Emre Belozoglu, l’inganno del tempo

A quasi quarant'anni è ancora il simbolo del Fenerbahce, ma non è riuscito a mostrare tutto il suo enorme talento, forse perché è nato nell'epoca sbagliata.

Esistono tanti modi e tante strade per approcciarsi al racconto di un calciatore come Emre Belozoglu. La prima è quella della longevità: pochi giorni fa, infatti, il 39enne centrocampista ex Inter – che compirà 40 anni il prossimo 7 settembre – è diventato il primo giocatore nella storia del calcio turco in grado di segnare almeno un gol in quattro decenni diversi. Un’altra chiave potrebbe essere quella legata ai significati politici delle scelte compiute durante la carriera. Non è roba da poco, basti pensare alla dichiarazione di amore eterno fatta al Fenerbahce dopo il percorso giovanile nel vivaio del Galatasaray: in pratica Emre è cresciuto nella squadra più europea di Istanbul, si è affermato come giocatore di livello internazionale a Milano e in Inghilterra, poi è tornato in Turchia e ha detto «no, scusate, dovete sapere che io ho sempre tifato per la squadra che rappresenta la parte asiatica della città». Difficile pensare a un affronto calcistico più grave e profondo, tra l’altro in un luogo culturalmente frammentato, in cui le rivalità sportive vanno molto oltre lo sport; forse solo un tradimento simile sulla tratta Boca-River, oppure sulla tratta Rangers-Celtic degli anni Settanta/Ottanta, potrebbe essere paragonabile a quello compiuto da Emre. Giusto per ribadire bene il concetto a tutti gli appassionati turchi, Emre ha dato un seguito fattivo alle sue parole: è diventato capitano del Fenerbahce per la prima volta nel 2013 e tuttora indossa con orgoglio la fascia, dopo essere tornato per la terza volta a vestire la maglia gialloblu.

In realtà, la chiave migliore per capire e per godersi (ex-post, o quasi) la carriera di Emre Belozoglu è quella che permette di inquadrare il suo talento nel contesto spazio-temporale in cui si è manifestato. Bisogna provare a ripetere il lavoro fatto da Jacques Tati nel suo controverso capolavoro da regista, Playtime, uscito nel 1967: tutte le scene del film sono girate in campi lunghi e lunghissimi, ci sono più dialoghi e più azioni che si svolgono simultaneamente, e ogni parte dello schermo racconta qualcosa che serve a comprendere l’intreccio, a dare un significato alle immagini. Come in Playtime, la grandezza di Emre si può percepire in relazione a ciò che è successo intorno a lui: il calcio sembrava respingerlo nonostante qualità eccezionali, lui ha capito quali erano i modi e gli spazi più giusti perché un giocatore come lui potesse continuare ad andare in campo, a divertirsi, a fare la differenza. E l’ha fatto, lo fa ancora, persino oggi che è alla soglia dei quarant’anni.

Quando si è affacciato sulla ribalta internazionale, prima con il Galatasaray e poi con l’Inter, Emre era un classico centrocampista creativo degli anni Novanta: aveva un baricentro basso che gli permetteva di muovere velocemente le gambe e il resto del corpo senza perdere contatto con il pallone, e allo stesso tempo possedeva un piede sinistro molto intonato, grazie al quale poteva servire passaggi molto precisi sul breve e sul lungo. Tutte queste qualità, in un gioco non ancora organizzato per gestire un’intera partita attraverso il possesso palla, lo resero un calciatore inevitabilmente intermittente: il suo talento esplodeva all’improvviso, delle volte poteva diventare addirittura utile a raggiungere uno scopo tattico, ma nella maggior parte dei casi le sue giocate erano parte di un’azione destinata a perdersi, e che puntualmente si perdeva. Spesso Emre appariva fuori contesto, è come se fosse stato quasi condannato a non andare oltre l’esercizio di stile, di tecnica fine a se stessa.

Oggi i giocatori come Emre vengono utilizzati in maniera più intelligente rispetto al passato, quando forse erano poetici ma sostanzialmente inutili. Lui, come detto, si è evoluto, ha dovuto farlo, si è trasformato in regista e questo passaggio gli è venuto anche bene. Forse le sue qualità erano davvero superiori alla media, forse era semplicemente più intelligente di tanti altri giocatori della sua era, fatto sta che è riuscito a sopravvivere. In cambio, però, ha potuto imporsi solo in uno spazio ben delimitato, e infatti ha vinto appena due trofei in squadre straniere: la Coppa Italia del 2005 con l’Inter e la Supercoppa Europea del 2012 con l’Atlético Madrid. La Turchia è stata la sua casa ma soprattutto gli ha offerto anche il contesto migliore per essere determinante, cioè per razionalizzare senza troppe pressioni un talento enorme, che forse avrebbe meritato palcoscenici e risultati ben più prestigiosi.

Alla resa dei conti, però, possiamo ritenerci soddisfatti di averlo potuto ammirare in campo: grazie a Emre abbiamo intravisto con larghissimo anticipo cosa sarebbero diventati i centrocampisti con il suo fisico e la sua tecnica, giocatori che oggi hanno un nome diverso – mezzali di possesso – e fanno tante cose belle e utili, in pratica sono diventati il motore creativo del gioco contemporaneo – parliamo dei vari Bernardo Silva, Verratti, Arthur, Thiago Alcántara.

Con le sue 101 partite disputate dal 2000 a oggi, Emre è il quarto giocatore più presente nella storia della Nazionale turca; ha partecipato ai Mondiali del 2002 e agli Europei del 2008 (Alex Livesey/Getty Images)

Emre non doveva nascere nel 1980, ma dieci, dodici o magari quindici anni dopo. In pratica è stato fregato dal suo tempo, almeno per quello che riguarda l’esito “statistico” della sua carriera, vale a dire il rapporto tra ciò che avrebbe potuto fare e ciò che ha fatto nella realtà. Il suo lascito, però, va molto oltre le statistiche relative ai gol segnati, agli assist serviti, ai trofei vinti: Emre appartiene a un gruppo di giocatori davvero trasversali, che tutti conoscono, che per questo rappresentano un po’ il bello del calcio; quelli che non sono mai esplosi del tutto, ma il cui ricordo ci riconcilia con il senso primario del gioco, grazie alla loro tecnica in purezza, a dei gol bellissimi che ci vengono subito in mente se parliamo di loro durante una conversazione – quello di Emre, per esempio, è senza dubbio il pallonetto contro la Lazio nella stagione 2002/03.

Un altro aspetto che ci ha fatto affezionare a Emre e ad altri giocatori come lui, che ce li rende cari e indimenticabili, se vogliamo, è proprio l’incompiutezza. È un monito sull’umanità dei calciatori, ci ricorda che anche loro alla fine, sono proprio come noi. Sono fallibili, sono frangibili. Cioè possono sbagliare, possono rendere meno rispetto alle loro qualità, anzi lo fanno più spesso di quanto pensiamo; possono perdersi per un attimo decisivo come per un anno o cinque, per esempio Emre durante una partita contro il Trabzonspor ha ricoperto di insulti razzisti Didier Zokora, centrocampista ivoriano – che nel loro successivo incrocio in campo si è vendicato con un fallo oltre i limiti del codice penale.

Il Fenerbahce è la squadra con cui Emre ha accumulato il maggior numero di presenze, 225; con la squadra gialloblu, ha vinto per due volte il campionato turco, due edizioni della Coppa nazionale e due di Supercoppa (Ozan Kose/AFP via Getty Images)

Il gruppo di Emre Belozoglu è lo stesso cui appartengono Diego Ribas da Cunha, Alex, Luís García, Nani: campioni potenziali che avrebbero potuto spaccare il mondo, che avrebbero potuto segnare un’epoca, solo che queste promesse intorno al loro futuro le avevamo costruite e immaginate noi, noi da soli, mentre loro sono andati in campo e non sono riusciti ad andare oltre un certo limite, hanno disegnato una carriera buona ma non straordinaria, significativa ma non accecante, se non in alcuni momenti, ognuno per un motivo diverso. Il problema di Emre Belozoglu, come detto, è stato un equivoco con il tempo.

Meno di un anno fa, il ct della Tuchia Senol Günes ha detto che Emre Belozoglu è «il capitano della Nazionale ma anche il fratello maggiore, il padre di tutti i suoi compagni». È in questo modo che Emre ha provato a cancellare, anzi a ribaltare, il suo equivoco col tempo: è come se fosse trasceso, è diventato un’istituzione calcistica, un totem tecnico e spirituale. Ha vissuto anche dei momenti oscuri, ne abbiamo parlato, ma nel frattempo ha costruito e alimentato la sua leggenda, non globale e non perfetta, ma evidentemente questo era il massimo a cui poteva aspirare, viste le circostanze. Il talento e la consapevolezza di possederlo, invece, sono cose che non gli sono mai mancate. Al punto che Emre ha già annunciato il ritiro alla fine di questa stagione, ma l’ha fatto con una nota di malinconia: «Mi piacerebbe giocare fino a sessant’anni, ma bisogna fare i conti con la realtà, con il tempo che passa». Avversari che si possono ingannare, sconfiggere, ma fino a un certo punto.