Prima di scendere in campo dal primo minuto contro l’Olympique Lione, il 19enne difensore spagnolo Eric García aveva giocato una sola partita in Champions League: era l’11 dicembre 2019, il Manchester City era andato a vincere 4-1 a Zagabria contro la Dinamo, tra l’altro si trattava di una gara inutile per la squadra inglese, già certa di aver conquistato la qualificazione agli ottavi e del primo posto nel girone. Cresciuto nelle giovanili del Barcellona e trasferitosi in Inghilterra tre anni fa, negli ultimi giorni García è diventato un personaggio chiave per raccontare – o meglio: per provare a spiegare – la sconfitta dei Citizens contro il Lione, nella notte di Ferragosto: è stato schierato nel cuore di una (inattesa) difesa a tre, con Fernandinho e Laporte ai suoi lati, Walker e Cancelo esterni a tutta fascia, De Bruyne, Gundogan e Rodri a centrocampo, Sterling e Gabriel Jesus in attacco, ma soprattutto con Bernardo Silva, David Silva, Foden e Mahrez seduti più o meno comodamente sulle tribune dello stadio “José Alvalade” di Lisbona, come avviene per i panchinari nel calcio post-Covid.
García ha commesso alcuni errori ma in realtà non ha giocato così male, del resto stiamo parlando di un difensore di grande prospettiva, con i piedi buoni e con un’ottima personalità, che sembra essere pronto – dal punto di vista fisico, tecnico, mentale, persino etico e culturale – per recitare un ruolo importante in una squadra come il Manchester City, che gioca un calcio sofisticato ai massimi livelli; non a caso, ha accumulato 1418 minuti di gioco in tutte le competizioni di questa stagione, con 13 presenze in Premier League, e in queste gare il City ha tenuto una media di 2,54 punti per partita. Non si tratta di un perfetto sconosciuto, insomma. Il punto, però, è che ci ha sorpreso vedere García titolare, scelto come perno centrale di una difesa a tre in una partita così importante, per di più pochi giorni dopo la vittoria del City contro il Real Madrid, arrivata con De Bruyne, Gabriel Jesus, Foden e Sterling tutti in campo dal primo minuto. Secondo l’analisi di Jonathan Wilson sul Guardian, «ancora una volta, in una grande partita europea, Guardiola ha deviato dalla sua formula consolidata. Ha costruito un nuovo sistema tattico, voleva cambiare il City per agevolarlo, e invece ha finito per ostacolarlo».
Per descrivere cosa ha fatto Guardiola, Wilson ha utilizzato il termine «overthink». Non è una parola traducibile in italiano, nella nostra lingua si deve utilizzare la locuzione “pensare troppo” per restituirne compiutamente il significato. Questa tendenza a pensare troppo, e poi ad agire di conseguenza, è considerata la causa principale del record negativo di Guardiola in Champions League – il tecnico catalano non raggiunge la finale dal 2011, con il Bayern ha perso per tre volte in semifinale tra il 2014 e il 2016, e nelle sue quattro stagioni alla guida del City non ha mai superato i quarti di finale. Si tratta di un’accusa ben documentata, nel senso che è supportata da fatti e testimonianze del passato: un anno fa, per il match dei quarti perso (0-1) in casa del Tottenham, Guardiola scelse di non schierare De Bruyne, Bernardo Silva e Gabriel Jesus dal primo minuto; nel libro Herr Pep, che racconta dall’interno il suo primo anno in Germania, c’è un intero capitolo in cui l’autore Martì Perarnau descrive l’avvicinamento di Guardiola alla semifinale di ritorno contro il Real Madrid, il cambio di formazione e atteggiamento tattico varato prima della partita, poi la brutale sconfitta interna (0-4) contro le merengues e i rimpianti di Pep per le sue stesse decisioni; Thomas Müller, raccontando l’approccio del suo ex allenatore, ha spiegato che Guardiola «presta estrema attenzione agli avversari e ai loro punti di forza: quando deve affrontare squadre di alto livello, è sempre molto combattuto, non sa se restare fedele alle proprie convinzioni oppure cambiare le cose per giocare meglio quella singola gara. A volte le sue direttive risentono di questa confusione, non tutti i giocatori in campo sono sicuri al 100% di quello che devono fare. Allo stesso tempo, però, questa sua continua ricerca del dominio, di una nuova e migliore soluzione tattica, lo rende il miglior allenatore del mondo».
Al netto di parametri “storici” non misurabili, per esempio l’impatto sulla cultura tattica della Premier League e del calcio in senso assoluto, la valutazione dell’avventura di Guardiola al City deve per forza passare dalla comprensione di quest’ultimo passaggio – e lo stesso discorso vale anche per il suo triennio alla guida del Bayern Monaco. Da quando ha lasciato la Spagna, infatti, Guardiola ha modificato in maniera evidente il suo gioco, non tanto nell’approccio – sempre sistemico, fondato su principi forti e riconoscibili – quanto per ciò che abbiamo visto e vediamo sul campo. Per riassumere: se il juego di posición del suo Barcellona puntava a esaltare le qualità e nascondere i (pochi) difetti di Xavi, Iniesta, Messi, quindi utilizzava il possesso palla in maniera intensiva per creare e/o liberare spazi da attaccare dietro le linee avversarie, in Germania e Inghilterra questi stessi principi sono stati modellati per produrre un gioco più veloce, più verticale, potenzialmente perfetto per valorizzare giocatori diversi in contesti diversi – Lahm, Robben, Ribery e Lewandoski in Baviera, poi De Bruyne, Agüero e Sterling a Manchester.
Oltre a questo processo adattivo “a monte”, Guardiola non ha mai smesso di sperimentare anche “a valle”, cioè di andare oltre, quantomeno di provare a farlo, implementando nuove idee tattiche praticamente in ogni partita senza modificare i principi di base. Un esempio recente: al Bernabéu, nel match d’andata degli ottavi di Champions contro il Real Madrid, pochi giorni prima del lockdown, Pep aveva schierato il City con il 4-2-3-1; nulla di strano o di cervellotico se non fosse che l’attaccante puro Gabriel Jesus era stato utilizzato come laterale offensivo a sinistra, mentre l’unica punta era Kevin De Bruyne. Al termine della partita, proprio il fuoriclasse belga aveva celebrato il genio del suo allenatore: «Sono quattro anni, ormai, che lavoriamo con Pep. E sono quattro anni che abbiamo sempre delle sorprese. Persino noi giocatori, fino a quando inizia la partita, non sappiamo fino in fondo cosa dobbiamo fare in campo. Poi però ci rendiamo conto che le sue intuizioni sono giuste».
Il Guardiolismo, oggi, è essenzialmente questo. È un tentativo continuo, ininterrotto, di rendere sempre più bello e più efficace il calcio, ovvero un gioco già molto influenzato dal Guardiolismo stesso. Come se Franz Sacher o Sergio Leone fossero ancora in vita e lavorassero ogni giorno – prima con la mente, poi con i mestoli e in sala di montaggio – per rendere più gustosa la Sachertorte, per rendere più perfetto C’era una volta in America, magari aggiustando la dose della confettura di albicocche, oppure aggiungendo una battuta tagliata di Robert De Niro/David “Noodles” Aaronson. Un intento nobile, certo, ma anche complicato e presuntuoso, che potenzialmente può portare a dei risultati negativi, a deturpare un capolavoro.
Perché il Manchester City di Guardiola resta un capolavoro, questa è una sottolineatura doverosa: i Citizens sono reduci da due Premier vinte con 198 punti accumulati nel 2018 e nel 2019, dal Treble domestico nella stagione 2018/19 (impresa mai riuscita a nessuna squadra inglese), anche quest’anno hanno vinto un trofeo (la League Cup); pure dal punto di vista economico l’investimento su Guardiola ha portato ampi benefici, infatti il valore della rosa è più che raddoppiato dal 2016 a oggi (da 498 milioni 1,06 miliardi) e il fatturato del club è salito da 463 a 610.6 milioni nello stesso arco temporale.
La gestione di Guardiola è praticamente perfetta per tutto ciò che si snoda e si declina su un ampio spettro temporale, e questa è un’affermazione che vale per le scelte tattiche individuali – in questo senso, basti pensare all’idea di schierare Messi come attaccante centrale piuttosto che come esterno offensivo – e collettive, per l’avanzamento progettuale di un club, per l’intero ambiente in cui Pep viene chiamato a lavorare, a innovare – Gareth Southgate, ct della Nazionale inglese, ha dichiarato che l’influenza del manager catalano «è stata enorme, di fatto ha cambiato la mentalità della Premier League». Proprio questo stesso approccio, però, ha finito per penalizzare il Manchester City nei match a eliminazione diretta, in cui ogni giocata è potenzialmente decisiva per determinare il risultato finale e i rapporti di forza in campo sono meno dilatati, e allora forse sarebbe più saggio, certamente meno rischioso, puntare su meccanismi già metabolizzati, già verificati. Non a caso, proprio dopo la sconfitta contro il Lione, Guardiola ha detto che «la tattica, in Champions, non è la cosa più importante per vincere». Si tratta di un commento amaro ma anche profondamente vero e sarcastico, è come se Pep avesse scelto e usato queste parole per sottolineare il fatto che gli episodi – uno su tutti: l’errore di Sterling a porta spalancata – abbiano avuto un peso enorme sul risultato, e quindi anche sulla valutazione ex post di scelte che oggi appaiono sbagliate, che forse erano e sono state effettivamente sbagliate, ma che lui considerava giuste prima di andare in campo, dall’alto del suo modo di vivere e lavorare nel calcio.
La figura di Guardiola e le sue istanze – tecniche, politiche ed emotive – sono molto diverse rispetto a dieci anni fa. Si continua a parlare di un certo Guardiolismo, sempre allo stesso modo, mentre nel frattempo i suoi rivali storici – Mourinho e Klopp su tutti – hanno dovuto cambiare squadra e progetto e approccio per poter continuare a vincere, o anche solo per poter sopravvivere. In realtà pure Pep ha fatto la stessa cosa, si è evoluto tantissimo, anzi l’ha fatto in maniera ancora più profonda, ha deciso di esasperare questa volontà di ricercare e perfezionare il nuovo, di autodeterminare il futuro suo e delle proprie squadre, di non adagiarsi su quello che aveva già raggiunto e costruito. Questa visione gli ha permesso di diventare ed essere considerato come un genio assoluto, trasversale nel senso di universalmente riconosciuto, ma non ha mai accettato o solo previsto compromessi, neanche quelli che forse avrebbero potuto agevolarlo per raggiungere l’unico grande traguardo che gli manca: conquistare la Champions League lontano da Barcellona.
Ancora oggi, Pep ragiona come se la ricerca di un modo per vincere e per dominare le partite, di un modo più spettacolare e innovativo per vincere e dominare le partite, fosse più importante della vittoria stessa. È la sua natura, è l’essenza del Guardiolismo, un avamposto calcistico – per non dire culturale – che è stato giudicato e che sarà giudicato in base ai risultati che riuscirà a produrre, come tutte le cose calcistiche, ma che probabilmente è già trasceso, almeno nella mente di Guardiola, nella mente di chi lo ama, di chi lo ha scelto e/o lo sceglierà per allenare ancora, di chi lo vorrebbe sulla panchina della propria squadra, nonostante tutto.