Il romanzo giallorosso di Jim Pallotta

Si chiude l'avventura del presidente americano alla guida della Roma: che ne è stato di uno dei progetti sportivi più attesi, e al tempo stesso mal sopportati, dei tempi recenti di Serie A?

Dirlo adesso fa strano, ma c’è stato un momento in cui sembrava che le proprietà straniere avrebbero curato tutti i malanni del calcio italiano. Nel corso degli anni Duemila il nostro calcio schiatta di invidia: per gli inglesi, con i loro nababbi venuti dall’altra parte dell’Atlantico o da oltre gli Urali a spendere miliardi nel football, i loro diritti televisivi venduti a prezzi stellari, i loro stadi di proprietà senza barriere a proteggere il campo dai tifosi. Per gli spagnoli, con la loro fiscalità agevolata e una generazione d’oro che è chiaro a tutti, sin da subito, lascerà una profondissima traccia nella storia del pallone. Per i tedeschi, perché anche nel calcio sono così… tedeschi. Il calcio italiano si trova costretto a scegliere: si fa come gli inglesi, come gli spagnoli o come i tedeschi? Si procede per esclusione e il modello tedesco viene eliminato per primo perché prevede organizzazione e pianificazione, paziente attesa e investimenti attenti: grazie, come se avessimo accettato. Quello spagnolo è troppo complicato: azionariato popolare e fondi d’investimento, fiscalità agevolata e debiti con le banche, non è il caso di mettersi a giocare alla finanza creativa. Resta la via britannica: soldi, soldi, soldi, soldi, soldi.

La prima squadra italiana di una certa importanza a passare in mani straniere è la Roma. Dalla famiglia Sensi a una cordata di uomini d’affari americani passando per Unicredit, dall’”ultima espressione della cultura orale del calcio romano”, come si definiva pomposamente Franco Sensi, ai manager con i loro business plan e projected revenue. La nuova Roma e il nuovo capitolo della storia del calcio italiano cominciano con Thomas DiBenedetto, capo-cordata e neo-presidente che, bardato in sciarpa giallorossa, dice che la Roma è una principessa e che a loro tocca trasformarla in regina. Scudetto subito, è lo slogan scelto dal nuovo patron in quel momento in vena di concessioni al romanticismo latino. James Pallotta all’epoca è solo membro del cda ma già dispensa piani quinquennali come un sovietico o un maoista consumato: in cinque anni si vince tutto «come ho già fatto con i Boston Celtics», dice.

Non andrà così, l’Olimpico non diventerà il TD Garden d’Italia. I primi due anni degli americani a Roma, gli anni in cui DiBenedetto si sfila dal ruolo di principe azzurro mentre Pallotta diventa prima presidente e poi socio di maggioranza acquistando le quote rimaste a Unicredit, sono anni sbagliati. Sempre alla ricerca di una posizione comoda tra pragmatismo e romanticismo, tra novità e tradizione, tra conservazione e rivoluzione, la prima Roma americana non è facile da capire: le decisioni le prende Baldini da Londra o Sabatini dalla capitale? Il primo allenatore scelto dalla nuova proprietà è Luis Enrique: quindi la Roma, come tutti i grandi club d’Europa, scommette sull’inesperienza e spera nel talento, si augura che il novizio col cv cortissimo diventi il prossimo Guardiola campione di tutto. Con Luis Enrique va male: fuori ai preliminari di Europa League e settimi in campionato, il nuovo Guardiola non abita più qui.

Il secondo allenatore del nuovo corso giallorosso è Zeman, fresco di promozione in Serie A con il Pescara di Verratti-Insigne-Immobile e che per la prima volta nella sua carriera firma un contratto biennale. Dura fino alla 23esima giornata, il limite lo si supera dopo una sconfitta in casa, 2-4 contro il Cagliari. In questa stagione, la 2012/13, si apre la prima crepa nel rapporto tra i tifosi romanisti e la proprietà americana. Il 26 maggio la Roma perde la finale di Coppa Italia contro la Lazio, 0-1, gol di Lulic. Mentre mezza città soffre il suo personalissimo Maracanazo, Pallotta minimizza parlando di una sconfitta come tante in una partita qualunque, punto di partenza della ricostruzione che verrà.

Questa mancata condivisione del dolore non gli sarà mai perdonata, nemmeno nella notte del bagno nella fontana per festeggiare la rimonta sul Barcellona e l’accesso alla semifinale di Champions League. Mai come dopo il 26 maggio Pallotta è sembrato davvero uno straniero, un americano a Roma, ignorante della natura e cultura della città, dell’importanza che il fratricidio ha nella storia e nella tradizione della capitale. Negli sport americani le partite si perdono e le stagioni si buttano senza problemi, tutto pur di migliorare l’anno dopo e di vincere quello dopo ancora. Ma questa è Roma, e «quando i romani erano solo due, uno uccise l’altro», disse il divo Giulio. Il derby è solo l’ultima delle arene in cui quella violenza si reitera: una sconfitta con la Lazio è morte e la morte la si può accettare solo se a seguirla è il lutto.

Questa mancata condivisione del dolore è parte fondamentale anche dello psicodramma esploso attorno agli addii di Totti (da calciatore prima e dirigente poi) e De Rossi: va bene passare dalla Rometta di Sensi alla A.S. Azienda americana, ma va fatto con tatto, bisogna prendersi tempo, celebrare il dolore e la perdita alla giusta maniera. La freddezza con cui Agnelli notifica l’ultimo anno di Del Piero con la maglia della Juventus non è tollerabile a Roma, per quanto Pallotta si sforzi di ripetere che una squadra di calcio è come un’azienda e quindi i calciatori si salutano cordialmente e poi si continua a lavorare.

Dopo il 26 maggio il “diamo tempo, siamo pazienti” dei romanisti si trasforma repentinamente in un’impazienza malcelata. Quando le cose vanno bene il tempo sembra volare e il piacere effimero: che Rudi Garcia possa essere quello giusto è un’illusione che dura un anno e mezzo, che la seconda volta di Spalletti possa essere quella buona è un sogno lungo diciotto mesi, il brave new world di Di Francesco e Monchi va in frantumi dopo una stagione e mezza. Arriva sempre un momento in cui l’idillio finisce bruscamente: le crisi di nervi in conferenza stampa, i litigi nello spogliatoio e i conflitti tra senatori e nuovi arrivati, le voci che girano in città lungo le frequenze delle leggendarie radio romane, l’allenatore brillante fino a un anno prima che improvvisamente si affida al 5-5-5 e il direttore sportivo desiderato da mezza Europa che finisce a spendere una barca di soldi per Schick e N’Zonzi.

Jean Cocteau diceva che la differenza tra Atene e Roma e che la prima va verso l’alto e la seconda affonda: «A Roma ogni cosa è attirata verso il basso». Quando Pallotta definisce «fucking idiots and assholes» i tifosi giallorossi che avevano esposto uno striscione contro la madre di Ciro Esposito, il rapporto tra le parti affonda. È la goccia che fa traboccare un vaso che era già stato riempito fino all’orlo dell’installazione all’Olimpico di telecamere per facilitare l’individuazione e identificazione. A Pallotta non viene perdonato più nulla, neanche quello che prima non era colpa sua, nemmeno quello che fino a un attimo primo era addirittura un suo merito.

E a tenere calme le acque non basta più neanche la promessa (a questo punto eterna, degno omaggio alla città) di un nuovo stadio: nel 2012 doveva essere pronto entro gli Europei di Francia, nel 2018 doveva aprire i battenti entro cinque anni. Ma cosa poteva saperne il businessman americano del pasticcio in cui si stava andando a ficcare? Quel che resta del nuovo stadio della Roma, alla fine, sono le dichiarazioni alla stampa, i rendering 3D e i modellini in plastica, le tartine e le bollicine degli eventi di presentazione. Neanche una pietra posata, manco un euro speso. Forse Pallotta avrebbe dovuto spulciare i precedenti e ritrovare le parole del primo presidente straniero di una squadra di calcio italiana: Stephen Julius, l’inglese che comprò il Vicenza con 200 assegni circolari presentati in Tribunale, studente di Harvard, sosia di Ralph Fiennes. Julius voleva «lo stadio, vincere, vendere il Vicenza ai tifosi, far sognare una città e guadagnare», scriveva Giulio di Palma su Repubblica. Era il 1998. Tutto questo è già successo prima e succederà ancora, dicevano in Battlestar Galactica.

E dopo nove anni, all’indomani della cessione al gruppo Friedkin, cosa resta della Roma di Pallotta, della prima Roma americana, della prima grande squadra italiana passata in mani straniere? Resta un’innegabile crescita del valore dell’azienda (e del brand, si dovrebbe dire), certificata anche dalla differenza tra la cifra spesa dalla cordata DiBenedetto-Pallotta-D’Amore e quella di rivendita. Resta una rosa, quella che Pallotta lascia a Friedkin, innegabilmente migliore di quella che Sensi lasciò a Pallotta. Resta una squadra che negli anni è stata seconda/terza forza del campionato e invitata in Champions League con una continuità raramente avuta prima. Ma ormai, come nella tradizione italiana, la soluzione al problema precedente è diventata la causa di quello successivo: Pallotta è ormai uno speculatore che voleva fare plusvalenze, un palazzinaro che voleva costruire uno stadio, un colonizzatore che non si è mai sforzato di imparare una parola di italiano, uno che non ha vinto manco una Coppa Italia.

Mi immagino Pallotta finalmente libero dai suoi pensieri romanisti un po’ come Paulie Walnuts in quella puntata de I Soprano in cui la crew va in trasferta in Italia, a Napoli. Paulie si aspetta di trovarci la casa ancestrale dove i suoi padri hanno vissuto per secoli, e invece ci trova un posto in cui nessuno capisce quello che dice («Commendatore! Buongiorno!», ripete a tutti) e in cui lo prendono per il culo perché invece di sugo dice gravy. La puntata si chiude con il ritorno della gang in New Jersey, e l’ultima inquadratura è sul volto sorridente di Paulie che fissa il panorama brutto e sporco, industriale e metropolitano di casa sua, dove tutti sanno chi è e tutti lo capiscono, dove lui sa chi sono tutti e dove capisce tutti.