Perché gli spalti vuoti mutano la psicologia dei calciatori

Per i giovani potrebbero essere un vantaggio, ma i giocatori d'esperienza sentono che manca qualcosa.

Immaginate per un attimo di essere Cristiano Ronaldo, il 16 agosto 2003. Immaginate di avere il suo talento, la sua forza, la sua consapevolezza, anche la sua boria. Immaginate di aver compiuto diciotto anni da qualche mese, di essere arrivati da poche settimane al Manchester United per raccogliere l’eredità di David Beckham, di essere chiamati da Sir Alex Ferguson per sostituire Nicky Butt durante una partita contro il Bolton, e di esordire con la maglia di una delle squadre più prestigiose del mondo sul campo di Old Trafford. Di fronte a 67mila persone. Immaginate, ora, di entrare in campo accolti dall’ovazione di questo pubblico maestoso, meraviglioso, di giocare uno dei primi palloni e di saltare con un solo dribbling tre giocatori avversari; di penetrare in area da sinistra al termine di un’azione piena di doppi passi; di conquistare un calcio di rigore dopo aver bruciato uno, due, tre difensori in velocità. Immaginate queste emozioni che rimbombano fortissimo nelle vostre orecchie, perché mentre fate tutto questo c’è Old Trafford che ruggisce, che applaude, ci sono quasi 70mila persone che scattano in piedi tutti insieme e fanno “ooohhh” per le vostre giocate, e allora la vostra autostima – che è già discretamente alta, perché voi siete Cristiano Ronaldo – cresce ancor di più, finisce per esplodere. Così è inevitabile che e le sterzate e i colpi di tacco e i di tocchi di suola diventino più frequenti, più veloci, così è più facile diventare in pochi istanti l’attrazione della partita, della stagione, la stella del futuro per il Manchester United, per il calcio mondiale. È tutto qui, in un bellissimo video che vi aiuta a immaginare.

Ora, immaginate per un attimo di essere il nuovo Cristiano Ronaldo e di esordire oggi, nel calcio post-pandemia, in una partita del Manchester United. In una partita che magari è anche più prestigiosa di Manchester United-Bolton, ma che si gioca in un Old Trafford vuoto. Non potreste avere la stessa carica emotiva di Ronaldo il 16 agosto 2003. Come potrebbe, del resto, senza tifosi sugli spalti? È per via di questa assenza che Ronaldo e tanti altri giocatori hanno detto di sentirsi a disagio nel calcio privato – necessariamente, temporaneamente – del pubblico dal vivo. L’attaccante portoghese della Juventus ha parlato apertamente di noia, ha spiegato che «questo sport a porte chiuse è noioso. A me piace sentire i miei tifosi che mi sostengono, ma anche quelli avversari che mi contestano e mi fischiano: mi caricano, mi danno motivazione». Cristiano Ronaldo poteva pensarla solo così, in effetti. Solo che Ronaldo sta all’estremo di uno spettro. Uno spettro molto vario, e molto ampio.

Fin dalla ripartenza post-pandemia, tantissimi esperti – non solo professionisti che lavorano nel calcio, ma anche psicologi e sociologi non specializzati nello sport – si sono interrogati sull’impatto che l’assenza di pubblico ha avuto e avrà sulle partite, sugli atleti. È un discorso vastissimo, e non riguarda solo il semplice trend dei risultati – i dati raccolti dall’osservatorio calcistico Cies hanno mostrato come il rendimento delle grandi squadre non abbia risentito troppo degli stadi vuoti, a differenza di quelle più piccole – ma anche aspetti più individuali. Come giocano e cosa provano i calciatori senza l’interazione con il pubblico? Quali sono le loro nuove sensazioni rispetto al mestiere che fanno, un mestiere che è cambiato moltissimo pur rimanendo sostanzialmente identico?

Ecco, a queste domande è impossibile rispondere in maniera generalizzata, perché ogni persona fa storia a sé. Certo, anche qui si può intercettare qualche trend statistico: per esempio, le rilevazioni dopo il ritorno in campo della Bundesliga, il primo grande campionato a ripartire a porte chiuse dopo la prima ondata di contagi, hanno fatto registrare una diminuzione di tackle, simulazioni e proteste da parte di tutti i giocatori. Ma il punto è che anche questi parametri sono influenzati dalla componente tecnico-tattica, dall’andamento delle partite. La relazione dei calciatori coi tifosi sugli spalti, i loro sentimenti e le loro opinioni rispetto a questo rapporto, i loro comportamenti in un contesto così nuovo e inatteso, tutte queste cose sono decisamente più intime, sono legate alla sfera emotiva, e perciò vanno affrontate e trattate con attenzione, con un approccio non escludente, aperto anche ad altre visioni.

Damiano Tommasi, ex presidente dell’Assocalciatori ed ex centrocampista della Roma e della Nazionale, ha detto che «i giocatori del Milan sono stati avvantaggiati dal fatto di giocare senza pubblico, e questo ha diminuito le aspettative su di loro». Anche Christian Pulisic, intervistato da GQ, ha dichiarato che la sua crescita come calciatore «è andata più velocemente nelle gare a porte chiuse, perché le manifestazioni dei tifosi mi hanno sempre distratto, invece senza di loro gioco in maniera più rilassata e tranquilla». Questo è l’altro estremo dello spettro, e in qualche modo anche la scienza ha confermato che in certe parole potrebbe esserci un po’ di verità: uno studio condotto sulla MLB e NHL, ma espandibile anche agli altri sport, ha dimostrato che gli sportivi professionisti producono maggiori quantità di cortisolo – un ormone dello stress che è tra le cause delle scarse performance atletiche –  in occasione delle partite decisive giocate in casa, e quindi possono offrire prestazioni peggiori. Un’altra ricerca accademica più recente, condotta dall’Università di Salisburgo, ha rilevato come i calciatori siano risultati più calmi nelle gare post-pandemia a porte chiuse: gli “incidenti emotivi” – discussioni, litigi tra avversari e con i compagni, ma anche i battibecchi con gli arbitri e quelli a distanza con i tifosi – si sono ridotti di circa un quinto (19,5%); al contrario, sarebbero cresciuti gli episodi di auto-rimproveri da parte dei giocatori – è la concentrazione su se stessi di cui ha parlato Pulisic?

La Bundesliga è stato il primo campionato europeo, tra quelli che non sono stati sospesi definitivamente, a tornare in campo dopo la prima ondata di contagi: il 16 maggio del 2020 si sono giocate le prime gare dopo l’interruzione di inizio marzo (Martin Meissner/Pool via Getty Images)

Tutto questo discorso potrebbe ridursi in un solo semplice concetto: senza tifosi sugli spalti, c’è meno pressione sui giocatori. Solo che questa pressione ha un effetto differente in base all’indole e al vissuto di chi l’avverte, di chi deve gestirla. E per qualcuno questo effetto può anche essere positivo. Secondo diversi studi di psicologia dello sport, gli atleti che avvertono l’incitamento del pubblico – quello sonoro e quello visivo, per esempio i cori, le bandiere e gli striscioni sugli spalti, ma anche semplicemente il sorriso e l’esultanza dei tifosi – non solo possono sentirsi più motivati, ma riescono anche a offrire performance fisiche di livello superiore, dall’8% al 12%, perché questa sensazione di sostegno percepito fa avvertire meno la fatica. Non a caso Ben Mee, 31enne difensore e capitano del Burnley, club di Premier League, ha scritto sul Guardian che «senza pubblico è difficile sentire la scarica di adrenalina che serve prima di ogni partita, far trasparire la stessa voglia, la stessa urgenza di fare risultato. Inoltre il silenzio sugli spalti ci costringe a sentire tutte le urla del mister per 90 minuti: potete sentirlo voi in tv, figuratevi noi calciatori in campo».

È evidente come il tempo, inteso come esperienza acquisita, faccia la differenza. Non è un caso che Cristiano Ronaldo e Ben Mee siano nati negli anni Ottanta, mentre Christian Pulisic è un classe 2000. Per confermare questa sensazione, le parole più significative sono state pronunciate da Davide Calabria nel corso di un’intervista rilasciata a Dazn: il terzino destro del Milan, che in passato è stato spesso criticato per via della sua presunta incapacità di reggere il palcoscenico di San Siro, ha ammesso che «l’assenza di pubblico ci ha dato una mano: siamo una squadra dall’età media molto bassa, e ora in campo c’è più ordine, riusciamo a parlarci, comunichiamo meglio. Ma 80mila persone che ti sostengono possono darti una marcia in più, soprattutto quando vivi un momento positivo come quello che sta vivendo il Milan». Ecco, forse la chiave è tutta qui: non è esagerato pensare che i calciatori più giovani stiano beneficiando, almeno in parte, dell’assenza di pubblico. Vivono dentro una specie di bolla, un involucro protettivo che li sta aiutando a crescere. Sentono di avere maggiore libertà di esprimersi, anche di poter sbagliare; possono recepire meglio le indicazioni del proprio allenatore, le istruzioni dei compagni più anziani; devono dare una risposta ad aspettative e sollecitazioni molto inferiori rispetto al passato. Oggi, per loro, il calcio professionistico – anche quello ai massimi livelli – è un’estensione del loro percorso nel calcio giovanile, quando giocavano praticamente senza pubblico e il risultato contava in modo relativo, perché la cosa più importante era il progresso individuale.

Però poi l’arrivo della padronanza può cambiare le prospettive: forse oggi i giocatori del Milan – una squadra che è ancora giovane, ma che nel frattempo ha saputo diventare efficace, continua, bella da vedere – preferirebbero scendere in campo davanti agli 80mila di San Siro. Riceverebbero un incoraggiamento enorme, impagabile, di sicuro si sentirebbero ancora più carichi. Allo stesso modo, i calciatori con un profilo definito – quelli più forti, quelli che hanno già avvertito tante volte la pressione dei tifosi e hanno imparato a gestirla e a giovarsene, o che magari hanno sempre avuto la capacità di governarla – sentono che una parte fondamentale della loro vita, delle loro esperienze, è stata cancellata. Oggi mancano le sensazioni che hanno contribuito a formare i giovani del passato, magari l’hanno fatto in maniera più immediata, più selvaggia, quindi più traumatica. Ma anche più indimenticabile, come è successo a Cristiano Ronaldo di fronte ai 67mila spettatori di Old Trafford, il 16 agosto nel 2003: nel video si vede che Ronaldo ha continuato a giocare benissimo fino al fischio finale, poi è uscito dal campo salutando i suoi nuovi tifosi con la mano, mentre beveva da una borraccia azzurra col tappo giallo. Non è che sorridesse molto, in quel momento, ma sembrava davvero soddisfatto di com’era andata la sua prima partita con lo United. Di vedere che qualcuno stava rispondendo al suo saluto.