Perché il Tour de France 2020 è stato uno dei più folli di sempre

La vittoria di Pogacar è arrivata solo alla penultima tappa, ma non è stata l'unica cosa che non ci aspettavamo.

Dopo 117 anni di storia, al Tour de France non restano più troppi record da stabilire. Eppure da un paio d’anni la Grande Boucle è attraversata da una smania di rinnovamento che sembra decisa ad abbattere un numero di muri e di consuetudini sempre maggiore. Se nel 2019 tutto questo poteva apparire come una concatenazione di eventi casuali, il bizzarro 2020 dello sport è arrivato come un uragano a ribadire la forza del cambiamento che sta avvenendo.

In queste settimane il Tour de France ha inscenato un costante inseguimento alla sua stessa storia. Partita tra mille dubbi sulle reali possibilità di arrivare sino in fondo, la Grande Boucle è giunta a Parigi incoronando il più giovane vincitore dal 1904, quando Henri Cornet si aggiudicò la corsa a nemmeno 20 anni: risultato che ritocca ulteriormente verso il basso il primato di giovinezza stabilito un anno fa da Egan Bernal. Ma è stato anche il Tour in cui si è interrotto il dominio di Peter Sagan sulla maglia verde, che durava pressoché incontrastato dal 2012, e quello della Sky/Ineos sulla classifica generale. Un Tour che ha visto un ribaltone in classifica al penultimo giorno, fatto che non accadeva da nove stagioni, ma che è risultato talmente clamoroso da richiamare addirittura il duello tra Laurent Fignon e Greg Lemond nel 1989. Un Tour in cui il distacco così ampio tra il primo e l’ultimo (Roger Kluge, classificato a 6 ore 7 minuti e 2 secondi da Tadej Pogacar) non si registrava da 66 anni. Un Tour che per la prima volta ha premiato uno sloveno, paese che da “vergine” si è preso i primi due gradini del podio. E naturalmente è stata la prima Grande Boucle disputatasi nel mese di settembre, la prima senza nessuna delle salite storiche, la prima (e speriamo unica) arrivata in una Parigi deserta, senza l’abituale bagno di folla degli Champs-Élysées.

Un’edizione storica per la più importante corsa a tappe del ciclismo, eppure che sembra passata quasi sotto silenzio, con gli ascolti televisivi in calo (tranne in Francia) e costantemente assente dalle prime pagine dei giornali (tranne in Francia). Basti pensare che il giorno successivo alla decisiva tappa del “ribaltone” in classifica i giornali sportivi hanno dedicato al Tour soltanto un piccolo box marginale, e nemmeno tutti. Un motivo in più per ripercorrere questa edizione a suo modo “storica”, attraverso i suoi temi e i suoi protagonisti principali.

All’ultima pedalata: Tadej Pogacar vs Primoz Roglic

Pur non avendone mai nemmeno terminato uno sul podio, il trentenne Primoz Roglic era arrivato a questo Tour da favorito, perché nonostante un arrivo tardivo al ciclismo che conta (prima saltava con gli sci, potreste averne letto) ci si era fatto largo con un quarto posto al Tour, un podio al Giro e una Vuelta vinta. Solido e maturo – e supportato da una squadra che difficilmente avrebbe potuto essere migliore nella gestione della corsa – per 19 tappe Roglic e la Jumbo hanno disputato un Tour attento, con qualche picco ma soprattutto senza la minima sbavatura. Intanto tra gli altri, in tanti si perdevano per strada per logoramento. Compreso Egan Bernal, vincitore un anno fa.

Escluso uno, però: Tadej Pogacar, nato a cinquanta chilometri da Roglic, sloveno come lui. Altezza simile, peso quasi uguale, e come lui ottimamente dotato di quel raro incontro tra tutte quelle qualità necessarie a indossare una maglia gialla sugli Champs-Élysées. Talentuoso (tre tappe e terzo posto finale al suo primo grande giro, la Vuelta del 2019), giovanissimo (ne ha fatti 22 ieri, alla sua età Roglic ancora doveva correre il suo primo Giro di Slovenia) e con una squadra debole e decimata, Pogacar è sempre stato lì, fino alla penultima tappa, la cronometro della Planche des Belles Filles. Partito con circa un minuto di ritardo da Roglic, Pogacar gliene ha ripresi quasi due: era in the zone, ben oltre ogni prestazione mostrata nella manciata di cronometro della sua carriera da professionista. È andato oltre i suoi limiti, anche perché forse ancora nemmeno lui sa bene dove siano. Capita, talvolta, a quelli che sono dei fenomeni e hanno 21 anni.

Su 176 ciclisti partiti da Nizza, in 146 hanno raggiunto il traguardo degli Champs-Élysées di Parigi (Anne-Christine Poujoulat/AFP via Getty Images)

Da buon trentenne, Roglic ha fatto il suo. Non è crollato, non si è sgretolato: ha perso, in quella cronometro, mezzo minuto dal secondo. L’anomalia, la difformità, l’imprevedibile singolarità è stata il tempo del primo. E nonostante un tempo comunque buono, più Roglic procedeva e più sembrava uno che insegue invano il treno che doveva prendere, e chissà se ce ne sarà un altro: era trafelato, boccheggiante, scomposto, sbavato, fradicio di sudore e più umano che mai. Era lo stesso che tre giorni prima, sul Col de la Loze, la salita più salita di questo Tour, aveva staccato Pogacar. Era uno che era sembrato il più forte, con la squadra più forte; e invece Pogacar lo ha messo al tappeto in quella strana alchimia di muscoli e testa che è una cronometro alla fine di un grande giro. Pogacar, arrivato a questo Tour come ci arriva un predestinato che però non l’aveva mai corso prima se ne è andato da Parigi con tre tappe e tre maglie: oltre alla gialla, la bianca e la a pois.

Tre premi a cui vanno aggiunti, come scriveva ieri Alexandre Roos sull’Équipe «un leoncino di peluche e un cesto di sospetti», immancabili dopo un’impresa simile (ottenuta guidato dal team manager Mauro Gianetti, corridore implicato in vicende di doping in passato) e immancabili ad ogni fine Tour, per quanto presto superati dalle notizie della perquisizione e dei fermi nell’hotel dell’Arkéa di Nairo Quintana.

Questo Tour, che nemmeno sapevamo se sarebbe finito, è addirittura finito così. E in quelli che verranno Pogaèar dovrà vedersela con altri ancora più giovani di lui ma forse già pronti (qualcuno ha detto Remco Evenepoel?), con un Bernal che oltre a sapere cosa vuol dire vincere un Tour già sa anche cosa vuol dire perderlo, e con un sempre consistente drappello di meno giovani che continueranno a provarci. E poi con quell’altro sloveno, meno giovane ma non ancora propriamente vecchio che forse è già lì a guardare gli orari dei prossimi treni che passeranno. (Gabriele Gargantini)

Tour-roulette

Ai nastri di partenza di una Grande Boucle che scommetteva addirittura sul suo riuscire ad arrivare in fondo, non erano pochi i corridori che avevano deciso di puntare forte. Per quattro dei favoriti della vigilia questo giro al tavolo giallo si presentava come una grande occasione: la sorte non ha premiato tutti allo stesso modo.

Quasi quattromila chilometri in tre settimane sono un grande azzardo, la dea bendata reclama il suo spazio. Thibaut Pinot partiva con la certezza di trovare davanti a sé un percorso adatto alle sue caratteristiche condito dal privilegio di giocarsi la tappa decisiva sulle strade di casa, dove avrebbe (e ha) incontrato il debordante affetto della sua gente. Nairo Quintana sembrava aver ritrovato, prima del confinamento, gamba fiducia e sfrontatezza, e nonostante il rinvio settembrino questa pareva potesse essere proprio la volta buona. La dama dai denti verdi era però di tutt’altra opinione: Pinot atterrato già alla prima tappa, Quintana durante la tredicesima. Entrambi sono arrivati a Parigi, seppure acciaccati, giusto per ricordare il proprio credito presso la malasorte.

Richie Port e Mads Pedersen – in maglia iridata – durante la sesta tappa del Tour, che si è corsa da Le Teil a Monte Aigoual il 3 settembre (Kenzo Tribouilllard/AFP via Getty Images)

Nella speciale classifica dei creditori della sorte, tuttavia, nessuno sta alla pari di Richie Porte. Il piccolo tasmaniano ha lasciato spesso il Tour in ambulanza, specialmente quando la condizione sembrava invidiabile. Quest’anno è partito quasi in sordina, restando, però, sempre vicino ai primi, nonostante qualche immancabile foratura nel momento sbagliato, per poi andare a prendersi il podio di forza con una cronometro da antologia. Mica male per un ragazzo di trentacinque anni, all’ultima uscita da capitano unico. Si è regalato la foto che gli mancava: quella sul podio degli Champs-Élysées. Un sogno per il quale ha investito sin da ragazzino, quando puntava la sveglia alle due del mattino per assistere alle sfide boreali sulle strade di Francia. Ha dovuto persino rimandare il primo appuntamento con la sua secondogenita, nata pochi giorni fa. Sua moglie gli aveva confidato che, se l’avesse visto arrancare nelle ultime posizioni del gruppo, questa volta, si sarebbe arrabbiata sul serio. Pericolo scampato.

Giocatore più oculato, finalmente Mikel Landa partiva con una squadra solida, interamente al suo servizio. Eppure, nonostante la livrea sgargiante, la sua Bahrain – McLaren si è notata poco: solo grazie ad una grande azione corale verso il Col de la Loze, alla quale è mancata infine la stilettata del capitano. Landa ci ha provato il giorno dopo con convinzione e un’espressione più ispirata sul suo viso da attore triste, ma con identico, inconcludente, risultato. Si allargano gli interrogativi sulla tenuta mentale un corridore tanto elegante quanto fragile. Tuttavia, il Tour non è avaro di seconde occasioni, basti guardare l’esempio di Porte e provare un nuovo lancio di dadi, l’anno prossimo. (Michele Polletta)

Lo strano Tour di Peter Sagan

Domenica pomeriggio Peter Sagan ha tagliato il traguardo e portato a termine il suo ottavo Tour de France in 9 anni. Una volta conclusa la corsa, ha seguito il programma di tutti gli altri corridori: niente immersione tra folla e autografi per via delle norme sanitarie, più verosimilmente una doccia, un brindisi con la squadra, e infine l’agognata fuoriuscita dalla bolla per incontrare i propri cari. Non ci sarebbe nulla di strano in questa agenda, se non fosse che per il corridore slovacco si trattava di una prima assoluta. Tutte le altre volte che aveva raggiunto gli Champs-Élysées, Sagan aveva vissuto un lungo post-tappa sul palco delle premiazioni, sul quale era abituato a salire ogni anno per ricevere la maglia verde del vincitore della classifica a punti (doppiata nel 2016 anche dal premio della combattività). Questa volta invece non ha potuto che osservare la premiazione di un altro, Sam Bennett, dopo una volata che lo ha visto concludere al terzo posto, preceduto in maniera beffarda proprio dai corridori con indosso le sue maglie: Bennett in verde e il campione del mondo Mads Pedersen in maglia iridata.

Il ciclismo delle ultime due stagioni ci ha abituato al fatto insolito del vedere Sagan con la maglia ordinaria della propria squadra, fatto inusuale per un corridore che nel tempo ha ispessito il proprio vestiario indossando ripetutamente i colori di leader della classifica a punti e di campione mondiale, europeo e nazionale. Il cambio estetico è una rappresentazione perfetta della trasformazione che sta coinvolgendo lo slovacco, che non conquista un successo dal 10 luglio del 2019 (allo scorso Tour de France) e si trova, per la prima volta in dieci anni di professionismo, ad affrontare l’inevitabile confronto con il tempo che passa.

La volata della tappa numero 11, corsa da Châtelaillon-Plage a Poitiers: il vincitore, alla fine, è stato Caleb Ewans; Peter Sagan, inizialmente secondo, viene retrocesso come ultimo del gruppo a causa del contatto con Wout Van Aert (Thibault Camus/POOL/AFP via Getty Images)

Non è la vecchiaia, però, a segnare questa fase della traiettoria sportiva di Sagan, bensì l’emergere di avversari più giovani o semplicemente più freschi e famelici. In questo caso il rinnovamento ha la barbetta rossa di Sam Bennett. Il velocista irlandese è di soli nove mesi più giovane di Sagan, ma ha raggiunto solo ora l’apice di una carriera svoltasi con ritmi opposti a quelli dello slovacco. Se Sagan debuttava vincendo tra i grandi a soli 20 anni, Bennett ha dovuto attendere il 2017 per fare il suo debutto nel World Tour, la serie A del ciclismo, dopo una lunga gavetta nelle formazioni minori.

Nato in Belgio, dove il padre giocava a calcio nell’Eendracht Wervik, ma cresciuto nel sud dell’Irlanda, Bennett ha esordito al Tour nel 2016 aggiudicandosi la non troppo ambita Lanterne Rouge, il simbolo con cui è contraddistinto l’ultimo della classifica generale. La sua dedizione alla bicicletta, che in gioventù gli aveva fruttato l’altrettanto poco ambito soprannome di Mister Unsociable, lo ha portato però a scalare tutte le gerarchie nel mondo ultra-competitivo delle volate, fino ad abbandonare il ruolo di sprinter di rincalzo nella Bora di Peter Sagan per approdare quest’anno alla squadra più forte del mondo, la Deceuninck – Quick-Step. Il trionfo nella decima tappa gli ha permesso di entrare nel club dei 100 corridori capaci di vincere in tutte e tre le grandi corse a tappe e di sfilare la maglia verde proprio al suo ex-capitano, due primati celebrati con un pianto a dirotto che ha commosso tutti gli spettatori. L’opinionista nederlandese Thijs Zonneveld lo ha lodato con un editoriale dedicato al “ciclismo dei piagnucoloni”, erigendolo a simbolo dell’umanità in questo sport.

Proprio il giorno successivo Peter Sagan, protagonista di una scorrettezza in volata, si è visto declassato e penalizzato di parecchi punti. Un verdetto che sembrava chiudere già a metà corsa la lotta per la maglia verde, e invece l’ha riaperta. Il Sagan senza maglia è divenuto infatti il capitano di una donchisciottesca brigata vendicativa: la sua Bora ha menato le danze di tutte le tappe di pianura, cercando di spingere l’avversario all’errore o alla capitolazione. Missione fallita, evidentemente, ma solo il fatto che ci abbiano provato ha reso la lotta per la classifica a punti la più avvincente di questo Tour de France. E forse questa si può considerare anche una vittoria di Sagan. (Filippo Cauz)

Ineos, una squadra che cambia

Fatta eccezione per il 2014 di Nibali, era dal 2012 che la squadra britannica più di recente nota come Ineos Grenadier vinceva il Tour. Più di una volta mettendo pure più di un suo corridore sul podio finale: così, per sovrapprezzo, per rendere ancora più manifesto il suo domino. La Ineos aveva vinto adattando ai suoi scopi teste e gambe di ogni tipo: dal britannico arrivato dal ciclismo su pista, fino al colombiano arrivato dalla mountain bike; da Bradley Wiggins a Egan Bernal, passando per il normale talento di Geraint Thomas e l’assurda eccezionalità di Chris Froome. La storia di un mirino puntato verso un unico obiettivo, di esasperati guadagni marginali, di finanziamenti senza pari e di notevoli competenze ad altrettanto notevoli talenti.

In quest’anno sbilenco e spiazzante, la Ineos è arrivata al Tour con tanti dubbi e poche certezze, e ha provato a risolverli all’ultimo puntando tutto su Bernal, senza troppe deferenze verso Thomas e Froome. Tutto questo mentre cresceva la Jumbo, una nuova corazzata, piena zeppa di luogotenenti, che già prima di Natale aveva scelto i suoi corridori per il Tour (cambiando poi in effetti davvero poco, per cause di forza maggiore). Dopo che Bernal è saltato (nella 15ª tappa) e dopo che si è proprio ritirato (prima della 17ª), la Ineos si è trovata per la prima volta in anni a correre un Tour senza una maglia gialla a cui puntare o, cosa ancora più comune, da difendere. Ci hanno pensato Richard Carapaz, chiamato all’ultimo per questo Tour (tra l’altro il suo primo), e Micha³ Kwiatkowski, come sempre presente per fare quel suo solito prezioso e prelibato lavoro assimilabile a quello del trequartista arretrato in mediana, a sacrificare dribbling e assist perché c’è da fare recuperi e contrasti; per la squadra.

Michal Kwiatkowski, a destra, celebra la vittoria della 18esima tappa insieme al compagno di squadra della Ineos, Richard Carapaz (Stephane Mahe/POOL/AFP via Getty Images)

Nati a più di diecimila chilometri e quasi tre anni esatti di distanza, prima di questo Tour Carapaz e Kwiatkowski avevano corso insieme in gruppo, ma mai insieme in squadra. Quest’anno uno aveva fatto il Lombardia, l’altro la Sanremo; uno la Vuelta a Burgos, l’altro la Volta a la Comunitat Valenciana. Prima di Nizza non si erano mai trovati insieme nello stesso albergo, allo stesso tavolo di colazione, sullo stesso pullman. E quando serviva fare qualcosa che non contemplasse le parole ‘maglia’ e ‘gialla’, si sono presi quella sfiancante libertà ciclistica che è la fuga. Ed è così che nella diciottesima tappa lo strano corso della corsa li ha portati insieme, davanti e da soli – sensuali e addirittura erotici – diffondere tonnellate di affetto: per loro e incidentalmente anche per quella loro squadra che era stata così routinariamente dominante per anni e poi improvvisamente fragile.

Non conta nemmeno poi tanto come ci siano trovati, lì davanti per quell’arrivo. E non conta nemmeno tanto com’è finita, perché se è vero che ha vinto Kwiatkowski, di certo Carapaz non ha perso. E la Ineos ha fatto vedere che anche chi è così abituato a vincere può, talvolta, vincere diversamente; che non è come vincere, ma non è nemmeno perdere. (Gabriele Gargantini)

Hirschi, van Aert e gli attaccanti del domani

La prima volta che Wout van Aert venne ad incontrare i giornalisti in Italia, ospite di uno sponsor in un capannone della provincia brianzola per festeggiare la sua prima maglia iridata da professionista, fu un aspetto in particolare a colpirmi di lui: la forza e la fierezza del suo sguardo. Van Aert aveva soltanto 22 anni, era all’inizio della sua carriera, eppure sembrava già perfettamente consapevole del talento che si annidava tra i muscoli delle sue gambe e di quanto quella dote lo avrebbe portato in cima al mondo. Ci volle poco per averne conferma: conquistò altri due mondiali di fila nel ciclocross, prima di irrompere come un razzo nel World Tour, protagonista di tutte le corse più importanti sin dall’esordio.

La scorsa estate Van Aert debuttò al Tour de France aggiudicandosi una tappa ma finendo con una gamba squarciata da una transenna e la paura di non ritornare più ai banchetti che aveva appena cominciato a gustare. Paura condivisa da tutti gli appassionati, meno dal protagonista di questa storia, che forte di quella fierezza innata si è ripresentato lo scorso agosto dominando ogni classica per poi ritrovarsi unanimemente applaudito come il corridore migliore di questa Grande Boucle. Un filotto di prestazioni che è figlio di una condizione atletica ampiamente superiore a quella di tutto il resto del gruppo. Dall’alto dei suoi 70 chili di peso, Wout van Aert versione 2020 non si è “limitato” a vincere due tappe, ma si è preso persino il lusso di tirare il gruppo per buona parte delle salite del Tour, qualcosa di totalmente inedito per un corridore del suo genere e della sua stazza. Un risultato raggiunto grazie ad una base muscolare talmente spumeggiante che ha permesso al suo talento di spingersi in terreni inesplorati. Questo Tour de France ha mostrato un van Aert nuovo nel fisico e nei risultati; soltanto lo sguardo è rimasto sempre lo stesso: deciso e fiero. Se fossi un suo avversario sarebbe quello ad incutermi il maggior timore.

Wout van Aert e Primoz Roglic durante la 17esima tappa del Tour, da Grenoble a Méribel (Marco Bertorello/AFP via Getty Images)

Uno sguardo simile potrebbe celarsi da oggi anche dietro gli occhiali dei corridori della Sunweb, la squadra più giovane, casinista e divertente del Tour. Alla vigilia della Grande Boucle, chiunque avesse ipotizzato tre vittorie di tappa per i bianconeri sarebbe stato preso quantomeno per un inguaribile ottimista. La formazione tedesca (ma con base nei Paesi Bassi) ha travolto la Francia come non capitava da tempo. Sempre all’attacco, con uno spirito di coesione invidiabile, i Sunweb hanno dato lezione di “ciclismo totale” concretizzatosi nei successi di Soren Kragh Andersen (due volte) e di Marc Hirschi. Quest’ultimo in particolare, premiato anche con il Numero Rosso di Supercombattivo, esce come l’uomo immagine di un ciclismo nuovo, che coniuga completezza, potenza e gioia.

Svizzero, 22 anni, già campione del mondo su pista tra gli juniores e su strada tra gli under23, Hirschi ha disputato ogni tappa del Tour come se fosse l’ultima, lanciandosi all’attacco con avversari ben più blasonati, sprintando, cadendo e vincendo in fuga solitaria. Racconta il corridore svizzero che il suo rendimento odierno è frutto di un cambio di approccio mentale. In gioventù puntava sempre alla perfezione, seguiva ogni dettaglio in maniera maniacale, fino a trovarsi esausto prima ancora di correre. Oggi ha rinunciato alle diete e alla vivisezione dei dati in favore della propria armonia. Il giornalista spagnolo Carlos Arribas durante il Tour ha scritto che «Hirschi corre come lo farebbe Mozart, con una grazia incredibile». Il bello è che firma anche gli stessi capolavori, di classe e di divertimento. E l’impressione è che lo farà a lungo. (Filippo Cauz)