Uno dei tanti aspetti che la dirompente emergenza Covid-19 ci ha fatto comprendere è il valore degli stadi come luoghi. Louis Khan, l’architetto statunitense specializzato in edifici monumentali, affermava che «l’architettura fa diventare luogo un posto. Senza il pensiero prodotto dall’architettura, un determinato spazio è soltanto un vuoto ricettacolo in attesa». L’idea architettonica definisce il senso e la funzione di un edificio, ma è anche, e forse soprattutto, influenzata dalla percezione che quel posto ha sulle persone.
Il lungo periodo di forzate restrizioni ha fatto sì che ci si sia resi conto dell’importanza degli stadi e del loro ruolo all’interno della vita di tutti i giorni. In questo si può leggere un parallelo che si intreccia al pensiero di Khan e, mentre si cerca di pianificare una ripartenza, trovare uno spunto per rispondere a una domanda: che ruolo potranno avere gli stadi, dopo l’emergenza?
Le recenti limitazioni alle nostre abitudini hanno stimolato una rinnovata consapevolezza riguardo allo sport dal vivo come necessità. Non solo per semplici questioni di tifo, ma per un bisogno più ampio di socialità che determina il modo stesso in cui tutti i luoghi urbani vengono modellati. E, al di là dei tentativi di giocare a porte chiuse – che saranno certamente la norma, almeno nel futuro a breve termine – è risultato evidente come lo stadio (pieno) sia elemento imprescindibile nella composizione del quadro del calcio professionistico.
Il lungo periodo di forzate restrizioni ha fatto sì che ci si sia resi conto dell’importanza degli stadi e del loro ruolo all’interno della vita di tutti i giorniL’assenza di partite e campionati ci conferma il ruolo fondamentale dello sport nella società contemporanea, come motore sociale e motivo di incontro fra le persone. Lo stadio è il luogo in cui tutto questo si svolge e, nel medio-lungo termine, a emergenza superata, la sfida sarà quella di essere in grado di gestire gli impianti sportivi in un modo più articolato e organico.
Paradossalmente, durante la fase di lockdown, i club italiani che non hanno uno stadio di proprietà hanno sofferto meno in termini economici (i ricavi attesi erano più bassi, e relativi quasi soltanto agli incassi da botteghino) ma è stato un piccolo vantaggio solo temporaneo. In futuro, lo stadio sarà il banco di prova per migliorare l’approccio agli eventi pubblici e alla loro organizzazione, e questi edifici andranno gestiti in modo complessivo, dal punto di vista delle strutture, della funzionalità e degli aspetti igienico-sanitari. Per farlo, non si potrà prescindere dagli stadi di proprietà.
Troppi esempi nel panorama italiano, infatti, ci ricordano che la gestione mista pubblico/privato è sempre più controproducente, e fornisce un alibi di disimpegno a entrambe le parti in causa: le municipalità danno in affitto il bene, quasi dimenticandosene, e i club che lo prendono in gestione ordinaria non hanno interesse a implementare servizi specifici (con spese a fondo perduto). Al contrario, la proprietà privata, come ampiamente testimoniato da molteplici casi internazionali, garantisce una cura e un’attenzione ai dettagli che non sono solo utili dal punto di vista economico, ma concorrono a far diventare lo stadio un edificio vivibile dal pubblico, a misura delle sue necessità.
Troppi esempi nel panorama italiano ci ricordano che la gestione mista pubblico/privato è sempre più controproducenteCome già avvenuto in queste settimane, gli stadi possono essere considerati come eventuali hub di supporto in tempi di emergenza. Lo United Center, l’arena dei Chicago Bulls che nel 2019 ha compiuto 25 anni di vita, nel periodo di emergenza è stato agevolmente trasformato in punto di distribuzione di generi alimentari, centro di primo soccorso e deposito per lo stoccaggio temporaneo di supporti medici. Implementato nel corso degli anni, con interventi d’avanguardia rispetto alle dinamiche del pubblico sportivo, il palazzetto di Chicago è risultato già adattabile all’emergenza nei suoi spazi interni, senza necessità di particolari modifiche.
Si tratta di un insegnamento molto importante, che si affianca a quelli europei (Inghilterra, Germania e Francia su tutte) di stadi di proprietà diventati punto focale tramite il quale i club aiutano le loro comunità locali: vengono realizzati programmi scolastici, create strutture di sostegno alle persone disabili o avviate iniziative che coinvolgono gli abitanti e i tifosi. Lo stadio diventa parte del quartiere e della città, e determina in positivo la vita delle persone, avvicinandole al club che dimostra, a sua volta, di essere coinvolto in prima linea sul territorio.
L’obiettivo, a emergenza superata, sarà proprio questo. Andrà presa definitiva coscienza, in Italia più che altrove, che gli impianti sportivi sono luoghi potenzialmente dinamici, capaci di trascendere dalla loro principale funzione sportiva se ben progettati. Nonostante l’improvviso contraccolpo economico potrebbe rallentare, o mettere in pausa, alcuni piani di rinnovamento (Cagliari, Roma, il nuovo San Siro?), la sfida è rendersi conto di quanto sia indispensabile trasformare gli stadi in luoghi della città, curandoli e gestendoli in ogni loro servizio e spazio interno. Una realtà che sarà garantita soltanto dalla presenza virtuosa dei club come proprietari unici degli edifici. Se è possibile trarre un insegnamento da questa emergenza è che gli stadi non sono sfondi su uno schermo televisivo, ma sono luoghi per le persone, vissuti dalle persone. E come tali andranno ripensati.