LeBron James, il politico

Le sue iniziative e le sue prese di posizione, soprattutto negli ultimi anni, sembrano aver tracciato un destino chiaro: quando finirà la sua carriera sul parquet, King James diventerà un uomo politico.

A 17 anni, LeBron James prese una delle prime decisioni dirimenti della sua carriera sportiva: Nike o Adidas? Ovviamente, per il già prescelto e futuro Re non si trattava solo di una scelta di comodità e vestibilità: si trattava di un contratto da 7 milioni di dollari all’anno per cinque anni. Il giovanissimo LBJ era indeciso tra swoosh e stripes, quindi chiese consiglio a uno che di pallacanestro e di scarpe se ne intende: Michael Jordan. «Se Michael Jordan ti dà un consiglio tu lo ascolti, la gente dà più retta a lui che al Presidente degli Stati Uniti», disse.

Magari senza volerlo e senza saperlo, quel ragazzino dimostrava una certa comprensione del rapporto tra fama e potere negli Stati Uniti: non c’è un altro Paese al mondo con una celebrity culture e uno star system paragonabili a quelli americani, e non c’è un altro Paese al mondo in cui lo sport e gli sportivi occupino tanta parte dell’immaginario collettivo. «Gli americani non hanno un’epica, oppure quella che hanno è particolarmente tragica. Hanno quindi sostituito la carenza di questa epica storica con le narrazioni della loro contemporaneità e in quel momento hanno creato una cultura sportiva», disse Jorge Luis Borges via Federico Buffa. Da qui è ovvio si arrivi al punto in cui la gente dà più retta al giocatore di basket più forte del mondo che al leader del mondo libero.

Avanti veloce per 18 anni: adesso LeBron James è Michael Jordan, uno degli sportivi più famosi, ricchi e influenti della sua generazione, vincitore di anelli NBA, titoli di MVP, medaglie d’oro olimpiche e coppe del mondo. La fama di LBJ è tale che il contesto in cui se l’è guadagnata non ha più importanza, è una valuta che può spendere in qualsiasi ambiente e momento. Ha 136 milioni di follower sparsi tra i vari social media, è il secondo atleta più famoso e più ricco del mondo (dopo Ronaldo e prima di Messi). «Se LeBron James ti dà un consiglio tu lo ascolti, perché la gente dà più retta a lui che al Presidente degli Stati Uniti», starà dicendo qualche ragazzino da qualche parte in America. Ma, a differenza di Jordan, James non sembra voler spendere la sua influenza (solo) in consigli sui migliori articoli sportivi disponibili in negozio o (solo) in consulenze sulla concessione dei diritti d’immagine. Le opinioni politiche di MJ si riassumevano nel motto bipartisan «anche i Repubblicani comprano scarpe», un atteggiamento che magari ci si poteva permettere quando al 1600 di Pennsylvania Avenue era domiciliato Reagan, Bush padre, Clinton o Bush figlio.

Ma ora alla Casa Bianca c’è Donald Trump, e per le strade c’è il movimento Black Lives Matter. Nel mezzo, tra il palazzo e la piazza, un vuoto di leadership che sta ingoiando l’America. Su Forbes, Alex Reimer ha scritto che c’è una generazione di sportivi che sta cercando di riempire questo vuoto, rinnovando una tradizione di atleti politicamente impegnati che comincia con Jackie Robinson, passa da Bill Russell, Muhammad Alì, Kareem Abdul-Jabbar, Oscar Robertson e arriva fino a Colin Kaepernick. D’altronde, non è un caso che uno dei gesti simbolici delle proteste di queste settimane, mesi, anni, sia il mettersi in ginocchio (“take a knee”) dell’ex quaterback NFL, ancor più del pugno chiuso del black power o del tragico mantra “I can’t breathe”.

Una generazione di atleti, si diceva. Atleti come la cestista Natasha Cloud, autrice del meraviglioso saggio “Your silence is a knee on my neck” pubblicato su The Players’ Tribune dopo l’omicidio di George Floyd, una disposta a sospendere la sua carriera sportiva per concentrarsi sulla lotta politica perché “sono più di un’atleta”, come ha scritto su Instagram. Una frase che ne ricorda un’altra detta da LBJ in un’intervista telefonica concessa al New York Times «Spero che un giorno la gente mi ricordi non solo per il modo in cui ho giocato a pallacanestro ma anche per il modo in cui ho vissuto la mia vita di afroamericano». È la dichiarazione d’intenti all’origine della più recente e più importante iniziativa politica di James: la fondazione di More Than a Vote, associazione non-profit per la difesa del diritto (e la sensibilizzazione al dovere) di voto degli afroamericani.

In questa foto, LeBron James presenta ai media la I Promise School, costruita ad Akron, Ohio, e inaugurata nel 2018; la fondazione benefica di LBJ ha voluto la creazione di questo istituto per le famiglie a rischio della zona (Jason Miller/Getty Images)

L’iniziativa di James non è soltanto mediatica, è politica. Riguarda una scadenza imminente e un’esigenza impellente, ha un obiettivo preciso e una priorità assoluta. L’importanza e la differenza di questa iniziativa stanno nel fatto che l’obiettivo (il limite) non è mandare un messaggio: non si tratta di mettere una hoodie nera per Trayvon Martin o una maglietta con su scritto “I can’t breathe” per Eric Garner. Non si tratta nemmeno di un endorsement, di un articolo pubblicato su un giornale locale o di una comparsata a sostegno di Hillary Clinton durante un comizio a Cleveland. Non si tratta neanche di beneficenza, quella la fa pure Trump.

Si tratta di un’associazione con un obiettivo preciso («Sì, vogliamo che andiate a votare ma vogliamo anche spiegarvi come fare e cosa l’altra parte sta facendo per impedirvi di votare», ha detto James), di una dichiarazione d’intenti più che mai attuale in tempi di pandemia: a novembre negli Usa si vota per eleggere il prossimo presidente e non è detto che andare al seggio sarà così semplice, il vote-by-mail ballot aggiunge un altro strato di complicazione in un Paese in cui le procedure di voto sono già straordinariamente arzigogolate e in cui l’astensione del 50% degli aventi diritto è ormai tradizione, e l’attuale Commander-in-Chief («l’altra parte» di cui parla spesso James) sta facendo di tutto per convincere l’opinione pubblica che qualsiasi voto a distanza, non-in-presenza, sia garanzia di brogli elettorali dei democratici corrotti e corruttori. Tutti gli esperti di politica ed elezioni americane dicono che il risultato delle prossime presidenziali sarà determinato dalla partecipazione al voto: se sarà alta, molto alta, Trump perderà; se sarà quella di sempre, allora four more years, four more years.

Qui James parla al lancio di “Great Futures Start Here”, una campagna avviata nel 2012 con il patrocinio di Boys & Girls Clubs of America (Kris Connor/Getty Images)

In tanti vedono nella fondazione di questa associazione l’inizio della prossima carriera di LBJ: è tutto troppo preciso, troppo puntuale per rimanere un episodio, un momento. Non è Kanye West, sempre in equilibrio tra la trovata pubblicitaria e il disturbo bipolare. Si comincia già a osservarlo con la lente dell’analista politico: dice quello che dice perché sa che i fan della Nba sono in maggioranza liberal? Fosse un pilota Nascar non sarebbe così semplice. Sostiene i democratici perché gioca in una contea che nel 2016 ha dato il 72% dei voti ai Democratici? Giocasse a Phoenix ci penserebbe due volte. E delle proteste a Hong Kong cosa pensa? E del Green New Deal?

Nel frattempo, James va avanti per la sua strada. Sempre più spesso dice che le cose per cui sarà ricordato saranno quelle che farà fuori dal parquet (l’ambizione e l’autostima non mancano), sempre più convinto rifiuta quell’invito a “tacere e dribblare” che gli rivolse la giornalista di Fox News Laura Ingraham, sempre più sicuro ripete che «è arrivato il momento di uscire e fare di più, di fare finalmente la differenza».