Tutte le ragioni di Messi

Ha detto di voler lasciare il Barça, e forse lo farà perché vuole sentirsi ancora più adorato, ancora più importante, magari in un club che gli metterà anche meno pressioni.

Lionel Messi rischia di diventare per il calcio quello che Jep Gambardella era per le feste romane ne La Grande Bellezza: «Io non volevo solo giocare nel Barcellona, volevo avere il potere di farlo fallire», avrà sussurrato la Pulce dando l’assenso all’invio del burofax più famoso e famigerato della storia del calcio? «Io credo che le epoche si chiudono così, all’improvviso», diceva il giornalista Luigi, interpretato da Marcello Mastroianni, in uno dei capolavori di Ettore Scola, La terrazza. Questa epoca del calcio, che per buona parte è stata tinta di blaugrana, che in tanti momenti ha portato sulle spalle il numero 10 di Messi e il nome di Messi, si chiude così, all’improvviso: al termine della più assurda delle stagioni, dopo la più umiliante delle sconfitte e nel più burocratico dei modi. Il burofax è uno di quei tranelli tecnologici che servono a impedire all’altra parte di cavarsela con un “non l’ho visto, non l’ho letto”, è la pec del fax, la doppia spunta blu di whatsapp delle conversazioni tra avvocati spagnoli.

«Per mezzo di questo documento io, Lionel Andrés Messi Cuccittini, sollecito che si proceda alla risoluzione del contratto della prestazione lavorativa che svolgo attualmente nel suo distinto club», è questo il messaggio con cui Messi ha deciso di lasciare il club in cui è simbolicamente e letteralmente (una dose di ormone della crescita alla volta) cresciuto. Vuole esercitare la clausola 24 e cestinare il suo contratto con il Barcellona, una libertà “che si è guadagnato”, come disse il presidente del Barcellona, Bartomeu, in un’intervista invecchiata male. E ora è tutto nelle mani degli avvocati, si finisce in tribunale, sarà il giudice a decidere cosa resta di questa storia oltre ai cocci che in questi giorni abbiamo visto schizzare dappertutto.

Razionalizzare è un automatismo che ci aiuta a sopravvivere all’imprevedibile e all’incomprensibile, quindi ci sta provare a quantificare il rapporto tra Messi e il Barça: ma parlare di presenze, gol, assist, trofei vinti con la squadra e premi che affollano la bacheca personale non è solo un altro modo di ribadire l’ovvio? Uno dei più grandi giocatori in una delle squadre più forti della storia del pallone, basta questo. Forse sono altri i dettagli che aiutano a capire quanta della vita di Messi sia legata al Barcellona: chi ha intorno ai trent’anni si ricorda Messi con i brufoli, con il brutto taglio di capelli di un ragazzino che ancora non se ne deve preoccupare, con le braccia lattiginose prima di diventare tela per tatuatori, con il numero 21 di chi è appena arrivato in prima squadra, ma sempre e comunque con il blaugrana catalano.

«Io credo che le epoche si chiudono così, all’improvviso», anche se poi non è mai solo “così”, non è mai davvero “all’improvviso”. Il deterioramento è lento e inesorabile per definizione, tanto nelle cose materiali quanto in quelle immateriali. Il rapporto tra Messi e il Barcellona ha cominciato a guastarsi anni fa, anche se nessuno può dire esattamente quando e perché: sarà stato al momento dell’esonero del Tata Martino, l’allenatore che Messi aveva fortissimamente voluto sulla panchina blaugrana? Sarà stato nell’estate in cui il Barça ha deciso di cedere Neymar al Psg, privando Messi non solo di un’intesa sul campo ma anche di un’amicizia fuori dal rettangolo? A portarli a questo momento, a questo punto, sarà stato uno in una miriade di affronti percepiti dal giocatore e di scorrettezze sopportate dal club di cui noi che guardiamo non sapremo mai, non sospetteremmo neanche?

Nelle sue sedici stagioni con il Barcellona, dal 2004 a oggi, Leo Messi ha alzato al cielo 34 trofei, 24 domestici e dieci internazionali, tra cui tre Champions League (Alex Caparros/Getty Images)

In tanti (giornalisti, bene informati, ben collegati) credono che tra il giocatore e il club non ci sia una questione privata ma una lotta politica: Messi non vuole davvero lasciare il Barcellona, vuole liberarsi di questo Barcellona. Sarebbe a dire dell’attuale presidente e del suo consiglio di amministrazione. Quelli che mandarono il suo amico Abidal davanti a telecamere e microfoni a dire che Valverde era stato esonerato perché i giocatori con lui si allenavano poco e male. Quelli che decisero di cedere Neymar, che si rifiutarono di riprenderlo e che per di più non sono stati capaci di sostituirlo: prima Dembélé, poi Coutinho, infine Griezmann, un disastro multimilionario dopo l’altro e manco uno tra questi con cui si possa passare una serata bella come quelle con il brasiliano ora di stanza a Parigi. Quelli che con un sms hanno notificato a Suárez, il migliore amico di Messi, che il suo contratto, prossimo alla scadenza, non sarebbe stato rinnovato. Quelli che hanno scelto Ronald Koeman come nuovo allenatore e la prima cosa che gli hanno detto è stata di andare da Messi e fargli sapere che «i privilegi che finora ti sono stati concessi sono finiti».

Per tutte queste ragioni e per chissà quante altre, Messi vuole un altro Barcellona oppure il Barcellona dovrà trovarsi un altro Messi. Ma che senso ha questo gioco del trono? La possibilità di elezioni anticipate per decidere il prossimo presidente blaugrana non esiste: Bartomeu (o chi per lui) dovrebbe in quel caso ripianare gli ingenti debiti del club con soldi prelevati dal suo conto in banca personale. E perché anticipare elezioni che si terrebbero comunque tra un anno? E perché fare la guerra a una dirigenza che ha già scelto il nuovo allenatore? Forse Messi, umano pure lui, vive di precedenti ai quali dà il senso che più gli conviene: minacciare di prendersi il pallone e non giocare più funzionò quando decise che le quattro finali perse con l’Argentina erano colpa della dirigenza della federcalcio albiceleste. Cambiarono i dirigenti, cambiò il ct e Messi tornò in Nazionale.

Lo score di Messi con la Nazionale argentina è di 70 reti in 138 presenze: dal 2016, quando ha superato Batistuta (55 reti segnate), è diventato il miglior marcatore nella storia della Selección (Gonzalo Arroyo Moreno/Getty Images)

Non credo ci sia niente di politico nella decisione della Pulce di lasciare il Barcellona. Magari ha tutto a che vedere con le meschinità e le piccinerie, le indecisioni e le storture che esistono anche nella mente del più grande calciatore di quest’epoca. Da una parte pare che Messi sia stufo di portare sulle spalle il peso della leggenda che il Barça ha costruito negli ultimi quindici anni: finché c’erano Xavi e Iniesta, Neymar e Suárez, tutti erano uguali quando si trattava di dividere l’onere ma lui era un po’ meno uguale degli altri quando c’era da ridistribuire l’onore. Ora non è più così e la responsabilità è troppa, non vuole certo tornare a vomitare prima, durante e dopo le partite a causa della tensione.

Dall’altra parte, però, c’è un Messi che vuol fare (e vuole essere trattato) come i giocatori-franchigia della Nba: quelli che mettono bocca su quali trade bisogna fare, su come è meglio allenarsi, su quali schemi si adattano meglio a questo o quel quintetto, sulle rotazioni più efficienti in questa o quella partita. In certi momenti Messi dà l’impressione di voler essere LeBron James: i Miami Heat e i Cleveland Cavaliers esistono nella percezione degli sportivi di tutto il mondo solo nel momento in cui i loro nomi corrispondono a quello di LBJ, se il Re decide che a Miami vuole stare con Wade e Bosh, a Cleveland vuole giocare con Love e Irving, a Los Angeles duettare con Anthony Davis, la dirigenza lo accontenta. Allo stesso modo, Messi sembra pretendere di essere più di un club che è già  “més che un club”, di giocare allo stesso tempo nella squadra più forte del mondo e con i suoi più cari amici. Il delirio di onnipotenza, la trasformazione in reuccio forse è inevitabile quando vivi in una città in cui ti amano a tal punto che se lasci la macchina in mezzo alla strada, con la portiera aperta e la chiave inserita, si forma la ressa per decidere chi avrà il privilegio di parcheggiartela.

Con la maglia del Barcellona, Messi ha accumulato 731 presenze in manifestazioni ufficiali e ha messo a segno 634 gol (David Ramos/Getty Images)

Forse è solo una questione di orgoglio che si riscopre dopo l’umiliazione. La sconfitta 8-2 contro il Bayern ha ricordato a Messi che il suo debito con il Barcellona è ripagato: sì, il club lo ha aiutato a mettersi alle spalle il ragazzino troppo gracile persino per passare le selezioni del Como di Preziosi, ma lui ha aiutato il club a diventare la squadra-icona del calcio degli anni 2000. Finché vinceva e dominava, poteva ignorare le frecciatine di chi gli diceva che vinceva e dominava solo perché c’erano Xavi e Busquets a prendere il pallone davanti alla difesa, Iniesta a portarlo fino alla trequarti, Neymar sempre pronto a scattare sulla sinistra, Suarez a creargli uno spazio dopo l’altro al centro. Ma ora perché restare, sconfitto e umiliato, a prendersi le colpe che sono pure di Griezmann, di De Jong, di Lenglet?

Forse è solo un fatto di vanità che segue l’orgoglio e che allontana l’umiliazione. Se a Barcellona lo vogliono così poco da non essere disposti a fare l’impossibile e l’inutile pur di trattenerlo, allora lui va al Manchester City, dove in panchina c’è Guardiola, in campo De Bruyne e sugli spalti Liam e Noel Gallagher disposti alla reunion degli Oasis solo per avere il privilegio di dedicargli una canzone. O, chissà, potrebbe essere anche il Manchester United: riportare alla vittoria una nobile decaduta e cancellare dai ricordi dell’Old Trafford i giochi di gambe di Cristiano Ronaldo. O anche il Psg, per ritrovare il caro amico Neymar, o l’Inter, per rinvigorirsi grazie alla distinta concorrenza di CR7 e godersi la fiscalità agevolata del Decreto Crescita. Tutto dipende da quanto forte, sincera, autentica sia la volontà di Messi di lasciare il Barça: se lo è abbastanza, porterà la squadra della sua vita in un tribunale della Fifa, dove nessun giudice ha mai dato ragione a un club e torto a un giocatore. A quel punto, in quel momento, quando gli avvocati avranno finito l’arringa e il giudice pronto a pronunciare la sentenza, probabilmente quest’epoca si chiuderà così, all’improvviso.