Quanto conta una parentesi di una o due stagioni nell’intera carriera di un calciatore? Tanto, se si tratta del periodo che contribuisce a certificare che un atleta può competere ad alti livelli; poco o tantissimo, dipende dai punti di vista, se si fa riferimento al tratto del percorso che aiuta a comprendere limiti e attitudini in funzione dello step successivo. Nel passato più o meno recente, molti grandi campioni hanno scoperto tanto di loro stessi proprio durante queste parentesi negative, talvolta frutto di scelte affrettate, che avrebbero potuto segnare in negativo il percorso professionale.
Ne abbiamo scelti sei tra i più famosi e anche clamorosi, pure in previsione di una sessione di mercato post pandemia in cui si potrà spendere e cambiare poco, e sbagliare ancora meno. Magari un elenco del genere potrà essere utile per dimostrare come, nel calcio, occorrano quella pazienza e quella serenità di valutazione che sono mancate a chi non ha saputo aspettare giocatori così.
Dennis Bergkamp (Inter, 1993-1995)
La parentesi di Dennis Bergkamp all’Inter è stata la storia di un fallimento culturale prima ancora che tecnico o tattico. Quando l’olandese sceglie di accettare il trasferimento in Italia per completare la sua maturazione, ha 24 anni e si è classificato terzo e secondo nella classifica del Pallone d’Oro nei due anni precedenti, in virtù dei suoi 122 gol in 239 partite nelle sette stagioni in maglia Ajax. Invece, si è trovato nel bel mezzo della diatriba che ha segnato i primi anni Novanta del calcio italiano, che ai nuovi Sacchi in cerca d’autore – Maifredi e Orrico su tutti – vedeva opposti allenatori più tradizionalisti, dalla mentalità operaia e verticale, che sceglievano a priori di limitare la dimensione creativa dei giocatori maggior di talento agli ultimi trenta metri, piuttosto che provare ad includerli in un sistema coerente alle loro caratteristiche.
Bergkamp si è semplicemente trovato dal lato sbagliato della barricata: Osvaldo Bagnoli e Ottavio Bianchi hanno cercato di trasformarlo in un “9 e mezzo” alla Roberto Baggio senza tener conto della sua abitudine a dominare tempo e spazio, a sviluppare le connessioni tra reparti corti, aggressivi e coordinati nei movimenti con e senza palla. Per la prima volta nella sua carriera Bergkamp si era trovato a dover fare affidamento solo sulle sue capacità, senza che queste potessero migliorare i suoi compagni e senza che il loro contributo potesse permettergli di migliorare a sua volta, attraverso la tattica. E i risultati furono evidenti: a una prima stagione da 18 gol – di cui 8 in una Coppa Uefa vinta da protagonista – in 42 partite, seguì un 1994/1995 da 3 gol in 24 presenze.
Il 15 settembre 1993, in occasione del primo turno di Coppa UEFA contro il Rapid Bucarest, Dennis Bergkamp realizza la prima e unica tripletta in maglia nerazzurra. Il secondo gol è una splendida sforbiciata su cross di Shalimov che lascia di sasso il portiere avversario. Sarà il punto più alto della sua avventura interista e un anticipo di ciò che farà vedere all’Arsenal qualche anno più tardi
Patrick Kluivert (Milan, 1997/1998)
Quello di Patrick Kluivert è stato un cortocircuito di tipo narrativo. Quando è arrivato al Milan, alla fine degli anni Novanta, la stampa tendeva a filtrare il racconto di un giovane promettente attraverso la lente di “nuovo nome”, usando come metro di paragone un grande campione del passato e parametrando aspettative e valutazioni del rendimento sulla base di categorizzazioni che non avevano già più senso in un calcio che stava già cambiando. Da questo punto di vista, quello di Kluivert è stata la cronaca di un fallimento annunciato: un attaccante olandese giovane, proveniente dall’Ajax, che due stagioni prima aveva deciso una finale di Champions League proprio contro il Milan, punta di diamante di un presunto nuovo trio di olandesi di successo completato da Reiziger e Bogarde, non poteva che richiamare il mito di van Basten. Invece ne viene fuori una stagione in cui il Milan “regala” Edgar Davids, il quarto olandese della sua rosa, alla Juventus, e in cui Kluivert segna nove gol in 33 presenze stagionali. Un’annata da incubo tramandata ai posteri da questa compilation YouTube, piena di errori e orrori in maglia rossonera. Un video che funge da ideale contraltare a quelle in memoria dei fasti di Barcellona, quasi perché lo stesso Kluivert se ne ricordasse in prima persona.
Thierry Henry (Juventus, 1998/1999)
Quando l’8 novembre 1998 Alessandro Del Piero si sbriciola i legamenti del ginocchio sinistro nei minuti finali di Udinese-Juventus, appare chiaro che i bianconeri dovranno tornare sul mercato. E in effetti, tra il 15 e il 19 gennaio del 1999, a Torino sbarcano Juan Eduardo Esnáider e Thierry Henry: due giocatori per provare a sostituirne uno insostituibile che, fino a pochi mesi prima, rivaleggiava con Ronaldo per il titolo di miglior attaccante del mondo. Tra i due, a destare in egual misura curiosità e perplessità è il giovane francese, e non solo per le modalità nebulose del suo acquisto – avvenuto, pare, quasi all’insaputa del suo procuratore e per una cifra (21 miliardi di lire) di molto inferiore rispetto ad una precedente proposta che l’Arsenal aveva recapitato al presidente del Monaco Jean-Louis Campora. Il problema è essenzialmente tattico: in un calcio italiano ancora schiavo del dogmatismo della seconda punta mobile tecnica da affiancare a quella più statica e fisica da area di rigore, Henry rappresenta un’anomalia da decifrare, il prototipo di una nuova razza di attaccante a tutto campo che sta nascendo, di cui Henry sarà il grande precursore, e che necessiterebbe di contesti tattici meno rigidi per esprimere tutto il suo enorme potenziale.
Nella Juventus, invece, l’unico a poter imporre delle deroghe allo scolastico 4-4-2 del nuovo tecnico Ancelotti è Zinedine Zidane. Quindi non è un caso che Henry trovi una maggiore continuità di impiego quando, in assenza del suo numero 21, Ancelotti può tornare alla sua coperta di Linus, schierando l’ex Monaco sugli esterni per sfruttarne il cambio di passo e le doti nell’uno contro uno. Nell’epoca delle categorizzazioni di ruoli e funzioni, Henry diventa un ibrido che crea più problemi di quanti ne potrebbe risolvere se solo si avesse la pazienza di lavorare su di lui: e invece la doppietta del 17 aprile all’Olimpico che costa alla Lazio una buona fetta di uno scudetto già vinto, resterà l’unica prova tangibile del passaggio nel nostro campionato di un giocatore da 360 gol in carriera.
Non sono due gol bellissimi, quelli di Henry contro la Lazio, e forse non è un caso
Juan Román Riquelme (Barcellona, 2002/2003)
Secondo Louis van Gaal, Riquelme aveva fallito al Barcellona perché, banalmente, non correva. E in effetti quella del trequartista statico, un’interpretazione antica di un ruolo che stava già progressivamente scomparendo – almeno nell’accezione sudamericana, per cui al trequartista era demandata la fase di costruzione e rifinitura – è un’immagine che il numero 10 da San Fernando si è visto associare nel corso dell’intera carriera. Tuttavia guardando questo video Riquelme non sembra affatto giocare da fermo, anzi le sue progressioni palla al piede in conduzione sono le stesse che avevano caratterizzato il suo prime tecnico al Boca. Probabile, quindi, che van Gaal si riferisse alla capacità di muoversi all’interno di un 4-3-3 in cui la qualità della giocata era subordinata a quella dei movimenti senza palla.
Stando a Transfermarkt, nel 2002/2003, l’argentino disputò 35 delle sue 42 partite in maglia blaugrana da esterno del tridente – ruolo in cui «mi diceva di aver sofferto perché era come se fosse incastrato», ricorderà Alessio Tacchinardi, suo compagno ai tempi del Villareal – e le altre cinque da mezzala sinistra: un segno evidente della sua incollocabilità all’interno di un sistema in cui compiti e funzioni prescindevano dalla posizione in campo. Per questo Riquelme avrebbe trovato la sua dimensione ideale in un contesto più diretto ed immediato come quello del Villareal di Manuel Pellegrini, nel quale il suo essere un giocatore insensibile all’evoluzione del gioco ha finito per essere un punto di forza invece che di debolezza. Andando a un rigore (sbagliato) di distanza da una finale di Champions League che forse avrebbe cambiato la percezione tutta europea sul suo calcio fuori dal mondo e dal tempo.
Angel Di María (Manchester United, 2014/2015)
A proposito di van Gaal: nell’agosto 2014, quando il Manchester United chiude con il Real Madrid l’acquisto di Angel Di María per oltre 78 milioni di euro – all’epoca quinto trasferimento più oneroso di sempre – sulla panchina dei Red Devils siede proprio l’olandese: la sua idea è quella di utilizzare il rosarino come esterno a tutta fascia/interno di centrocampo in uno stranissimo 3-5-2, confidando in quella multidimensionalità tattica che aveva permesso di impiegarlo come mezzala sinistra nella squadra che aveva vinto pochi mesi prima la decima Champions League della sua storia. Un’intuizione che si rivelerà ben poco felice nella misura in cui un apporto creativo comunque sufficiente nei numeri (12 assist e 45 occasioni da rete create in 32 presenze complessive) non riesce ad avere impatto sulle prestazioni di una squadra in cui la connessione tra centrocampo e attacco è affidata a Wayne Rooney.
Un cortocircuito che si tradurrà in una progressiva incompatibilità tra allenatore e giocatore: «van Gaal mi faceva sempre vedere quando sbagliavo, quando giocavo male e per questo mi rimproverava davanti a tutti. Sempre a farmi vedere quando perdevo palla, sempre quelle maledette palle perse. E un giorno, visto che sentivo che stavo giocando bene, non ce l’ho fatta più e sono esploso. Gli ho detto che non era così e a lui questo non è piaciuto», dirà anni dopo Di Maria a Espn. «Il problema non sono mai stato io», replicherà van Gaal, «perché l’ho fatto giocare in qualsiasi posizione offensiva, potete anche controllare. E non mi ha mai convinto. Non riusciva a gestire la continua pressione sul portatore di palla che c’è in Premier League. Quello è stato il suo problema».
Lo splendido gol al Leicester, uno dei pochi lampi di Di Maria con la maglia del Manchester United
Leonardo Bonucci (Milan, 2017/2018)
Il 28 ottobre 2017, la Juventus batte il Milan a San Siro con due gol di Gonzalo Higuaín che può fare solo Gonzalo Higuaín. Al centro della difesa rossonera, a far coppia con Alessio Romagnoli, c’è Christian Zapata e non Leonardo Bonucci: l’espulsione rimediata sei giorni prima contro il Genoa (per una gomitata a Rosi), una settimana dopo essere finito sul banco degli imputati per la prestazione negativa nel derby che Icardi aveva deciso con una tripletta, ha impedito il primo confronto diretto con il suo passato. In poco più di 15 giorni Bonucci ha consumato il suo personale corollario della legge di Murphy, ribaltando in peggio quell’idea di “spostare gli equilibri” che aveva fatto da sfondo al suo inatteso trasferimento a Milano.
Il 2017/2018 di Bonucci è la rappresentazione plastica di quanto nel calcio moderno sia importante l’aspetto psicologico, forse prima ancora che l’adesione a un progetto tattico coerente. Tra il discorso motivazionale che precede il 6-0 allo Shkendija e il colpo a Rosi ci sono i due mesi che definiscono la sua avventura in rossonero, quelli in cui Bonucci finisce stritolato dalle aspettative connesse alla narrazione di leader ad ogni costo che lui stesso ha contribuito a creare.
Non è una questione di difesa a tre o quattro, della qualità dei compagni di reparto, dell’assenza di Barzagli e Chiellini: forzando l’uscita dalla sua comfort zone, è come se Bonucci si fosse imposto a dover dimostrare di essere sempre e comunque “larger than life” attraverso atteggiamenti, dentro e fuori dal campo, più scenici che altro. Nei fatti ha voluto, chiesto e ottenuto di diventare il leader tecnico ed emotivo di un gruppo in ricostruzione, senza riuscire a valutare rischi e prospettive di quella che avrebbe dovuto essere la scelta decisiva in merito alla parte finale della sua carriera. Il 31 marzo 2018, nella gara di ritorno contro la Juve, segna la rete del momentaneo 1-1 e rompe il protocollo della “non esultanza” dell’ex: sarà il punto più alto della sua parabola milanista prima di tornare sui propri passi, e ai propri livelli.