Storia completa dei giocatori americani in Italia

Prima di Weston McKennie, sono passati di qui Lalas, Onyewu e Bradley, e altri calciatori un po' meno famosi: Lassiter, Ferrari, Szetela, Kristo, Novakovich e Perez.

Cristoforo Colombo, Bora Milutinovic, Maurizio Coppola. Nella trinità che Alexi Lalas ringrazia pubblicamente nel luglio del 1994, c’è tutta la storia di un calciatore statunitense che sbarca in Serie A: un noto navigatore genovese del quindicesimo secolo, un allenatore jugoslavo che lo ha convinto a continuare con il calcio, e ne ha fatto un punto fermo della nazionale Usa, e un centrocampista italiano che con il suo destro da fuori area nello spareggio con il Cesena ha permesso al Padova di tornare nella massima serie dopo trentadue anni di assenza.

Lalas non è stato il primo statunitense a giocare in Italia, ma è sicuramente il primo a essere considerato come tale. Coloro che lo hanno preceduto, tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, sono figli di italiani, portano cognomi italiani e hanno attraversato l’Atlantico per altre ragioni: gente poco nota come il centravanti e laterale newyorchese Alfio Argentieri, viceversa personaggi cui l’etichetta di calciatore sta stretta, come Alfonso Negro, nato a Brooklyn, calciatore della Fiorentina e studente di medicina a Firenze, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Berlino ’36, allenatore-giocatore e anni dopo assessore allo sport e al turismo per nel comune napoletano di Resina, che anche grazie a lui assume il nome di Ercolano, o come Herman “Armando” Frigo, nato e cresciuto nello stato dell’Indiana fino all’età di otto anni, quindi trasferitosi a Vicenza, dove inizia a giocare prima di finire anche lui alla Fiorentina, vincere una Coppa Italia, trasferirsi allo Spezia e arruolarsi nell’esercito italiano, venendo catturato e ucciso dai nazisti dopo aver resistito per un mese a difesa delle bocche di Cattaro.

Con Panayotis Alexander Lalas le cose sono molto diverse. È un calciatore autenticamente yankee, in un momento in cui gli Stati Uniti sembrano aver scoperto questo sport quasi all’improvviso e nelle librerie va a ruba qualsiasi cosa abbia a che fare col calcio; l’aspetto fisico, decisamente esotico, fa il resto. Alessandro Melli, attaccante della Sampdoria, è convinto che «se Lalas non avesse avuto il pizzetto, non l’avrebbero preso», mentre sulle pagine di Repubblica, pur riconoscendone il talento, ci si chiede come «si farà a dire a Nereo Rocco che il suo Padova ha preso un americano per farlo giocare in difesa». A Gianni Mura il nuovo arrivato sembra addirittura «un trotzkista».

Lalas è sotto contratto – come molti compagni di nazionale – con la federazione statunitense. Sono disposti a cederlo in prestito, in attesa che la Major League Soccer – il nuovo campionato professionistico promesso alla Fifa al momento dell’assegnazione dei Mondiali 1994 – veda la luce di lì a due anni, quindi un’occasione a buon mercato: basta sborsare duecentomila dollari alla United States Soccer Federation. Il giocatore agisce con ordine, incontrando le dirigenze di Coventry e Bochum prima di presentarsi al Caffé Pedrocchi, dove ai seicento tifosi presenti e al presidente Giordani dice di essere molto felice di essere in Italia, rifiutando però di indossare una sciarpa con i colori dei club, volendo ritornare negli Stati Uniti prima di prendere una decisione definitiva. Dopo aver ricevuto in regalo dal sindaco un paio d’occhiali e un libro in inglese sulla città, e aver consumato un pasto a base di prosciutto e melone, Lalas visita il nuovo stadio Euganeo, inaugurato un mese prima, e commenta laconico: «Che schifo!».

Poche ore dopo, comunque, convinto di voler giocare nel miglior campionato al mondo, sveglia Giordani per avvisarlo della lieta novella e invia il fax con il contratto firmato, aggiungendo a penna un bel “Forza Padova”. Una settimana più tardi, nel ritiro di Bressanone, la sua diversità è subito evidente: non tanto per il numero di scarpe (47) o per la capacità polmonare (sette litri), ma per quell’atteggiamento che il compagno di squadra e di stanza Marco Franceschetti, dopo averlo visto salire sul palco di un ristorante-pizzeria di Rio di Pusteria, prendere in mano una chitarra acustica e intrattenere un centinaio di persone improvvisando un blues con le prime parole che gli passano per la testa, sintetizza così: «Noi italiani siamo vincolati a un cliché rigido, lui no. Ha la mentalità del cantante prima ancora che del calciatore. È il suo spirito che ci piace: quello di uno che fa il nostro mestiere seriamente, ma senza vivere sotto il peso dell’ossessione e dello stress». Per usare le parole dello stesso Lalas in un’intervista all’Unità: «Faccio quello che mi piace e mi pagano anche. Beh spero di piacere. Sennò mi diranno ciao goodbye arrivederci vaffanculo».

Sandreani e Stacchini, i due allenatori del Padova, notano subito la sua capacità istintiva di mettere ordine alla difesa e di sganciarsi in avanti, la pulizia di tocco con entrambi i piedi, l’abilità sulle punizioni e sui colpi di testa. Ad attirare di più l’attenzione, però, è il suo lato naïf: la ricerca di una casa isolata dove poter suonare senza disturbare nessuno, le serate a fare cover di Springsteen con Luca Barbarossa o Rossana Casale, le ospitate in televisione («nel dopopartita io posso mangiare, scopare, suonare»), la sincerità («Agnelli, chi è?», «è possibile che Zeman è un vaffanculo»). Dopo un gol all’Inter in Coppa Italia, quello al Milan in Serie A, seguito dall’esultanza sotto i tifosi e dall’ammonizione («È rules questo? Ah ok sorry»), fa esplodere definitivamente la mania: dal New Jersey arrivano decine di telefonate e di fax, la città è invasa dai giornalisti. Pur senza condividere, da difensore, la concezione americana del calcio («In America vogliono tutto subito. Gol! Gol! Gol! Vogliono tutto subito. Come nel sesso»), Lalas è comunque libero da certe sovrastutture: per lui San Siro è uno stadio, non un tempio, e crede sinceramente che la salvezza arriverà perché le squadre già salve faranno il loro dovere.

La prima stagione gli vale un’automobile, è il premio al miglior calciatore statunitense del 1995; nella seconda finisce spesso in panchina per le regole che sul numero di stranieri che possono andare in campo. A marzo, dopo qualche dissapore con i tifosi («preferirei ci fossero dieci persone tutte per noi, piuttosto che ventimila indecise tra incitamenti e fischi»), stanco di un’Italia in cui «il calcio è tutto e non si parla d’altro», ritorna in patria per la stagione inaugurale della MLS, portando con sé Galderisi. Lascia una scarpa, oggi cimelio di proprietà del Padova, e una bizzarra promessa, quella di non sposarsi né fare figli e lasciare parte dell’eredità al comune di Padova per erigere un nuovo stadio, più raccolto dell’Euganeo, che faccia sentire il calore del pubblico. Il vice-sindaco, spiazzato dalla prospettiva di un terzo stadio cittadino, suggerisce una destinazione più ampia per il lascito, magari per altri impianti sportivi. Nel frattempo il problema si è risolto da solo: il giocatore ha infatti generato due eredi e li ha anche portati con sé, quando è tornato finalmente a Padova, nel 2019.

Quando gli Stati Uniti hanno finalmente un campionato, in Italia c’è chi guarda con interesse: il capocannoniere dell’edizione inaugurale, l’attaccante afro-americano del Tampa Bay Mutiny, Roy Lassiter, attira infatti l’attenzione di un Genoa alla seconda stagione consecutiva in Serie B. Al giocatore, che arriva inizialmente in prestito per sei mesi, viene comunicata apertamente l’idea: comprarlo per 1,3 milioni di dollari e poi rivenderlo, se tutto va bene, a dieci. Un piano geniale, al quale Lassiter accetta di partecipare in cambio di uno stipendio pari a ventimila dollari mensili, una casa, una Volvo e biglietti aerei di andata e ritorno per le vacanze. Presentato il primo novembre, il numero 32 suscita da subito qualche dubbio: già a dicembre Perotti, che in allenamento deve riprendere Nappi per aver rimproverato troppo il collega americano, deve chiarire alla stampa che «non esiste alcun caso Lassiter». Prima di lasciare, ai primi di gennaio, per motivi familiari, salutato dall’inevitabile titolo “torna a casa Lassiter”, fa in tempo ad accumulare appena 81 minuti di gioco.

L’unica presenza da titolare arriva a Castel di Sangro in un contesto del tutto particolare: l’inaugurazione dello stadio Teofilo Patini, alla presenza dell’ex presidente Gravina, del vescovo di Sulmona e di una bufera di neve: Lassiter, che pure è uomo di mondo, essendo nato a Washington DC e passato pure dalle carceri americane, secondo La Stampa, comprensibilmente, «stenta a comprendere cosa stia succedendo intorno a lui». Viene sostituito ancora prima che, dopo venticinque minuti di gioco, l’arbitro Ercolino si veda costretto a sospendere la partita per impraticabilità del campo. Stando a diversi siti internet, Wikipedia compresa, in questa partita Lassiter avrebbe segnato un incredibile gol in rovesciata, poi reso vano dal rinvio dell’incontro: si tratta però di una leggenda metropolitana, per quanto affascinante, mentre la realtà, spesso non all’altezza, non segnala niente di più di una rete messa a segno in amichevole ad Acqui Terme.

Lassiter esulta dopo un gol con la maglia dei Tampa Bay Mutiny, la squadra più importante della sua vita, in cui ha disputato 62 partite e ha segnato 37 gol, prima e dopo l’avventura con il Genoa (Simon Barnett/Getty Images)

Prima di vedere un altro calciatore statunitense in Italia bisogna aspettare dieci anni e una nuova generazione, quella che ai Mondiali Under 20 del 2007, in Canada, arriva fino ai quarti di finale, dopo aver eliminato l’Uruguay di Cavani e Suárez. Sono gli Stati Uniti di Bradley, Altidore e Freddy Adu, convinto che «questa squadra ha così tante armi che potrebbe uccidere qualcuno». Ma è anche la Nazionale Usa di Gabriel Enzo Ferrari, attaccante newyorchese dalle movenze paragonate a quelle di Ibrahimovic, cresciuto nel Corinthians e nei New York MetroStars, passato alla Sampdoria di Marotta, che lo soffia all’Ajax dopo averlo visto in azione durante un periodo di prova con gli olandesi, pochi mesi prima del torneo, e di Danny Szetela, centrocampista e amico d’infanzia di Giuseppe Rossi, con il quale è cresciuto a Clifton e ha giocato nei New Jersey Stallions. Le parabole di Ferrari, che rifiuta la convocazione nell’Italia Under 19, convinto di poter avere più spazio negli Usa, e di Szetela, che ai Mondiali fa così bene da meritarsi l’esordio in nazionale maggiore e scatenare un derby di mercato tra Lazio e Roma, per poi finire acquistato dal Racing Santander e ceduto in prestito al Brescia a inizio 2008, si chiudono entrambe in maniera violenta, pur senza uccidere: Ferrari, più volte in panchina con la prima squadra e una volta in campo in Coppa Italia contro l’Inter, colleziona prestiti in Serie C e si fa notare per un pugno sferrato a un avversario in un Giulianova-Foggia; Szetela, dopo una stagione e mezza in Serie B con Cosmi, Sonetti e Cavasin e un gol all’attivo, torna negli States e pochi anni dopo viene arrestato per una rissa in un locale di Boonton.

Altro exploit di una nazionale nel 2009, con gli Usa che arrivano in finale di Confederations Cup eliminando la Spagna, e altro americano in Italia: Oguchi Onyewu al Milan, però, fa decisamente notizia, perché è la prima volta di uno statunitense in uno dei club italiani più famosi al mondo. Se in Italia, dove pure si riconosce che il giocatore, con le sue sedute extra di tattica a fine allenamento allo Standard Liegi, ha imparato «come si tiene dritta una difesa», e Gianni Mura lo inserisce tra i dieci giocatori che faranno un grande campionato, l’acquisto di Gooch, il primo di un’estate che ha visto partire Kakà, è visto come un colpo dettato da esigenze economiche, dal momento che arriva a parametro zero, grazie ai buoni rapporti tra le dirigenze di Milan e Standard, per guadagnare un milione di euro a stagione, negli Stati Uniti l’entusiasmo è invece alle stelle.

Onyewu con la maglia del Milan durante un test match estivo contro la Juventus: è marcato da un giovanissimo Iago Falque, che dal 2008 al 2010 è stato di proprietà della squadra bianconera (Claudio Villa/Getty Images)

Onyewu è presentato ufficialmente ad Atlanta, dove il Milan si trova per affrontare il Club America nella solita tournée estiva. Il giocatore dichiara come questo sia un grande passo per lui, ma anche per tutto il calcio americano, mentre per il dirigente Umberto Gandini si tratta addirittura di un momento destinato a ispirare i bambini statunitensi e a convincerli della possibilità, un giorno, di giocare in Europa per qualche grande club. Un significato che va al di là dello sport: vedere Onyewu al Milan, pensa Jill Robbins dell’organizzazione no-pofit Soccer in the Streets, convincerà finalmente tanti ragazzi afroamericani o di altre minoranze etniche di avere delle possibilità; i loro genitori, finalmente, li lasceranno giocare a calcio.

Bastano un paio di gol su colpo di testa in un allenamento aperto al pubblico per scatenare i cori “Gooooooch” e “Usa, Usa” dei tifosi, estasiati di vedere un connazionale al fianco di Ronaldinho e Inzaghi. Onyewu, quasi imbarazzato, realizza che per la prima volta qualcuno ha pagato un biglietto per vederlo allenarsi: «Non penso che mi sia mai accaduto prima, dimostra quanta strada ho fatto». Tanto entusiasmo, purtroppo, svanisce nel nulla: Onyewu ottiene infatti soltanto una presenza, da subentrato, in Milan-Zurigo 0-1, prima di infortunarsi in nazionale e prolungare il contratto di una stagione, “regalando” un anno di stipendio alla società. Anche in questo caso è una scazzottata, la famosa rissa con Ibrahimovic, a segnare la fine della sua permanenza in Italia: lascia a gennaio del 2011, senza aver mai esordito in Serie A.

Bradley esulta con Osvaldo e Lamela dopo un gol segnato dalla Roma: con i giallorossi, il centrocampista americano ha messo insieme 46 presenze in partite ufficiali e due gol segnati (Paolo Bruno/Getty Images)

Per vedere un americano, dopo Lalas, scendere in campo nella massima serie italiana bisogna allora attendere fino al 2011, quando Michael Bradley lascia il Borussia Monchengladbach per il Chievo. Gli stereotipi sono rimasti gli stessi, a giudicare dalle testate che scrivono di “un Chievo rock’n’roll”, come se tutti i cittadini statunitensi viaggiassero con una chitarra incorporata, e immutato è anche il rispetto nei confronti del campionato italiano, che il centrocampista continua a ritenere il migliore del mondo: ricorda quando da bambino, alle nove di ogni domenica mattina, si svegliava per vedere con il papà le partite della Serie A e Albertini era il suo giocatore preferito, e assicura di aver seguito in tv e apprezzato il buon campionato disputato dal Chievo di Pioli nella stagione precedente.

Tra un Chievo-Cesena visto in curva in compagnia dei tifosi e gli incontri con le scolaresche statunitensi in gita a Verona, Bradley è un successo anche in campo, tanto che finisce presto al centro delle notizie di mercato. Per la Roma a proprietà americana la tentazione di farne il volto della squadra negli Usa è troppo forte: dopo Totti è lui, nella tournée cui prende parte dopo il trasferimento, l’uomo più cercato dalla stampa. In ossequio ai cliché, dopo il gol a Udine nel 2013, decisivo per la nova vittoria consecutiva di una Roma che vola in testa alla classifica, Bradley diventa “Capitan America”, incoronato con il cappello del comandante dell’aereo che riporta la squadra a casa. Quando torna a Toronto, pochi mesi dopo, è ormai diventato lo statunitense con più presenze in Serie A.

Il resto è attualità o quasi: Robert Kristo, attaccante classe ’93, nato in Bosnia, che lascia gli Usa per firmare con lo Spezia e finisce in prestito alla Fidelis Andria e al Tuttocuoio poi; il quasi altrettanto alto centravanti Andrija Novakovich, attualmente al Frosinone e già passato dalla nazionale maggiore a stelle e strisce; Joshua Perez, ultimo a trovare minuti in Serie A, classe ’98 come il nuovo arrivato McKennie, esterno d’attacco prelevato dalla Fiorentina nel 2013 e tenuto in fresco fino alla maggiore età, quando può essere finalmente tesserato e persino lanciato da Sousa a San Siro contro l’Inter, per poi essere ceduto in prestito in B a Livorno e scoprire che «è una città piccola per uno come me che è cresciuto a Los Angeles, ma è davvero bella».