La Formula Uno era il regno di Flavio Briatore

Ha vinto tanto, ha lanciato piloti straordinari. E l'ha fatto senza mai tradire la sua indole, la sua attenzione per il lato glam e d'intrattenimento del Circus.

«Alla gente piace vedere la faccia di Briatore […] ha gli occhiali da sole, ha la pelle marrone», cantavano nel 2009 I Ministri, sottolineando la sovraesposizione mediatica di un personaggio che da sempre affascina il pubblico televisivo pomeridiano con il suo atteggiamento spavaldo da self-made man che si può permettere i luoghi di vacanza più lussuosi e la frequentazione di top model come Naomi Campbell e Heidi Klum. Un atteggiamento che, nelle ultime settimane, lo ha portato a criticare la chiusura del suo Billionaire Club in Costa Smeralda, affermando che in Sardegna la situazione della diffusione del Covid-19 non costituisse una criticità, ma uscendone contagiato e ricoverato insieme a molti dei suoi dipendenti e frequentatori.

Quella stessa attitudine però ha portato Flavio Briatore a diventare uno dei team manager più vincenti della storia della Formula 1, con sette mondiali – tra piloti e costruttori – vinti con Benetton e Renault e la valorizzazione di corridori come Michael Schumacher e Fernando Alonso. Non male, per qualcuno ancora oggi accusato di essere ignorante di Formula 1 e di corse motoristiche, entrato in questo mondo dalla porta principale ma quasi per caso, senza aver mai frequentato prima l’ambiente e imponendo fin da subito l’idea che «la Formula 1 non è uno sport, è un business».

Dopo il diploma da geometra, il giovane Briatore saltò da un’attività imprenditoriale all’altra, dalla ristorazione all’edilizia, trasferendosi presto dalla provincia cuneese alla più vivace Milano. Nel capoluogo lombardo conobbe Luciano Benetton, che gli diede l’autorizzazione ad aprire alcuni negozi in franchising negli Stati Uniti. Da lì Briatore iniziò una rapida ascesa all’interno dell’azienda che lo portò, a fine anni Ottanta, a diventare prima direttore commerciale e poi direttore generale della scuderia di Formula 1 di proprietà dei Benetton, creata nel 1986. Tra le prime mosse di Briatore ci fu l’assunzione di Tom Walkinshaw come direttore tecnico: un ex pilota poco noto ai meno appassionati, ma che ebbe l’importante intuizione di far ingaggiare dalla Benetton un giovanissimo Michael Schumacher, nonostante una sola gara all’attivo in Formula 1.

Allo stesso tempo, Briatore arruolò come direttore tecnico l’inglese Ross Brawn, proveniente dalle corse prototipi, che fu affiancato al reparto progetti dal sudafricano Rory Byrne, presente in scuderia fin dalla nascita. Dopo solo un paio di anni di rodaggio, la Benetton si elevò da squadra in grado di competere occasionalmente per la vittoria di qualche gran premio a scuderia di riferimento del Circus. Nel 1994, nonostante una squalifica di due gare e le polemiche che caratterizzarono la gara finale in Australia – in cui Schumacher sembrò buttare fuori di pista in maniera intenzionale il rivale Damon Hill – il pilota tedesco conquistò il suo primo titolo mondiale con otto gran premi vinti, grazie anche a una vettura motorizzata Ford costruita quasi letteralmente intorno a lui.

Durante la stagione, la Benetton B194 fu al centro di una controversia: alcune scuderie rivali esposero un reclamo alla federazione internazionale, sostenendo che l’auto presentasse aiuti elettronici – in particolare nel controllo della trazione e nella partenza – all’epoca vietati. Dopo aver indagato, la FIA scoprì all’interno dell’auto un sistema automatico per la partenza, ma trovò dispositivi di tipo simile anche nelle vetture delle altre scuderie, e le pene inflitte furono minori o addirittura nulle. «Il nostro solo errore è stato quello di essere troppo giovani, e le persone erano sospettose per questo» affermò Briatore al Guardian.

Briatore a colloquio con Jean Todt, negli anni Novanta; il francese è diventato direttore generale della Ferrari nel 1993, Briatore guidava la scuderia Benetton già dal 1988 (Clive Mason/Allsport)

La vicenda mise in luce una delle migliori qualità del team manager: quella di saper sfruttare le aree grigie del regolamento. «Flavio non è un uomo delle corse, ma prende sempre la decisione giusta» diceva di lui Frank Williams, il titolare dell’omonima scuderia. Proveniente da settori del tutto differenti da quello delle corse, Briatore gestiva inoltre le situazioni da una prospettiva diversa rispetto a quella degli altri. Tra gli aspetti che gli interessavano, c’erano soprattutto quelli economici: «Ci fu un momento in cui avevamo più sponsor nel team. Ricordo che una volta entrò Pat Symonds in ufficio e mi disse degli adesivi, per gli ingegneri rendevano la macchina pesante. Gli dissi okay, togliete gli adesivi e non abbiamo i soldi per correre: scegliete, macchina con gli adesivi o macchina senza e non correte, ditemi cosa preferite».

La sua idea di Formula 1 sembrava rivoluzionaria per l’epoca, più orientata verso l’intrattenimento che lo sviluppo tecnologico: «A ogni riunione in cui vado, le persone parlano di pistoni e sospensioni. Nessuno va a una gara per vedere quel tipo di cose… le persone vengono a vedere Schumacher e Senna correre l’uno contro l’altro». Un pensiero rimasto più o meno invariato nel corso degli anni, in cui ha sostenuto anche che le persone al comando della Formula 1 dovrebbero essere uomini d’affari interessati a intrattenere i fan, non ex ingegneri.

Nell’ambiente della Formula 1, da sempre sinonimo di lusso sfrenato e belle donne, Briatore sembrava in ogni caso trovarsi perfettamente a proprio agio. A differenza di altri suoi pari grado con un’intera vita passata nel mondo delle corse, tra grasso, lamiere e bulloni, lui si rifletteva negli aspetti più glam del settore, iniziando ad apparire sempre più spesso sulle copertine di riviste scandalistiche con i suoi occhiali sgargianti e al fianco di top model e showgirl. «È la mia vita, non ne vorrei una diversa. Sono un privilegiato», ha sempre affermato.

Flavio Briatore e Giancarlo Fisichella durante la loro esperienza alla Benetton; il pilota italiano ha militato nelle scuderie guidate di Briatore in due periodi diversi, alla Benetton tra il 1998 e il 2001 e poi alla Renault, dal 2005 al 2007 (Mark Thompson/ALLSPORT)

Alla fine del 1994, Briatore acquisì la Ligier, un’altra scuderia di Formula 1. Per regolamento non gli era possibile gestire due squadre, ma il suo scopo era semplicemente quello di rilevare la fornitura di motori Renault della Ligier, considerati all’epoca i migliori dell’intero Circus, per poi usarli sulle Benetton. Con i nuovi motori, la squadra guidata da Briatore riuscì a fare persino meglio dell’anno precedente, affiancando a un secondo titolo piloti – sempre con Schumacher – anche quello costruttori, con nove gare vinte dal tedesco e due dal nuovo compagno di squadra Johnny Herbert. Fu quello il momento più alto della scuderia, che di lì a poco iniziò a perdere i pezzi principali. Nel corso dell’estate Schumacher annunciò che a partire dal 1996 sarebbe passato alla Ferrari, seguito poi nell’inverno successivo da Brawn e Byrne, due tra i principali artefici del successo della Benetton. «Oramai è una moda per la Ferrari prendere i nostri ex dipendenti» dichiarò Briatore con molto amaro in bocca. «Il Cavallino sta rifondando la squadra con i pensionati della Benetton. Noi, invece, ci prendiamo il rischio di affrontare il futuro con uno staff tutto giovane. Vedremo alla fine chi avrà avuto ragione».

Eppure, da lì a poco la Ferrari avrebbe avviato uno storico ciclo vincente, mentre la Benetton avrebbe raccolto solo qualche briciola qua e là e tante stagioni di transizione in attesa di un rilancio che non sarebbe mai arrivato. Nel 1997, in accordo con Luciano Benetton, Briatore lasciò la scuderia ma non il mondo delle corse, fondando Supertec, azienda che avrebbe fornito per alcuni anni i motori a vetture come Williams e la stessa Benetton. A fine 2001, la Renault rilevò poi la licenza per il campionato di F1 dalla scuderia italiana, rientrando nel Circus dopo 17 anni di assenza e richiamando Briatore al ruolo di team manager.

Tra le prime mosse ci fu l’ingaggio del giovane spagnolo Fernando Alonso, reduce da un anno in Minardi e già sotto l’ala protettiva di Briatore dal 1999. Lo spagnolo passò un anno all’interno della scuderia come terza guida al fianco dei piloti Jenson Button e Jarno Trulli, per poi diventare titolare di una delle due vetture ufficiali nel 2003. La sostituzione di Button con un pilota inesperto suscitò perplessità nell’ambiente, ma Briatore si limitò a un laconico «il tempo mi dirà se sto sbagliando». E in effetti non si sbagliò: al suo primo anno, Alonso ottenne una vittoria – la prima del nuovo corso Renault – in Ungheria. Dopo una stagione interlocutoria caratterizzata dai litigi fra Briatore e Trulli – che accusava la scuderia di privilegiare il suo compagno di squadra – tra il 2004 e il 2005 la Renault riuscì a conquistare sia il titolo piloti, con Alonso, che quello costruttori.

Alonso e Briatore festeggiano una vittoria con la Renault; il pilota spagnolo ha vinto i sue due titoli mondiali sotto la direzione del manager italiano (Pierre Andrieu/AFP via Getty Images)

Il sapore di quei mondiali per Briatore fu più intenso di quello dei precedenti vinti in Benetton: «Quando vinsi con Michael eravamo un po’ degli incoscienti. Dietro questo trionfo c’è un impegno enorme, con un gruppo come la Renault, che ha iniziato il suo programma soltanto quattro anni fa». La scuderia, inoltre, riuscì a battere avversari in grado di investire molti più soldi nella realizzazione e nello sviluppo della vettura.

Briatore e la Renault non riuscirono però a dare continuità alle vittorie, anche a causa del passaggio di Alonso alla McLaren nel 2007. L’anno successivo il pilota spagnolo fece il suo ritorno, e la vettura ritrovò un minimo di competitività, conquistando due vittorie, una delle quali – al Gran Premio di Singapore – piuttosto rocambolesca, con Alonso che riuscì a sfruttare l’ingresso della safety car dopo un incidente del suo compagno di squadra Nelson Piquet Jr. Circa un anno dopo, la FIA aprì un’inchiesta su quella gara, dando inizio a quello che i media ribattezzarono Crashgate.

Un’immagine di Briatore del 2009, la sua ultima stagione in Formula Uno prima del Crashgate e della squalifica (Mark Thompson/Getty Images)

Il 30 agosto 2009, la rete televisiva brasiliana Rede Globo affermò che era stata la scuderia a ordinare a Piquet Jr. di andarsi a schiantare contro le barriere, in modo da agevolare il compagno di squadra Alonso, fatto successivamente confermato dallo stesso pilota. «Stavo solo cercando di salvare il team. È il mio compito» si giustificò Briatore. Chiusa l’inchiesta, il Consiglio Mondiale della FIA squalificò per cinque anni Pat Symonds – responsabile di aver dato l’ordine via radio a Piquet Jr. – e radiò il team manager a vita dalle competizioni motoristiche, pena poi annullata per un procedimento irregolare. Briatore e la FIA trovarono infine un accordo per una squalifica fino al 2013, ma, in ogni caso, il team manager fu licenziato dalla Renault, chiudendo nel modo più ignobile possibile la sua avventura nel mondo dei motori. Da allora, Briatore ha sempre escluso un possibile ritorno in Formula 1 dopo la fine della squalifica, perlomeno nel ruolo di team manager. Nel 2014, quando fu tenuto fuori da un gruppo di lavoro per il rilancio della categoria, sembrò mettere definitivamente fine all’esperienza in Formula 1, con un tono molto amareggiato: «Sono troppo genio per fare il consulente della Formula 1, non mi meritano. Lascio che si incasinino da soli».

«La F1 è come la varicella, il virus ti prende una volta sola», ha affermato invece più di recente. «Ci ho passato tantissimi anni, ho vinto quello che altri non hanno mai vinto, mi sono divertito». Eppure, nonostante i suoi affari ormai siano altrove, negli ultimi anni Briatore non ha mai staccato la testa da quel mondo in cui ha vissuto probabilmente i momenti più rilevanti della sua vita fino a questo momento, lanciando critiche e consigli ai nuovi proprietari americani della F1, alla Ferrari o a chiunque altro secondo lui ne abbia avuto bisogno.