Conosco Marco solo di vista, ci siamo incrociati qualche volta in un locale di via Baylle, una bottega minuscola con una cucina prodigiosa, sconsigliatissima a chi non ama le carni, uno di quei posti che se ti ci imbatti in viaggio, magari a Siviglia, o che so a Lipsia, ti viene da pensare a quanto bello sarebbe se ci fosse un posto così anche a casa. A Cagliari c’è, e con Marco ci incrociamo lì, di tanto in tanto, presentati una volta da qualche amico in comune, ma nulla più.Uruguaiano di Parigi, Marco ha l’aria del bravo ragazzo e la discrezione di chi sa stare in mezzo alla gente. Cittadino del mondo, da Parigi si sposta a Marsiglia e quindi in Sardegna nella primissima infanzia. Di quegli anni nell’isola ricorda soltanto il giardino di una casa al Margine Rosso e, ovviamente, il mare. Poi è venuta l’Argentina, e nuovamente Cagliari nell’adolescenza, per un’esperienza nel settore giovanile della squadra rossoblù, alla metà degli anni Zero.
Marco di cognome fa Francescoli e oggi, poco più che trentenne, ha scelto Cagliari per mettere radici. Suo padre è stato probabilmente il più grande calciatore uruguagio di tutti i tempi. In Sardegna ha lasciato tracce indelebili ed è a lui che bisogna tornare per capire che legame c’è, se davvero c’è, tra Cagliari e Uruguay.
Diego Godín è il ventunesimo uruguaiano nella storia del Cagliari, Naithan Nandez il valore aggiunto della squadra di Di Francesco. Prima di loro uno stuolo di combattenti, qualche campione, mezzi giocatori e pacchi totali. Su ventuno atleti, insomma, i nomi da ricordare sono una sparuta minoranza. E allora perché questa retorica? Perché ogni volta che il Cagliari pesca in Uruguay spuntano ovunque articoli zeppi di nostalgia? «Perché il tifoso del Cagliari è romantico», mi ricorda Marco, «ha molta memoria, non dimentica». E in effetti dimenticare è qualcosa che non si può. Parlando di Enzo Francescoli si sconfina nel letterario soltanto a ripercorrere le tappe del suo acquisto: la stella della nazionale uruguaiana che finisce in forze a una neopromossa, strappato all’Olympique Marsiglia che qualche anno più tardi vincerà la Champions League.
In mezzo ci sono altri due personaggi romanzeschi: il procuratore Paco Casal e l’allora presidente Tonino Orrù, architetto di una rinascita che seppe di miracolo, agli albori degli anni Novanta. Entrambi chiusi per 16 ore in un hotel a Milano, insieme ai dirigenti del club francese, sinché Enzo non rompe l’impasse: vuole l’Italia, vuole Cagliari. Con quella sua faccia tragica, a metà strada tra Flavio Bucci e Manlio Scopigno, il Principe arriva in Sardegna con i connazionali Herrera e Fonseca. Sfoggiano giacche bislacche e sorrisi smaglianti. Ma Enzo, sulle gambe un infortunio e le fatiche di Italia ’90, per i primi sei mesi fatica ad ambientarsi. Il Cagliari di Ranieri chiude il girone d’andata da ultimo in classifica. In quello di ritorno farà più punti della Sampdoria campione d’Italia, mandando in archivio una salvezza storica, con Francescoli che a poco a poco prende la squadra sulle spalle, giocando un calcio pieno di grazia, con una leggerezza che rende tutto facile, con un carisma da leader silenzioso.
Herrera invece ha l’aria un po’ mesta di un consigliere comunale d’opposizione, o di un bancario serioso al quale affideresti la pratica del mutuo. Ma in campo è un vero cane: per metterti a tuo agio prima ti prende a calci senza farsi accorgere dall’arbitro, dopo ti ruba il pallone, quindi si porta in avanti per finalizzare l’azione. Gioca terzino, mediano, mezzala. Qualità e quantità, un meraviglioso tuttocampista contemporaneo. Vestirà la maglia del Cagliari per 147 volte. Poi c’è Daniel Fonseca, amatissimo e dopo odiatissimo come capita a chi non passa inosservato (si veda questa questa canzone non priva di un certo rancore). Labbra carnose, incisivi in tutta evidenza, un mullet che non si esce vivi dagli anni Ottanta. Ma soprattutto scatto bruciante, rapidità d’esecuzione e un sinistro straordinariamente educato.
Erano gli ultimi anni di un vecchio mondo, un mondo pre-globalizzato, una Cagliari in cui in via Baylle era meglio non metterci piede dopo il tramonto. «Mi hanno chiamato spesso alcuni amici calciatori dall’Uruguay, per chiedermi consiglio quando c’era la possibilità di un trasferimento a Cagliari. Gli dicevo vai, è il posto giusto, per qualità della vita, cibo, clima. La gente ti apre le porte di casa, come da noi. Si può vivere il calcio con tranquillità». Così mi dice Marco, che ha lasciato il mondo del pallone dopo un’esperienza con l’Estudiantes de La Plata, in Argentina, nel 2010. «Il calcio ti insegna tanto ma è una vita che richiede molti sacrifici, soprattutto per quel che riguarda la normalità delle cose, la socialità, gli affetti. Lasciare quella strada non è mai semplice, rischi di affrontare la vita senza strumenti. Io ho avuto la fortuna di trovare in fretta il mio posto nel mondo».
Vive a Miami da qualche anno, gestisce con alcuni soci un’agenzia immobiliare. Continuerà a farlo ma da remoto: il richiamo di Cagliari lo ha riportato in Italia, dove sta pensando a un altro progetto. «Qui c’è la mia seconda famiglia, i Melis, che hanno accolto prima mio padre e poi me. Ogni anno passavo con loro il Ferragosto, e ogni anno mi rendevo conto che volevo rimandare il viaggio di ritorno. Così spostavo il biglietto di una, due, tre settimane. Alla fine mi sono reso conto che è qui che voglio stare». Un legame che resiste, di padre in figlio, trent’anni dopo, un legame che va oltre il calcio.
Molto altro ci sarebbe da dire sugli uruguaiani di Sardegna. Ci sarebbe da raccontare l’ammiraglio Nelson Abeijón, detto il Guerriero, che basta cercare qualche foto su Google per vedere la sua faccia da pugile deturpata da bendaggi e cerotti; ci sarebbe da parlare di Diego López, El Jefe, 314 partite in rossoblù, gran parte delle quali con la fascia di capitano al braccio. Ci vorrebbe poi un romanzo per spiegare al mondo Fabian O’Neill, che poteva essere il più grande di tutti (qui fa impazzire a colpi di tunnel un giovanissimo Gattuso) e rimane invece uno splendido rimpianto. «Adesso che sono a Cagliari anche papà vorrebbe tornare più spesso, è rimasto molto legato a questa città, alla sua gente. Ha dovuto rimandare un viaggio per colpa del Covid, speriamo che riesca a venire presto». Ma noi del resto siamo gente romantica: lo abbiamo già aspettato una volta, Enzo, sempre lo aspetteremo.