscono non tentare l’avventura all’estero, a volte decidono pure di scendere di categoria pur di avere l’occasione di mettersi in mostra senza trasferirsi in un altro Paese. Del resto la Championship, la seconda divisione della piramide inglese, offre buone opportunità economiche (il budget annuale per gli stipendi è pari a 30 milioni di euro per club, in media) e uno spazio molto più ampio per i giocatori britannici – nei roster delle 24 squadre iscritte c’è una percentuale di stranieri inferiore rispetto alla Premier, pari al 32,5%. E in più esiste anche l’opzione di trasferirsi nei campionati delle altre federazioni del Regno Unito – solo nella Scottish Premier League, infatti, militano 59 giocatori inglesi.
Come ogni fenomeno umano, la riluttanza dei calciatori britannici a trasferirsi all’estero è dovuta a un mix di fattori culturali, temporali, soprattutto economici. Se in passato lasciare il Regno Unito comportava un grosso rischio perché c’era un’elevata possibilità che i giocatori si sentissero inadeguati dal punto di vista tecnico-tattico, oppure venissero giudicati così, oggi questa diffidenza è alimentata anche da un profondo gap finanziario. Come per ogni fenomeno umano, però, le prospettive sono incerte, forse destinate a evolversi: proprio l’enorme ricchezza e la globalizzazione del talento in Premier League hanno spinto alcuni giovani ad accettare offerte dall’estero per poter avere lo spazio che non avrebbero mai avuto nei club in cui sono cresciuti, come ha fatto per esempio Jadon Sancho. Ma anche alcuni giocatori più affermati, di club importanti, hanno deciso di provare a rilanciarsi lontano dal Regno Unito: è il caso di Chris Smalling alla Roma e Ashley Young all’Inter (entrambi arrivati dal Manchester United), che hanno seguito le orme di Micah Richards (una stagione alla Fiorentina nel 2014/15), oppure di Aron Ramsey e Kieran Trippier, che hanno accettato le offerte della Juve e dell’Atlético Madrid dopo l’affermazione definitiva in patria, all’Arsenal e al Tottenham. Si tratta di casi ancora isolati, per alcuni di questi atleti l’obiettivo – più o meno dichiarato – è tornare in Premier League il prima possibile, ma bisognerà pure iniziare da qualche parte, aprire un canale, perché le cose e la storia possano cambiare.