Si può inventare ancora qualcosa, nel calcio?

L'evoluzione tattica sembra arrivata a un punto di saturazione, ma la realtà è che il gioco non finirà mai di cambiare. Quali sono le tendenze che potrebbero influenzarlo nei prossimi anni?

La raffinazione progressiva delle tattiche calcistiche ha un obiettivo simile a tutte le altre ricerche per gli avanzamenti umani e tecnologici: controllare fenomeni che in realtà sono molto aleatori, profondamente condizionati dagli episodi – come una gara tra due squadre composte da undici uomini, e tutti sono alle prese con un solo pallone. Ovviamente si tratta di un obiettivo irrealizzabile, e forse non è un caso che sia stato proprio uno dei più grandi narratori calcistici del Ventesimo secolo, Eduardo Galeano, a definire nella maniera più giusta, e pure più suggestiva, il concetto di utopia: «Seguire un’utopia è come voler arrivare all’orizzonte: cammini due passi, e si allontana di due passi; cammini di dieci passi, e si allontana di dieci passi. Se l’orizzonte è dunque irraggiungibile, allora a cosa serve seguire un’utopia? Serve per continuare a camminare». Ecco, la storia evolutiva della tattica ha avuto e continua ad avere un andamento simile: il calcio resta uno sport non pienamente controllabile, ma nel corso del tempo gli allenatori hanno teorizzato e attuato dei sistemi che lo hanno fatto progredire, rendendolo più evoluto, più governabile in molti aspetti. L’obiettivo è ancora lontano, e resterà lontano per sempre, ma nel frattempo abbiamo camminato tantissimo. E lo stiamo ancora facendo.

Il calcio che vediamo e viviamo oggi è il frutto di questo lungo percorso, è la somma di tutte le scoperte, di tutte le invenzioni del passato: ogni allenatore degli anni Duemilaventi, in base alle proprie idee, alla propria formazione, agli uomini che ha a disposizione, può richiedere alla sua squadra di insistere sul possesso palla intensivo, oppure può scegliere di lasciare il pallone agli avversari, di rimanere a difendersi con linee basse e compatte per ridurre il rischio di subire gol, oppure ancora può alzare il baricentro, può aggredire in maniera asfissiante gli avversari, con movimenti sincronizzati in base alla posizione del pallone. Come detto, tutte queste cose esistono da un po’, sono state già viste, già rifinite, già ibridate tra loro. Al punto che viene quasi da chiedersi: si può ancora inventare qualcosa, nel calcio? È una domanda retorica, e quindi non possiamo avere una risposta certa, definitiva – come per tutte le domande retoriche, del resto. Ma possiamo provare a riformularla, per renderla reale. E allora: quali sono le grandi novità tattiche del calcio contemporaneo? Esiste qualche concetto relativamente recente che, nei prossimi anni, diventerà tendenza e finirà per cambiare ancora, per l’ennesima volta, questo sport?

In un articolo autografo apparso su The Coaches’ Voice, Ralf Rangnick ha scritto che «la cosa più emozionante, per me, è vedere come si è sviluppato il gioco di transizione. Succedono così tante cose negli otto-dieci secondi dopo che il possesso palla è stato perso, o riguadagnato, che penso si possano individuare le transizioni come i momenti in cui si decidono le partite, oggi». Non è difficile condividere questa opinione: preparare e gestire delle buone transizioni – ovvero i momenti in cui una squadra passa dalla fase offensiva a quella difensiva, e viceversa – è fondamentale per creare un sistema equilibrato ed efficace. Anche perché si tratta di un lavoro su più livelli, anzi su tutti i livelli: da tempo, ormai, tantissimi allenatori adottano moduli dinamici e spaziature estremamente fluide, per cui non è raro veder giocare squadre che si schierano con una difesa a quattro in fase passiva e poi un attimo dopo costruiscono il gioco con tre difensori centrali, grazie allo scivolamento dei terzini e/o dei centrocampisti – e questo discorso vale anche per tutti gli altri reparti. Poi, al di là della tattica collettiva, della disposizione in campo, ogni calciatore può essere portato a pressare in maniera più o meno intensa i suoi avversari, e allora la transizione negativa può essere molto aggressiva o spiccatamente conservativa. Allo stesso modo, un allenatore che ha Neymar e Mbappé deve cercare di sfruttare le loro caratteristiche, e allora è doveroso che organizzi le transizioni positive in maniera diversa, più immediata, rispetto a un tecnico che può schierare Messi e Griezmann, oppure Benzema e Hazard, o ancora Lukaku e Lautaro Martínez.

Le caratteristiche fisiche dei calciatori moderni – sempre più veloci, più resistenti, anche quelli che possiedono misure fisiche imponenti – hanno portato all’affermazione di una tendenza chiara: gli allenatori dell’era contemporanea aspirano ad ottenere la massima aggressività in tutte le fasi di gioco, vogliono difendersi in un campo piccolo, recuperare il pallone velocemente e poi ripartire in un campo lungo – perché lasciato sguarnito dagli avversari – con attacchi in transizione molto verticali, molto diretti. Tre delle quattro squadre che hanno raggiunto la semifinale dell’ultima Champions League – Bayern, Psg e Lipsia – avevano e hanno un approccio di questo tipo, fondato su una fase difensiva intensa, su meccanismi di pressione feroci, sul controllo del gioco che si manifesta come un dominio degli spazi e dei tempi di reazione, oltre che tecnico e mentale. In virtù di tutto questo, il passo successivo del percorso evolutivo potrebbe essere la radicalizzazione ancora più estrema del pressing collettivo, magari attraverso l’ideazione di nuovi meccanismi che scattano in momenti diversi della partita, in zone differenti del campo. Per esempio, aggredendo i portatori di palla al centro invece che “chiuderli” sulle fasce, oppure cercando di sporcare di più il possesso intervenendo sulle linee di passaggio piuttosto che attendere la ricezione del pallone prima di far scattare la pressione coordinata.

La trasformazione di Flick che ha portato il Bayern Monaco in cima all’Europa

Anche l’Atalanta, una delle squadre europee col gioco più peculiare e riconoscibile, ha lo stesso obiettivo tattico, ma lo persegue attuando un’altra strategia: ricercare i duelli uno contro uno a tutto campo, creare una rete di marcature a uomo che esasperano il pressing in senso individuale più che collettivo. È un approccio ancora più rischioso, perché spesso porta a rinunciare a distanze corte in fase difensiva pur di mantenere alta l’intensità delle marcature; spesso i difensori dell’Atalanta si sganciano in avanti per seguire il proprio avversario diretto, creando scompensi posizionali che devono essere coperti dai compagni – e infatti il sistema di Gasperini è molto dispendioso sul piano fisico, e per sostenerlo i giocatori devono essere sempre in grande condizione, atletica ma anche psicologica. Il grande percorso della squadra bergamasca in Champions League ha mostrato che questo modello aggiornato, post-contemporaneo, di marcatura a uomo potrebbe essere efficace anche ai massimi livelli, e non a caso sono già spuntati i primi allenatori emulatori, a cominciare da Ivan Juric, tecnico del Verona, in attesa che si manifesti una squadra totalmente ispirata all’Atalanta anche sul palcoscenico europeo.

Qualche momento difensivo dell’Atalanta, tratto dalla gara di Champions League vinta in casa dell’Ajax: aggressività perenne, marcature a uomo, scalate combinate, per cercare di recuperare il pallone prima possibile.

Queste tattiche sono tutte derivazioni del Gegenpressing teorizzato in Germania, un sistema di concetti difensivi iper-aggressivi portati al successo proprio da Ralf Rangnick e poi da Jürgen Klopp, Joachim Löw e dalle ultime due generazioni di giocatori e tecnici tedeschi, per cui il pressing trascende e diventa la prima fonte di gioco, anzi la regia di una squadra. Non è un’esagerazione: oggi la ricerca della riconquista immediata del pallone e delle ripartenze veloci in transizione determina in maniera volontaria, strategica, sistemica, la nascita delle azioni offensive – un compito che fino a qualche anno fa era assegnato ai centrocampisti, ai trequartisti, ai difensori, ai giocatori che dettavano i tempi, a quelli più creativi, più abili nello smistamento del pallone. Secondo Jonathan Wilson, uno dei giornalisti calcistici più influenti al mondo, si tratta di una tattica vincente perché è «perfetta per il nostro tempo iper-capitalistico, è dinamica, elettrizzante e percussiva, insomma è tagliata su misura per offrire l’intrattenimento costante richiesto dal pubblico televisivo del calcio moderno». Oltre a quest’aspetto meta-culturale, il fascino di questo sistema è dovuto anche ai trionfi che ha generato: non solo quelli di Klopp al Dortmund e poi al Liverpool, o quelli della Nazionale tedesca, ma anche quelli colti da Guardiola durante la sua esperienza al Bayern Monaco, quando il contesto iper-cinetico della Bundesliga e le caratteristiche dei suoi attaccanti costrinsero il tecnico catalano a trovare un modo per bilanciare l’esigenza di attuare una pressione alta, tipica del gioco di posizione, e la necessità di attaccare velocemente in verticale senza rinunciare a una fase di possesso sofisticata. Insomma, per ibridare le due grandi tendenze tattiche del terzo millennio.

Proprio quest’ultimo aspetto, il tentativo di bilanciare il possesso palla ricercato e l’urgenza/volontà di attaccare in ripartenza, potrebbe rappresentare la grande ambizione degli allenatori del presente e dell’immediato futuro. I migliori attaccanti della prossima generazione – due nomi su tutti: Mbappé e Haaland – hanno grande esplosività, quindi si esprimono al meglio quando possono essere lanciati in campo aperto, ma dovranno affrontare anche delle difese più chiuse, più speculative, e allora sarà necessario saper organizzare un attacco posizionale efficace, creativo, in grado trasformare lunghe fasi di possesso in azioni pericolose. In questo senso, non è un caso che il Liverpool di Klopp sia diventato una grande squadra quando ha imparato a gestire il pallone in maniera meno frenetica, ad alternare la ricerca della verticalità con un possesso più ragionato e sapiente – e lo stesso discorso vale anche per il Bayern Monaco di Flick.

Non solo gegenpressing e azioni in verticale, per il Liverpool

Anche scendendo di livello, però, molte squadre stanno studiando soluzioni sempre più innovative e complesse per poter costruire occasioni da gol contro avversari molto coperti. In Serie A, per esempio, il Sassuolo di De Zerbi utilizza tantissimo lo strumento del cambio di gioco sulla trequarti per poter sfruttare gli scompensi creati dalla sua stessa costruzione bassa; diverse squadre in giro per l’Europa stanno spingendo i loro difensori centrali a sovrapporsi internamente per poter avere un uomo in più in fase di costruzione, e liberare i centrocampisti per gli inserimenti in area di rigore.

La tendenza più visibile, però, è quella dell’utilizzo dei quinti di centrocampo come vere e proprie armi di finalizzazione. Anche in questo caso l’Atalanta e Gasperini hanno fatto scuola, ma ora forse il caso più significativo  è quello del Lipsia di Nagelsmann, in cui, non a caso, il giocatore più prolifico è lo spagnolo Angeliño Tasende – laterale sinistro a tutta fascia, autore di otto gol nella prima parte di stagione. Esattamente come avvenuto al Liverpool, il club di proprietà della Red Bull è diventato più continuo nel rendimento quando ha aumentato la qualità e la quantità del proprio possesso palla (ora il dato relativo alla Bundesliga supera il 56% per match, in Champions tocca quota 51%), ma, proprio in virtù di questo cambiamento, e dell’addio di Timo Werner, Nagelsmann ha dovuto mettere a punto delle alternative per rendere più vario ed efficace il gioco posizionale. Con Angeliño che attacca costantemente lo spazio alle spalle del laterale difensivo avversario, il Lipsia aumenta la presenza in area di rigore e può contare su una soluzione veloce per concludere azioni che si sviluppano in un’altra zona del campo, insomma la squadra tedesca riesce a essere immediata, a sorprendere l’avversario anche quando sembrerebbe non potere, ed è questa la vera rivoluzione.

Un terzino, un quinto di centrocampo, un attaccante (ma anche un buonissimo giocatore in senso assoluto)

I concetti fondamentali del calcio che verrà – gioco difensivo intenso e capacità di sostenerlo senza ricusare la ricercatezza e l’immediatezza in fase offensiva – sembrano essere ormai fissati, ma già ora stiamo assistendo alla nascita di nuove invenzioni, di perfezionamenti che, col tempo, diventeranno a loro volta tendenze da metabolizzare, e poi da superare. Del resto la storia tattica del calcio è fatta proprio di mosse e contromosse, di rivoluzioni e restaurazioni che si susseguono ciclicamente, e se oggi la velocità e l’aggressività e un certo tipo di verticalità sono dei concetti quasi irrinunciabili, non negoziabili, soprattutto ai massimi livelli, una nuova teoria potrebbe presto soppiantare tutto questo, e rimescolare ancora le carte. Magari sarà sempre più difficile immaginarla con largo anticipo, già ora il calcio è uno sport che pare aver raggiunto il punto di saturazione tattica, solo che l’evoluzione è un cammino per tappe che non ha scadenze, nel breve e nel lungo termine, pensare di essere arrivati in fondo è come credere di aver realizzato un’utopia, cioè è impossibile. Ed è proprio questo, il bello.