La storia tra Vettel e la Ferrari è finita davvero male

Sei anni fa sembrava un incontro perfetto, ma poi il pilota tedesco non ha saputo reggere l'enorme pressione su di lui.

Nell’infinità di parole indispensabili che ci ha lasciato Alberto Arbasino, c’è quella sua perfetta, infallibile tripartizione dell’esistenza: bella promessa, solito stronzo, venerato maestro. Qualsiasi essere umano dotato di talento e degno di nota vive il momento magico in cui passa da promessa a stronzo, consapevole che l’ascensione a maestro tocca ai pazienti che hanno la forza di attendere e ai fortunati ai quali la sorte concede di sopravvivere all’attesa. Arbasino parlava di sé, della sua vita e del suo mondo e così spiegava a noi la nostra vita e il nostro mondo, dimostrando che l’egocentrismo è un difetto solo per noialtri mediocri.

Nella mia vita di appassionato di sport, per capire a che punto fosse la carriera di questo o quell’atleta non ho mai avuto bisogno di una classificazione diversa da quella di Arbasino: tutte le carriere di tutti gli sportivi di tutte le epoche possono essere divise in promessa, stronzo e maestro. Negli anni, però, ho anche scoperto che, mentre le tre classi sono sempre valide, la loro successione spesso non lo è: ovviamente tutti partono da bella promessa, ma capita che il momento magico trasformi il promettente in maestro saltando la fase dello stronzo, e capita anche che il maestro poi regredisca in stronzo e lì resti a tempo indeterminato, incastrato, impantanato. Un esempio? Mourinho è diventato venerabile maestro a 41 anni vincendo la Champions League con il Porto, ha tenuto la cattedra fino ai 50 festeggiati con il triplete interista, ora ne ha 60 ed è un decennio che ormai è il solito stronzo. Un altro? Tiger Woods: a 21 anni, un anno dopo essere diventato professionista, era già numero 1 del ranking, vincitore di tre PGA Tour e un Masters, a 32 solito (e grande) stronzo costretto a prendersi una pausa dal golf per via di scappatelle, infortuni, arresti per guida in stato di ebbrezza. Ancora? Novak Djoković: se avete seguito gli Us Open, sapete perché Nole merita la citazione. L’ultimo? Mike Tyson: a 20 vince il primo titolo dei pesi massimi (più giovane nella storia della boxe professionistica), il più indiscusso dei campioni nella seconda metà degli anni ’80, nel ’92, a 26 anni, condannato a sei anni di carcere per stupro, esce di galera, torna sul ring, rivince titoli, li riperde, nel ’97 mangia l’orecchio a Holyfield.

A questa lista ho recentemente aggiunto un altro nome: Sebastian Vettel. Cinque anni di Ferrari hanno trasformato il più giovane campione del mondo della storia della Formula 1 nel solito stronzo del paddock. Solito e povero (in senso figurato, si capisce), ci sarebbe da aggiungere: a sentire il pilota tedesco, la notizia che a Maranello si era deciso di non rinnovargli il contratto gli è arrivata con un stringata telefonata di Mattia Binotto. «Non ne abbiamo mai discusso, non c’è mai stata un’offerta sul tavolo», ha raccontato Vettel, persino lui vittima di quella freddezza della comunicazione aziendale nell’epoca della perfetta reperibilità. Pochi giorni dopo questa telefonata del team manager al fu primo pilota, la Scuderia dà la notizia ufficiale: grazie di tutto e in bocca al lupo per il futuro, facci sapere come ti trovi con la Aston Martin, Seb.

Nessuna discussione e nessuna offerta significa che (probabilmente) non erano vere le voci che dicevano che il problema tra Vettel e Ferrari fosse lo stipendio, che il litigio tra le parti fosse nato dalla differenza tra quello che il pilota pretendeva e quello che la Scuderia concedeva. Dopo aver messo la firma sui dieci milioni all’anno per cinque anni a Leclerc, si poteva immaginare che il piano industriale di Maranello prevedesse un taglio degli altri costi: nessun team può permettersi due primi piloti, trattati come tali, pagati a quella maniera. Ma nessuno si poteva immaginare che Binotto e i suoi non si sarebbero nemmeno seduti al tavolo della trattativa con Vettel, nonostante si dicesse di Carlos Sainz in pre-allerta già dalla fine dello scorso anno, pronto da un pezzo a diventare il cavallino rampante n°2 (e, in effetti, ufficializzato appena due giorni dopo i saluti a Vettel). Vero è che nel più capitalista degli sport va da sé che la competizione sia la più spietata: nella scorsa stagione Leclerc è stato migliore di Vettel in tutto, è stato più veloce, ha fatto più punti, è partito in pole position per sette volte e ha vinto due Gran Premi (uno a Monza, che conta un po’ più degli altri).

Vero è anche, però, che la carriera del monegasco è tutta qui, quella del tedesco è lunga tredici anni, dentro ci sono quattro mondiali consecutivi, 53 vittorie, 57 pole position, 120 piazzamenti sul podio, 3002 punti (di più ne ha raccolti solo Hamilton). E anche in un quinquennio ferrarista che alla fine è stato molto meno di quello che ci sarebbe aspettato, Vettel ha regalato alla Ferrari dei momenti memorabili: quel primo dito verso il cielo in Malesia nel 2015, la vittoria all’Hungaroring nel 2017, il duello con Bottas nel GP del Bahrain e la vittoria nonostante il torcicollo a Silverstone nel 2018, il trionfo di strategia e fortuna nella gara di Singapore dello scorso anno. Per due stagioni, 2017 e 2018, Vettel ha riportato la Ferrari a lottare per il titolo, un traguardo in sé e per sé quando gli avversari sono Lewis Hamilton e la Mercedes. Forse anche solo questi ricordi valevano la pena di una cena, un pranzo, un caffè, una discussione, un’offerta.

Dalla sua prima stagione in Ferrari, nel 2015, Vettel ha messo insieme 14 vittorie sulle 53 totali in carriera (Dan Istitene/Getty Images)

Capita che cose che dovrebbero andar bene poi vadano male e finiscano peggio. Tutti i successi si somigliano tra loro, ogni insuccesso è tale a modo suo: è impossibile capire esattamente perché, quando, come smette di funzionare. Nel 2015 Vettel era la cosa migliore che potesse capitare alla Ferrari: un tedesco alla Rossa è come un olandese al Milan, una storia nuova ogni volta ma che riparte sempre dallo stesso leggendario prologo impresso nella memoria collettiva. Vettel in cima al podio con l’indice puntato al cielo, Vettel ossessionato da Schumacher e dalla Ferrari sin dall’infanzia, Vettel che aveva provato a comprare la F2004, la sua macchina preferita, la monoposto del settimo mondiale di Schumi, ma era stato costretto a rinunciare perché i soldi non bastavano. Vettel con quel suo sorriso educato, diverso da quello altezzoso di Rosberg, da quello proletario di Ricciardo, dal broncio perenne di Hamilton, dalla freddezza professionale di Alonso, dal grugno indecifrabile di Räikkönen. Vettel sembrava quello giusto per riportare la Ferrari in cima alla montagna della F1 dopo un anno sciagurato come il 2014 (zero-vittorie-zero per la Rossa).

«Non abbiamo vinto il titolo. Da questo punto di vista, si può dire che ho fallito e che abbiamo fallito. […] In certi anni, per metà della stagione sembrava ci fossimo vicini. Poi siamo stati battuti piuttosto nettamente da Lewis e dalla Mercedes. Non siamo stati veloci abbastanza». In uno dei pochissimi sport in cui un parametro vale più di tutti gli altri, forse la spiegazione di un insuccesso può essere semplice così: tu non sei stato veloce abbastanza o un altro lo è stato più di te (in fondo, è quasi la stessa cosa). Certo è che Vettel è parso sorprendentemente incapace di reggere la pressione che viene dall’essere il primo pilota Ferrari in questi anni. Forse si poteva intuire un frammento del carattere e un pezzetto del futuro in quel ragazzo che nel 2013 si diceva “ferito” dai fischi ricevuti dai tifosi. Non se ne capacitava perché non capiva cosa avesse fatto per meritarseli: «È molto difficile accettare i fischi quando non hai fatto niente di male», diceva. Gli veniva difficile in anni in cui vinceva 13 gare su 19 (le ultime 9 consecutivamente), in cui la competizione interna non esisteva e poteva permettersi di ignorare un ordine di scuderia che gli vietava il sorpasso su Webber, in cui era talmente dominante che il suo indice al cielo era diventato (per tifosi e piloti avversari) un’esultanza più snervante del “siuuuuu” di Cristiano Ronaldo. Forse non è un caso che l’ultimo a vincere un mondiale per la Ferrari sia stato Kimi “Iceman” Raikkonen, un uomo indifferente agli stimoli esterni, uno che quando il giornalista Martin Brundle gli chiese perché non era assieme a tutti gli altri piloti ad ascoltare il discorso che Pelè fece in omaggio a Schumacher prima del GP del Brasile (all’epoca, l’ultima gara in F1 del Kaiser), rispose «Stavo cagando».

(Questo aneddoto merita di essere raccontato fino alla fine: la controrisposta di Brundle fu «Allora avrai una macchina bella leggere in pista». Da questo scambio in poi, la leggenda vuole che Brundle faccia di tutto per evitare di incontrare Raikkonen nel paddock)

Nell’edizione 2020 del Mondiale di Formula Uno, Vettel ha messo insieme 19 punti in nove gare; la sua peggiore stagione in Ferrari è quella del 2016, quando mise insieme 212 punti (che gli valsero il quarto posto in classifica generale) senza vincere nemmeno una gara (Charles Coates/Getty Images)

Ce lo vedete Raikkonen a preoccuparsi dei fischi, della concorrenza di Leclerc, degli errori in pista, del contratto e dello stipendio? Forse è questo l’unico tipo umano che può star seduto comodo in una monoposto rossa in questo momento, e forse è questo atteggiamento a rendere Räikkönen più simile a Schumacher di quanto Vettel non lo sarà mai: pur mancandogli il gusto per la battuta salace di Iceman, Schumi non era un gran oratore, non aveva passione per le cerimonie, non era interessato al contesto neanche lui. Forse è questo che ha impedito a Vettel di realizzare il suo sogno d’infanzia, vincere un mondiale con la Ferrari: un eccesso di autocoscienza, un mal di vivere causato dai dettagli, un’erosione delle certezze ogni volta che non riusciva ad aggiungere un’altra bandiera a Maranello. Forse nello sport l’unico modo per non diventare il solito stronzo è essere uno stronzo vero.

Se c’è una cosa che la pandemia ci ha fatto capire è quanto tediosa sia la nostra vita interiore una volta privata degli stimoli esterni. In lockdown, persino le persone più interessanti e gli ambienti più stimolanti diventano ammorbanti. La Ferrari che non rinnova il contratto al suo primo pilota perché «la pandemia ha cambiato il mondo, non solo i motorsport e la F1», come un qualsiasi hotel con un lavoratore stagionale? Vettel che ci racconta come in questi mesi abbia finalmente avuto il tempo di pensare a cosa conta e cosa no nella vita, manco di mestiere tenesse una rubrica su un quotidiano italiano? Aveva ragione Foster Wallace quando l’autobiografia di Tracy Austin lo indignò a tal punto da spingerlo a scrivere un saggio sull’incapacità degli sportivi di raccontarsi. A questo punto, banalità per banalità, la storia di Vettel alla Ferrari sta in quella battuta di Rachel nella puntata di Friends con tutti i vestiti da sposa: «Va bene così. Certe volte le cose non vanno come ti aspettavi».