Mario Balotelli in Serie B è una sconfitta collettiva, non solo per lui

Nonostante un talento che sembrava potergli garantire ogni traguardo, a 30 anni appena compiuti Balotelli è sceso per la prima volta in cadetteria. Ma i media e il mondo del calcio avrebbero potuto fare qualcosa di più?
di Davide Coppo 18 Dicembre 2020 alle 04:49

Nell’anno in cui tutta l’Italia calcistica – o forse tutto il mondo – parla della straordinaria longevità di Zlatan Ibrahimovic – a quasi 40 anni, in testa alla Serie A con il Milan, e alla classifica marcatori del campionato – la notizia della firma di Mario Balotelli con il Monza, club di Serie B attualmente all’ottavo posto, mi ha fatto ripensare al rapporto tra i due, Ibrahimovic e Balotelli. Parlo di un rapporto che esiste principalmente nei miei ricordi, ma che potrebbe suonare non estraneo anche ad altri tifosi milanisti o appassionati di Ibrahimovic, o di Balotelli: Balotelli firmò con il Milan nella stagione 2012/13, sostituendo al centro dell’attacco di Massimiliano Allegri Zlatan Ibrahimovic.

Nel giro di 13 partite segnò 12 gol, dando un contributo fondamentale alla qualificazione del Milan in Champions League. Anche l’anno successivo giocò discretamente e segnò moltissimo (18 gol totali), nonostante le fondamenta di quella che era stata una delle squadre italiane più forti di tutti i tempi (il Milan ancelottiano) stessero crollando definitivamente. Guardare Balotelli, in campo, non era molto diverso dal guardare Ibra: la forza fisica sovrumana, la capacità di difendere la posizione e una certa tecnica squisita nei tocchi di palla li rendevano, ai miei occhi, piuttosto simili. Per questo mi fa un’enorme tristezza, con il massimo rispetto per il Monza e la Serie B, vedere Mario a soli 30 anni parcheggiato in cadetteria.

Da diversi anni, ovvero da quando è stato chiaro che l’avventura con il Nizza non avrebbe portato a nuovi grandi palcoscenici, né a un nuovo posto stabile in Nazionale, mi sono chiesto cosa abbiamo sbagliato con Mario Balotelli. Qualcosa l’abbiamo sbagliato tutti, è evidente – oltre agli errori del Balotelli calciatore. E penso che l’avventura – a tratti straordinaria, ma soprattutto sfortunata – di Mario mostri quanto il calcio sia un mondo estremamente diviso, ancora, soltanto tra i concetti di colpa e di dovere: il dovere di essere un professionista esemplare, e la colpa di aver fallito la missione. Dopo la colpa, c’è soltanto la condanna: quella dei compagni o ex compagni, ma soprattutto quella dell’opinione pubblica o dei media, per cui Balotelli è sempre stato colpevole di aver scialacquato un talento raro.

Un talento che poteva – nel sottotesto – essere patrimonio comune: dell’Italia, intesa come Nazionale, ma anche del calcio, di ogni appassionato, perché una cosa fuori dall’ordinario, e bella da godere come era Mario in certe occasioni, è una ricchezza per tutti. Eppure, per una contraddizione che mi sembra evidente, non si è mai fatto un passo avanti – non di certo media e tifosi, e probabilmente nemmeno il mondo delle squadre e degli addetti ai lavori – per capire perché Balotelli abbia preso costantemente fuoristrada autodistruttivi.

Qualche anno fa, parlando con Brian Phillips (autore di Le civette impossibili, Adelphi, 2020) in un’intervista per Rivista Studio, mi disse: «Abbiamo un accesso “intimo” agli atleti che non si è mai verificato prima, e il risultato di questa vicinanza è che siamo sempre più tentati di trattarli come fossero personaggi di un romanzo». Balotelli è stato quindi trasformato in un archetipo romanzesco, nell’antagonista di una storia in cui però l’avversario – il protagonista – non era il pubblico, o il mondo del calcio, ma lui stesso. Si parla molto delle cose che mancano al calcio, ultimamente: un’adeguata lotta al razzismo, soprattutto in Italia, e un po’ di coraggio e onestà nei confronti dell’omosessualità. Se possibile, la salute mentale – che pure ha a che fare con entrambi i problemi – è ancora più in fondo alla fila. Sarebbe bello se un giorno si rileggessero molte storie, e non solo quella di Mario, con una maggiore consapevolezza in questo senso.

Da Undici numero 36
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