Gli inconciliabili

Il rapporto tormentato tra Conte ed Eriksen è solo l'ultimo caso di giocatori e allenatori che non riescono proprio a prendersi.

Quando Antonio Conte dice in conferenza stampa che «Eriksen ha giocato più di tanti altri» sa di dire qualcosa di non vero – e basta fare una ricerca su Transfermarkt per rendersene conto. Il punto, però, non è la risposta, piuttosto la domanda precedente sul “problema Eriksen”: qualcosa, cioè, che è tale solo per chi non sia Conte o Eriksen. Siamo talmente disabituati all’idea che un grande allenatore e un grande giocatore possano non trovarsi alla stessa pagina del libro che quella del “problema” ci sembra l’unica spiegazione possibile. È, invece, una questione di incompatibilità, anzi inconciliabilità: di esigenze, caratteri, visioni, emotività, dentro e fuori dal campo. Una questione, quindi, che prescinde dalla polarizzazione del dibattito su chi abbia le maggiori responsabilità di un rapporto – tecnico e umano – che non decolla.

In questo caso tutto sembra rientrare in quello che è Eriksen, in tutto quello che il centrocampista danese sembra non sembra poter essere: un profilo lontano da quello del giocatore contiano cui, pero, Conte ha dovuto dare comunque delle possibilità per via dello status e dell’investimento fatto, o forse anche solo per togliersi un dubbio che in realtà non ha mai avuto. In questi suoi mesi all’Inter, Eriksen è stato impiegato sia da trequartista dietro Lukaku e Lautaro che da mezzala di possesso nel 3-5-2: in entrambi i casi, il suo contributo nella doppia fase si è fatto progressivamente marginale, nonostante le premesse e qualche spezzone di gara ben giocato, momenti che sono stati espressione di una grande, incontestabile qualità individuale più che di una reale integrazione all’interno del sistema.

Anche qui non è, non può essere, tutto connesso alle rigide sovrastrutture dell’allenatore dell’Inter, agli equivoci tattici generati dalla presenza in campo del danese, ai quattro minuti finali contro il Real Madrid che suonano come una provocazione più per chi invoca l’utilizzo Eriksen che per lo stesso Eriksen: semplicemente, Conte e Eriksen non sono fatti per essere entrambi parte di questa Inter in questo momento. Succede, succederà ancora, è già successo. E più grandi sono gli inconciliabili più grande sembra essere il “problema” che in realtà problema non è.

Carlo Ancelotti – Thierry Henry

Nella partita contro la Lazio all’Olimpico, sbiadita polaroid di quello che poteva essere e non è stato di Thierry Henry alla Juventus, è possibile rinvenire il momento da Lost in Translation che ha caratterizzato il rapporto con Ancelotti. Henry, schierato ovviamente da esterno nel 4-4-2, ha appena segnato il primo gol in bianconero, un tiro non irresistibile dai 25 metri che entra più per demerito di Luca Marchegiani, portiere della Lazio, che per forza ed effetto impressi al pallone. L’esultanza è tipica del calciatore che si è appena tolto un grosso peso dalle spalle: il francese corre verso la sua panchina, indicando un non meglio identificato compagno di squadra prima di essere travolto dall’abbraccio di tutti. Poi, tornando a centrocampo, lui e Ancelotti si incrociano e si danno la mano. Un gesto di deferenza irrituale, persino comico se si pensa alla parabola delle rispettive carriere, ma che, in quel momento, è la rappresentazione di come l’unità degli opposti non sia sempre così scontata: da un lato c’è un tecnico meno integralista rispetto agli esordi ma comunque non ancora sufficientemente elastico da derogare dal suo sistema per qualcuno che non si chiami Zidane; dall’altro c’è un giocatore in cerca di un allenatore visionario, in grado, cioè, di andare oltre le sue caratteristiche fisiche e immaginare quel futuro da centravanti d’elite che Henry già sente di essere.

Lazio-Juventus 1-3

Carlo Ancelotti non è ancora un allenatore di questa pasta, per di più in un calcio italiano in cui ci si può permettere di ritenere inadeguato, o comunque non pronto, un giocatore che ha 21 anni, sì, ma è reduce da sette gol in nove presenze nella Champions League dell’anno precedente e ha giocate titolare in cinque delle sei gare disputate al Mondiale francese, vinto tra l’altro dalla sua Nazionale. Gli equivoci su ruolo e posizione in campo sono un dettaglio: semplicemente quell’Ancelotti e quell’Henry, ciascuno alla ricerca del proprio posto nel mondo, non sono compatibili per esigenze e concezione del gioco. Nel 2014, ricordando su Repubblica quando a Parma si oppose all’acquisto di Roberto Baggio, Ancelotti avrebbe chiarito come fosse stata una questione di tempo, anzi di tempismo, sbagliato: «Ero giovane e non avevo il coraggio di addentrarmi in una cosa che non conoscevo a sufficienza». Proprio come con Henry.

Marcello Lippi – Roberto Baggio

È il 23 maggio 2000 e lo spareggio tra Inter e Parma si è appena concluso. Roberto Baggio ha fatto in modo che la prima stagione interista di Marcello Lippi non si rivelasse un completo disastro: la sua doppietta vale l’accesso ai preliminari di Champions League e salva la panchina del tecnico che, in campionato, lo ha schierato titolare appena sei volte su un totale di 14 presenze. Al fischio finale il bordocampista della RAI, Marco Civoli, si avvicina al tecnico nerazzurro. Lippi, quasi intuendo dove si sarebbe andati a parare in un’eventuale intervista, lo liquida con «abbiamo fatto una grande partita». E basta. È ben più loquace, invece, Baggio: «Sono sempre stato un professionista serio e l’ho dimostrato anche quest’anno nonostante tutti i problemi che ho avuto, soprattutto con l’allenatore».

Due mini-interviste interessanti da rivivere, anche a distanza di oltre vent’anni

Si tratta della scena madre dello scontro tra due personalità dominanti di cui, però, si fa fatica a ricostruire un inizio e una cronologia. Tanto più che nell’unica altra stagione che Lippi e Baggio avevano condiviso dalla stessa parte il 1994/1995, nella Juventus che torna a vincere lo scudetto dopo nove anni l’istantanea più significativa era stata l’esultanza con cui il numero 10 aveva celebrato la rete di Dortmund contro il Borussia in Coppa UEFA: una corsa sfrenata verso la panchina per abbracciare proprio il suo allenatore. E anche la sua cessione era fondata più sulla scelta societaria di puntare su un Del Piero in rampa di lancio che su una presunta incompatibilità tra tecnico e giocatore.

Tuttavia il rapporto tra Baggio e gli allenatori – Capello, Ancelotti o Ulivieri cambia poco –  è sempre stato una questione di percezioni più che di fatti e atteggiamenti. Il punto non era Baggio in sé ma ciò che rappresentava e si portava dietro: un carico di pressioni e aspettative che da soluzione lo trasformava in problema prima ancora che mettesse piede in campo. Un problema che Lippi, alle prese con un contesto già disfunzionale di suo come l’Inter morattiana di fine anni Novanta, non poteva permettersi e che aveva deciso di risolvere relegando Baggio ai margini fin dal ritiro estivo. Una “strategia della tensione”, culminata in tutti quegli episodi spiacevoli che Baggio avrebbe raccontato nella sua autobiografia, e legata a doppio filo ai momenti in cui riesce ad essere comunque decisivo, anche a causa dei problemi fisici della coppia Vieri-Ronaldo e della discontinuità di Recoba: nella trasferta di Verona a fine gennaio, nello stesso stadio che lo vedrà protagonista assoluto quattro mesi dopo, Baggio entra dalla panchina e segna la rete della vittoria prima di rendere pubblico lo scontro con l’allenatore; a San Siro contro la Roma realizza uno dei gol più belli e iconici della sua carriera.

Il primo ottobre del 2000 Lippi si auto-esonera nella famosa conferenza stampa di Reggio Calabria dopo un inizio di stagione che ha visto l’Inter sconfitta dalla Lazio in Supercoppa Italiana ed eliminata dall’Helsinborg ai preliminari di Champions League conquistati grazie a Baggio. Che, dal canto suo, è già a Brescia da Carlo Mazzone, uno dei pochi a considerarlo soluzione e non problema.

Pep Guardiola – Zlatan Ibrahimovic

«Mi sembra di capire di non essere più così importante per questa squadra». Sarebbe questo, stando a quanto riportato da Sebastian Fest e Alex Juillard nel libro The Messi Mystery, il contenuto dell’sms che Messi avrebbe inviato a Guardiola nel momento in cui è diventato ufficiale l’arrivo al Barcellona di Zlatan Ibrahimovic. Un dettaglio che si inserisce nella narrazione che vuole Messi incapace di convivere con un partner d’attacco dalla centralità tecnica e tattica comparabile ma che, in realtà, spiega anche come i problemi tra il tecnico e l’attaccante svedese siano nati sul campo per poi sfociare fuori nelle schermaglie verbali che sarebbero proseguite anche dopo quell’unica stagione da separati in casa.

Il Barca 2009/2010, se ne facciamo una questione di singoli all’apice della propria carriera, è più forte di quello che aveva conquistato il triplete l’anno precedente: ma, di contro, si rivela da subito meno funzionale nel momento in cui Guardiola si rende conto di dover parzialmente snaturare il sistema di cui Messi è il terminale ideale, per non dire unico. In teoria prendere Ibra significava avere un’arma tattica a disposizione nei momenti di partita in cui il juego de posición si fosse dimostrato poco efficace ad affrontare le lunghe fasi di difesa posizionale; in pratica ridimensionare un giocatore così totalizzante, trasformandolo da prima scelta a opzione, genera una serie cortocircuiti tecnici, tattici ed emotivi che emergeranno in tutta la loro evidenza nella semifinale di ritorno di Champions League contro l’Inter.

Ibrahimovic ha giocato un solo anno a Barcellona: ha vinto la Liga, il Mondiale per Club, due Supercoppe di Spagna e una Supercoppa Europea, e ha messo insieme 22 gol in 46 gare ufficiali di tutte le competizioni (Denis Doyle/Getty Images)

Non è una questione di giocare male (o meno bene) singolarmente e di squadra, ma di piccoli dettagli che, come granelli di sabbia, si insinuano negli ingranaggi di un meccanismo perfetto fino a danneggiarlo. Anche a livello relazionale: «Nella seconda parte di stagione, l’allenatore ha cominciato a non parlarmi più: c’era qualcosa di me che lo infastidiva» dirà Ibrahimovic a Espn nel 2018. Confermando come sia difficile interagire con Guardiola nel momento in cui è costretto a compromessi e forzature che riguardano il suo calcio.

Massimiliano Allegri – Andrea Pirlo

Il pregio più grande e riconosciuto – tanto da trasformarsi, talvolta, in difetto – di Massimiliano Allegri è quello di sapersi adattare al materiale tecnico e umano a disposizione. Una qualità che il tecnico livornese ha affinato nel corso degli anni e che ha la sua rappresentazione ideale nell’evoluzione del suo rapporto con Andrea Pirlo. L’Allegri che, nella stagione 2010/2011, vince lo scudetto con il Milan al primo tentativo, al primo anno alla guida di una grande squadra dopo l’apprendistato con Sassuolo e Cagliari, è un allenatore ancora poco incline al compromesso: nel suo 4-3-1-2 l’uomo davanti alla difesa è Van Bommel (o Ambrosini), e il trequartista è Boateng. A farne le spese sono in due: Ronaldinho, che a gennaio viene spedito al Flamengo; e, appunto Pirlo, che, anche a causa di qualche problema fisico di troppo, viene schierato appena 25 volte in stagione, e per lo più decentrato sulla sinistra, nel ruolo di mezzala. Il problema, tuttavia, non riguarda tanto la posizione in campo quanto la percezione dell’importanza in una squadra di alto livello: per Allegri e la dirigenza rossonera, Pirlo è un elemento di cui si può fare tranquillamente a meno.

Nonostante cose così

Le discussioni sul ruolo e la (presunta) nuova politica societaria di offrire rinnovi annuali a chi ha più di 30 anni sono solo il pretesto per giustificare l’addio da un giocatore che, nell’immaginario collettivo, è ancora un top ma che, alla prova del campo, si è dimostrato non più così fondamentale come nelle stagioni precedenti. Il passaggio alla Juventus e i successivi due anni passati con Conte, da leader tecnico di una squadra che avrebbe fatto la storia, spodestando proprio il Milan di Allegri e avviando un ciclo vincente ancora aperto, smentiscono clamorosamente l’assunto. E quando proprio Allegri viene chiamato a sostituire Conte fa l’unica cosa che un allenatore intelligente – o furbo, a seconda dei casi – possa fare: lascia Pirlo nella posizione in cui sembrava non vederlo più, e gli costruisce attorno il collettivo che va ad un passo dal vincere tutto. Perché solo gli stupidi non cambiano mai idea.

José Mourinho – Kevin De Bruyne

Il 18 agosto 2013 il Chelsea di José Mourinho debutta in Premier League vincendo 2-0 in casa contro l’Hull City. L’assist per il primo gol di Oscar – un tocco di sinistro in verticale a premiare l’inserimento del numero 11 dal lato debole – è di un giovanissimo Kevin De Bruyne, rientrato alla base dopo una stagione in prestito al Wolfsburg da 10 gol e 10 assist. Otto partite e 358 minuti dopo, quell’assist, insieme agli «zero gol e dieci palloni recuperati», rientrerà nell’elenco che il tecnico portoghese farà a De Bruyne in un incontro al termine del quale il belga chiederà la cessione dopo essersi sentito dire che «se Mata va via, allora diventerai la quinta scelta invece che la sesta».

Kevin De Bruyne è stato di proprietà del Chelsea da gennaio 2012 a gennaio 2014, però ha militato nei Blues solo per i primi mesi della stagione 2013/2014: in totale, nove presenze e zero gol in tutte le competizioni, prima di essere ceduto al Wolfsburg (Richard Heathcote/Getty Images)

Qualche anno dopo, Mourinho avrebbe detto che il problema di De Bruyne era il non saper gestire la pressione legata all’idea di doversi conquistare il posto. In realtà, la chiave di lettura di quella bocciatura repentina e senza appello l’avrebbe data John Terry: «Mourinho è stato criticato per non aver creduto in De Bruyne e Salah, ma io lo capisco: se arrivavi ed eri inferiore del 10% o del 20% rispetto agli standard di Duff e Robben, che segnavano ciascuno 20 gol a stagione, non potevi fare parte della prima squadra. Kevin e Mohamed si sono poi dimostrati due campioni, ma all’epoca non erano adatti al Chelsea».

L’aspetto tecnico, quello tattico, oppure quello relativo alla giovane età o alla relativa esperienza ad alti livelli, passano in secondo piano: nel corso della sua carriera, per poter esprimere il suo calcio, Mourinho ha avuto bisogno di giocatori già formati più che da formare, o comunque in linea con un’idea di gioco pragmatica e immediata, non certo futuribile. Il fatto che De Bruyne non sia stato percepito come pronto ad assimilare determinati concetti, che non fosse in grado di garantire un impatto immediato nel Chelsea, non è altro che la naturale conseguenza della visione di un tecnico proiettato al qui e ora della vittoria a tutti i costi, non importa come, non importa con chi. Un tecnico che, quindi, non aspetta nessuno. E che ha potuto permettersi di lasciare indietro anche il giocatore che diventerà il miglior assistman dell’era moderna.