Dove può arrivare il Milan di Pioli e Ibrahimovic?

E soprattutto: gli altri giocatori di talento della squadra rossonera sarebbero così efficaci anche senza il totem svedese?

Il Milan arriva al posticipo del lunedì contro la Roma ed è certo di mantenere il primo posto in classifica. Anche in caso di sconfitta. È un fatto molto significativo, anche se la stagione è solo all’inizio: questa posizione, raggiunta meritatamente dai rossoneri, certifica il grande lavoro fatto fin qui da Pioli, ed è la miglior conferma possibile delle sensazioni positive degli ultimi mesi. Ancor di più se si inserisce nell’equazione la vittoria in Europa League, in trasferta sul campo del Celtic: il successo in Scozia è un’ulteriore prova sul fatto che i rossoneri abbiano valori tecnici, lunghezza di rotazioni e una condizione che permette loro di competere su più fronti, mantenendo sempre alto il livello delle prestazioni. Il successo a Glasgow è stato il 21esimo risultato utile consecutivo: 17 vittorie e soli quattro pareggi, con 54 gol fatti e 19 subiti. In questa stagione il Milan ha vinto otto partite su otto – inserendo nell’elenco anche la sfida contro il Rio Ave che in realtà è terminata ai rigori – con 19 gol realizzati e solo sei subiti.

Dunque, il Milan straordinario visto la scorsa estate, non era solo frutto del caso, delle condizioni particolari o di uno stato di forma particolarmente brillante: è una squadra che esiste ancora oggi, e il cui momento di grazia va oltre i numeri. Il suo sistema tattico non è particolarmente sofisticato, ma è diretto, verticale, si esalta nelle transizioni offensive e può diventare pericolosissimo in campo aperto. Anche nella costruzione dal basso cerca la strada più veloce per raggiungere la trequarti, attraverso le catene laterali e i duelli uno contro uno, i movimenti di Calhanoglu tra le linee o, ancora più semplicemente, lo scarico diretto su Ibrahimovic, che ha capacità uniche di domatore del pallone, mentre lotta contro il centrale avversario, poi sa scambiare con i compagni e creare vantaggi a diverse altezze del campo.

Lo stesso approccio si applica alle fasi difensive, in cui il Milan è spesso aggressivo sul possesso avversario. Lo si vede soprattutto dall’atteggiamento dei due centrocampisti davanti alla difesa: Kessie e Bennacer (ma anche Tonali) si esprimono al meglio se possono pressare in avanti, infatti sono atleti capaci di coprire ampie porzioni del terreno di gioco e che accettano i duelli individuali a metà campo; soprattutto, sanno dirottare il palleggio avversario sulle fasce, laddove è più facile recuperare il pallone. L’atteggiamento aggressivo fin qui sta pagando molto: un solo gol subito in campionato nelle prime quattro partite. Ma soprattutto sta aiutando a rivalutare proprio alcuni elementi chiave: Kessié, ad esempio, sembra un giocatore completamente diverso rispetto a pochi mesi fa. L’ex centrocampista dell’Atalanta adesso ha meno responsabilità in fase di impostazione, non deve saltare linee di pressione a partire dal suo schema di passaggi; anzi, crea vantaggio proprio quando deve recuperare palla,  cioè quando può selezionare le zone e i momenti in cui alzare la pressione. E quando il Milan attacca in verticale, ha libertà per muoversi in avanti e seguire l’azione: non a caso, arriva a giocare oltre tre palloni nell’area avversaria ogni 90 minuti – su una media per ruolo di 1,3.

Guardando oltre Kessié, la valorizzazione dei giocatori chiave è uno dei migliori risultati ottenuti da Pioli, che in dodici mesi ha fatto esplodere definitivamente anche Theo Hernández. Il terzino arrivato dal Real Madrid è stato uno dei migliori interpreti offensivi nel suo ruolo nella scorsa stagione (sette gol e cinque assist tra tutte le competizioni), e quest’anno sembra seguire lo stesso percorso (il contatore segna già un gol e due assist). Con l’esterno alto dal suo lato è bravo ad alternare sovrapposizioni lungolinea a tagli centrali, e grazie a un catalizzatore come Ibrahimovic – che può creare spazio e servire il suo inserimento in ogni momento – il suo atletismo diventa un vantaggio tattico per il solo fatto di schiacciare sull’acceleratore e partire, con o senza palla. Anche Bennacer ha dimostrato di possedere le doti e la personalità per imporsi in questo contesto: le sue caratteristiche differiscono in alcuni punti rispetto a quelle della maggioranza dei giocatori del Milan – il centrocampista algerino è un giocatore più ragionante, meno istintivo; questo però non vuol dire che sia statico: semplicemente, muove il corpo e il pallone in maniera meno frenetica, gestisce il possesso ed entra sull’avversario un attimo dopo, il tempo necessario per pensare e attuare la miglior soluzione – ma anche per questo lo hanno reso un ingranaggio insostituibile del sistema.

È evidente come Pioli abbia saputo mettere tutti i giocatori chiave della sua rosa nelle condizioni giuste per esprimersi al meglio. In questo modo li ha valorizzati, ha tirato fuori una quantità di talento che non ci aspettavamo potessero avere, potessero mostrare. Allo stesso tempo, però, il tecnico rossonero non ha costruito una formazione-tipo, un undici insostituibile, piuttosto ha provato a investire su tutti gli elementi a disposizione, soprattutto nella batteria di trequartisti che si alternano alle spalle di Ibrahimovic. In quel reparto  le rotazioni sono piuttosto lunghe: i giocatori che compongono il terzetto poggiano sul talento del centravanti svedese, infatti il denominatore comune dei vari Brahim Díaz, Rafael Leão, Saelemakers, Castillejo, Rebic, Krunic e dello stesso Calhanoglu è la capacità di muoversi senza palla attaccando la profondità, prendendo campo in ampiezza per tagliare verso la porta; poi le differenti qualità tecniche offrono soluzioni diversificate da sfruttare in base alla partita, alle debolezze dell’avversario, al momento della stagione. Non a caso, ben dieci giocatori rossoneri sono andati a segno nelle otto partite disputate in questa prima parte di stagione.

Con quattro gol segnati e tre assist serviti, Hakan Calhanoglu è il giocatore del Milan con il miglior rendimento in cifre di questa stagione, ovviamente dopo Zlatan Ibrahimovic (Emilio Andreoli/Getty Images)

Il promettente inizio di campionato ha dato continuità e credibilità ai risultati della scorsa estate, e stabilire quale sia l’obiettivo massimo per questo Milan è un esercizio ancora difficile. Ma mai come quest’anno c’è la sensazione che i rossoneri siano pronti per chiudere il campionato nelle prime quattro posizioni e tornare in Champions League. Si tratta di un’ambizione legittima, forse addirittura doverosa, per quanto costruito nel corso del 2020. Inoltre, al di là della vittoria sul campo del Celtic, sembra esserci margine pure per fare strada in Europa League: la qualificazione nel girone è ampiamente alla portata, così come il percorso successivo. Che, al netto delle squadre che retrocederanno dalla Champions League, non dovrebbe proporre sfide proibitive almeno fino agli ottavi, o anche ai quarti di finale.

La rosa lunga e le rotazioni di Pioli saranno di aiuto. Solo un giocatore non ha alternative: Zlatan Ibrahimovic. E non potrebbe essere diversamente: a 39 anni, Ibra è ancora un attaccante che crea gli spazi per gli inserimenti dei compagni con la sua sola presenza, è ancora capace di segnare con medie da capocannoniere; a tutto questo aggiunge una visione di gioco da trequartista e uno strapotere fisico che ovviamente non può più essere continuo sui novanta minuti, ma che si rivede spesso in alcuni gesti meravigliosi durante la partita. Ibrahimovic fa il sistema del Milan, da solo. Anzi, si può dire che Ibrahimovic è il sistema del Milan.

Inoltre, da quando è tornato a Milano, Ibrahimovic sembra muovere i fili della tensione emotiva del gruppo. «Il suo impatto va oltre i gol segnati, ha galvanizzato il Milan: le grandi aspettative e la furia competitiva di Zlatan hanno contribuito a elevare un gruppo di talento che in precedenza sembrava troppo instabile per competere ai massimi livelli. Attira le luci della ribalta, ma chiedi ai suoi compagni di squadra come si comporta in allenamento e ti diranno che è tutt’altro che ossessionato da se stesso», ha scritto Nicky Bandini sul Guardian, in un articolo in cui raccontava come lo svedese in poco tempo sia diventato il centro di gravità permanente della squadra rossonera, in campo e fuori. È una situazione che a questo punto dovremmo considerare inevitabile, considerando che è andata così in ogni singola tappa della sua carriera, nel bene e nel male.

Hauge e Rafael Leão sono due dei dieci giocatori che sono andati a segno in gare ufficiali del Milan nella stagione 2020/21, tra Serie A ed Europa League; gli altri sono Ibrahimovic, Calhanoglu, Brahim Díaz, Kessié, Theo Hernández, Saelemaekers, Krunic e Colombo (Mark Runnacles/Getty Images)

Quando è tornato al Milan a gennaio scorso, Ibrahimovic aveva trovato una squadra in enorme difficoltà, decima in classifica, priva di identità, incapace di segnare (media gol registrata sullo zero virgola) e di uscire dalle sue difficoltà. In poche settimane è cambiato tutto. Oggi è un Milan rinnovato, nei numeri, nei risultati, nelle sensazioni che restituisce allo spettatore somiglia tanto a una squadra che andrà dove lo porterà Ibrahimovic. Lo ha capito e accettato anche la dirigenza: nel precampionato il club ha confermato Pioli dopo i grandi risultati dell’estate; in seguito a quella scelta è stato automatico – se non obbligatorio – puntare ancora su Ibrahimovic. Altrimenti sarebbe mancato un tassello, neanche troppo piccolo, di questo mosaico. E fintanto che lui è in condizione, in questa condizione, ha tutto per essere il vertice della piramide del Milan.

Diventa tutto più incerto solamente guardando oltre, guardando in prospettiva, a una squadra che presto o tardi dovrà separarsi da un giocatore che ha compiuto 39 anni e ha alle spalle uno storico di infortuni che comprende anche un legamento crociato. Quando in estate è stata scartata l’opzione Rangnick, come detto, il Milan ha deciso di credere in Pioli e nella bontà del suo lavoro, ma soprattutto ha accettato di centralizzare tutto il suo sistema attorno a Ibrahimovic. Una scelta che sta pagando, anche molto bene. La rinuncia nascosta dietro quella decisione è, per il momento, puramente teorica: il club ha rinunciato a capire quanto questo gruppo possa andare oltre lo svedese, se il talento mostrato da questa squadra possa esistere oltre questo momento, oltre una squadra e una stagione costruite intorno all’attaccante svedese.