Federico Chiesa è cambiato, per necessità

È ancora un attaccante esplosivo, che dà il meglio di sé quando può correre in libertà, ma nel frattempo ha iniziato a razionalizzare il suo gioco.

Delle quattro estati che Federico Chiesa ha trascorso con la prima squadra della Fiorentina, l’ultima è stata per distacco la più turbolenta. In città tirava l’aria nuova del cambio di proprietà: i fratelli Della Valle avevano abdicato a furor di popolo dopo diciassette anni e la famiglia Commisso si era appena insediata al loro posto, al timone di una società che non molte settimane prima aveva scampato la retrocessione per una manciata di punti.

L’incertezza regnava un po’ sotto tutti i punti di vista e tra questi è stato a lungo compreso il futuro dello stesso Chiesa, che nonostante le ombre di una primavera con zero reti all’attivo era stato pur sempre il miglior marcatore della rosa nella stagione appena terminata. Era pacifico, o quantomeno lo sembrava, che fosse destinato ad un salto di qualità da compiersi lontano da Firenze, sulla scia del modus operandi della gestione Della Valle e di tante altre in materia di giovani talenti, e invece è andata a finire che la nuova proprietà lo ha dichiarato incedibile – «Non sarà il mio Baggio» furono le celebri parole di Commisso – e che ad agosto Chiesa ha ricominciato il campionato con la stessa maglia addosso.

Un finale, con il senno del poi, non privo di conseguenze. Il cortocircuito innestato dalla costrizione a restare lo ha rallentato, specialmente all’inizio: non è riuscito ad essere il leader sul campo di una squadra nuova per molti undicesimi, e nonostante gli acuti sparsi qua e là – il gol contro la Samp, valso il primo successo in campionato dal marzo precedente, o gli assist a Ribery nelle gare di Bergamo e San Siro contro il Milan – il suo rendimento complessivo nei primi mesi è stato al di sotto delle aspettative. È lecito sospettare che qualcosa con Montella non sia andato per il verso giusto, se è vero che negli otto mesi vissuti con il tecnico campano la prolificità di Chiesa si è praticamente azzerata, e lui è sembrato spesso e volentieri smarrito dentro un collettivo in evidente difficoltà nel portare il pallone nell’ultimo terzo di campo. Ed è lecito sospettarlo anche alla luce del fatto che, con Pioli prima e con Iachini poi, è parso mediamente più brillante, e soprattutto più sereno. Non ci sono grandi dubbi sul fatto che il 2019 sia stato per lui un anno particolarmente carico di pressioni.

Ad ogni modo, messa da parte la grande parentesi aperta dal ritorno di Montella e chiusa dal suo nuovo addio, il percorso di crescita di Chiesa fin qui non ha subito scossoni degni di nota; è stato, al contrario, abbastanza lineare. Di sicuro non somiglia più granché al 19enne tutto grinta e dinamismo che Paulo Sousa schierò a sorpresa contro la Juventus ormai quasi quattro anni fa: oggi è un calciatore dal profilo meno grezzo e più definito, meno tuttofare e più specializzato rispetto alle origini. Se il Chiesa degli esordi saltava all’occhio (un po’ come tutti i debuttanti che hanno dei numeri) per l’intensità delle sue partite e per lo spirito d’iniziativa, quello di oggi ha mosso passi evidenti verso una maggiore compostezza e coordinazione, e ha iniziato a farsi notare più per la qualità che per la quantità del suo calcio. In questo senso, l’evoluzione di Chiesa e in particolare quella degli ultimi mesi si è articolata essenzialmente attraverso una progressiva razionalizzazione della sua partita: meno corse, ma corse più intelligenti; meno dribbling, ma dribbling fatti meglio; meno tiri, ma tiri più precisi. Nonostante una certa frenesia continui a far parte del suo bagaglio tecnico, è difficile negare che la versione odierna di Chiesa sia nel lungo periodo più essenziale e più ordinata rispetto anche soltanto a quella di un paio di anni fa.

Un fattore cruciale da notare, anche perché strettamente legato alla razionalizzazione di cui si è appena detto, è la ridotta dipendenza della squadra dalle sue accelerazioni e dalla sua creatività, dipendenza che specie sotto la guida di Pioli ha dato spesso l’impressione di gravare sulle sue spalle più del dovuto. Secondo gli ultimi dati resi disponibili da WhoScored Chiesa stava registrando in questo campionato i valori più bassi in termini di partecipazione alla manovra dall’inizio della carriera, e non è difficile capire perché: a differenza delle ultime due stagioni, quando quasi tutte le azioni pericolose nascevano dai suoi piedi, quest’anno le offensive della Fiorentina sono state diversificate e ripartite più equamente. Merito di Castrovilli e delle sue progressioni tra la metà campo e la trequarti, e merito evidentemente di Ribery e della sua predisposizione naturale alla regia nell’ultimo terzo; due tipologie di giocatore che, al di là delle qualità tecniche, Pioli non ha mai avuto a disposizione (fatta eccezione per i pochi mesi di Muriel), e che lo hanno sempre costretto a fare affidamento sul solo Chiesa per costruire la pericolosità della sua Fiorentina. In una squadra dove le responsabilità sono maggiormente condivise e il contributo che gli viene richiesto è inferiore in quantità, insomma, Chiesa è stato alleggerito, in qualche modo liberato, e su questa circostanza ha posto le basi della razionalizzazione del suo modo di stare in campo.

Con la Nazionale maggiore, Chiesa ha debuttato a marzo 2018; da allora, 17 presenze e una rete, realizzata contro l’Armenia durante le qualificazioni agli Europei 2020 (Claudio Villa/Getty Images)

In questo senso ha avuto una certa influenza anche il sistema di gioco prediletto da Iachini (ma già utilizzato anche da Montella) fin dal suo arrivo a Firenze, ossia il 3-5-2. La casella di esterno destro nel 3-4-2-1 di Sousa e quella di ala nel 4-3-3 di Pioli – ma con compagni di fascia ultra-difensivi come Milenkovic o Laurini – sono solo un lontano ricordo. Nella Fiorentina di oggi Chiesa è uno dei due riferimenti offensivi, e poco importa se occupa lo slot di attaccante principale (lo è stato quando Ribery era arruolabile e gli faceva da spalla in un tandem versione light) o quello secondario (a fianco e intorno a Vlahovic oppure Cutrone, solo per pochissime partite); quello che conta è che non è più costretto a correre avanti e indietro sulla fascia, ed è ormai quasi del tutto slegato da compiti di ripiegamento; si muove in posizione più centrale ed è molto più frequente vederlo riposare lontano dalla palla rispetto a quanto non ci aveva abituati in passato. In meno parole, la linea evolutiva seguita da Chiesa in questi anni può ben essere intesa come lo spostamento a partire da un punto A, che raccoglie gli esterni d’attacco e i centrocampisti offensivi, verso un punto B, che comprende gli attaccanti centrali.

La sensazione oggi è che dal punto di vista tattico la sua maturazione sia molto vicina ad un punto d’approdo. Non diventerà una prima punta e non tanto perché non sarebbe in grado di farlo a modo suo, quanto perché quello step lo costringerebbe a sacrificare la potenza atletica che lo contraddistingue e che oggi è molto più intelligente nel gestire. E allo stesso tempo sarà difficile tornare a comprimerlo su una delle due ali di un 4-3-3: nella Fiorentina ha spesso e volentieri dimostrato di dare il meglio di sé quando ha tanti metri di campo non solo davanti a sé, ma intorno a tutta la sua figura, quando può prendersi la libertà di scegliere la zona da occupare, mentre le combinazioni in spazi più stretti, e più in generale le doti associative, non sono mai rientrati tra i suoi punti di forza. Il fatto che Chiesa sia oggi un calciatore più razionale, in breve, non deve trarre in inganno: parliamo di un attaccante che continua a dare il meglio di sé quando è libero di generare caos, piuttosto che di uno a suo agio nell’ordine e abile a sfruttarlo.

Un po’ di azioni belle di Federico Chiesa: in questa sequenza, vediamo quanto possano far male le sue progressioni, i suoi tiri da lontano, quanto sappia essere devastante negli spazi larghi

È plausibile che il trasferimento che lo attende, a prescindere dalla destinazione che coinciderà comunque con un club di alto livello, lo renderà ancora più disciplinato; basta guardare alle sue gare con la Nazionale per capire come un contesto qualitativo superiore abbia su di lui lo stesso effetto che ha su tutti i calciatori nettamente dominanti nei loro club. Sbaglierebbe, però, chi in un futuro prossimo pretendesse di inquadrare, incasellare, rinchiudere Chiesa quel tanto di troppo che andrebbe a spegnerne la vivacità, quel tratto del suo modo di stare in campo che fin dalle prime volte tra i professionisti lo ha contraddistinto e ne ha fatto la fama.

Rinunciare alla sua attitudine a scompigliare le carte, a ribaltare il tavolo, vorrebbe dire non soltanto limitare quello che resta forse la sua debolezza più evidente – un certo tipo di individualismo – ma anche, e soprattutto, rinunciare ai suoi pregi più grandi: l’abilità nel generare insicurezza tra le linee avversarie, l’istinto con cui è in grado di arrivare al tiro quando nessuno se lo aspetterebbe, la naturalezza del suo creare occasioni da rete in qualsiasi momento della partita.