Perché costruire dal basso è una scelta intelligente?

Rischi e soprattutto vantaggi della strategia sempre più usata per risalire il campo, a partire dai portieri.

In uno dei primi capitoli del libro La Piramide Rovesciata, una lettura imprescindibile per tutti gli amanti della tattica calcistica, Jonathan Wilson scrive: «All’inizio c’era il caos, e il calcio era senza forma». Si può partire da qui per spiegare perché, negli ultimi anni, una fetta sempre più ampia e maggioritaria degli allenatori di tutto il mondo abbia deciso di adottare la costruzione dal basso come principio fondativo per il proprio modello di gioco.

Come qualsiasi altro tentativo di progresso umano, la tattica calcistica si pone un obiettivo visionario, per non dire irraggiungibile: trovare e/o inventare dei modelli reali, delle forme appunto, attraverso cui sia possibile governare un gioco che di per sé non è pienamente governabile. Con il tempo, per ogni tempo, alcune strategie – quelle che in un certo periodo storico risultano maggiormente evolute e sofisticate – si rivelano più efficaci perché questa aspirazione di controllo possa concretizzarsi almeno in parte, perché gli allenatori riescano ad autodeterminare l’esito di molte azioni in una stessa partita e quindi, alla lunga, i risultati di un intero campionato. Tra tutti gli approcci tattici, soprattutto a partire dagli anni Duemila, il più sicuro in questo senso è quello basato sul possesso palla.

Non è una scelta estetica, piuttosto un’evidenza statistica: secondo un report dell’osservatorio calcistico CIES sulle stagioni 2016/17 e 2017/18, le squadre che hanno vinto un campionato europeo (di prima e/o seconda divisione) hanno avuto una percentuale media di possesso palla superiore al 57%; dal 2010 a oggi, la quota minima media di passaggi per match nei cinque maggiori campionati europei (Inghilterra, Spagna, Germania, Italia e Francia) è cresciuta da 752 (Ligue 1 2009/10) fino a 863 (Liga 2018/19); la quota massima, invece, è passata da 784 (Serie A 2009/10) a 918 (Premier League 2018/19). Da qui, intuire il passo successivo è piuttosto semplice: preparare e allenare la costruzione dal basso vuol dire espandere il più possibile questa ricerca del possesso, quindi del controllo; vuol dire dominare il gioco fin dall’inizio di ogni azione, o quantomeno cercare di possedere – e sviluppare – gli strumenti per farlo.

Nelle ultime settimane, si è parlato tanto di un eccessivo – e quindi dannoso – ricorso alla costruzione dal basso da parte di molte squadre. Il pretesto per riaccendere la polemica è stato individuato nella successione di diversi errori grossolani commessi da portieri e difensori in fase di impostazione, errori che hanno spianato la strada del gol agli avversari di turno. In realtà il dibattito esiste da molti anni, ed è più acceso che mai da quando il Barcellona di Guardiola e la Spagna campione del mondo e bi-campione d’Europa, a cavallo degli anni Zero e Dieci, hanno esasperato questo approccio tattico, ma soprattutto ne hanno dimostrato l’efficacia ai massimi livelli, stimolando l’emulazione di tantissimi allenatori. C’è un problema, però: si tende a fare molta confusione tra costruzione dal basso e possesso di palla intensivo. Si tratta di due concetti che effettivamente convivevano nel calcio di stampo spagnolo, che spesso coincidono ancora oggi, ma che in realtà non viaggiano per forza insieme: la costruzione dal basso prevede infatti che difensori e portieri facciano partire e poi progredire l’azione in maniera non improvvisata, cioè attraverso meccanismi collettivi provati in allenamento. Questi meccanismi, a loro volta, si fondano sulle qualità tecniche dei singoli, e non contemplano solo gli appoggi sul breve, ma anche cambi di gioco “lunghi” e lanci profondi in verticale. Si può dire, dunque, che la costruzione dal basso sia un puro strumento d’attacco, che può esprimersi con stili e forme differenti.

Un esempio significativo, in questo senso, è quello della Lazio: Pepe Reina, il secondo portiere designato a inizio stagione, ha scalzato l’ex titolare – Thomas Strakosha – proprio in virtù della sua capacità di impostare il gioco con i piedi. Oggi la squadra Lazio è terza in Serie A per lanci lunghi completati (35,2 per match), ha una percentuale media di possesso palla non così elevata, del tutto simile a quella degli anni scorsi (51,2%), eppure ha affinato – partendo proprio dalle qualità di Reina – dei nuovi e funzionali dispositivi di uscita in costruzione bassa. Questi dispositivi permettono ai giocatori di Simone Inzaghi di risalire il campo velocemente, senza però ricorrere a una soluzione casuale, dall’esito inevitabilmente incerto, come per esempio un lancio molto lungo su cui centrocampisti e attaccanti devono duellare con i giocatori avversari. Insomma, per dirla in maniera semplice: con Reina, la Lazio ha trovato un portiere in grado di mettere costantemente il pallone sul piede dei terzini, sul petto di Luis Alberto, sulla testa di Milinkovic-Savic, oltreché di smistarlo con precisione verso i difensori centrali. E allora perché non sfruttare questa possibilità? Perché non utilizzare Reina come primo regista? Non è un caso, insomma che anche Simone Inzaghi – un allenatore elastico e non idealista, un tecnico che ama adattare il proprio sistema di gioco alla rosa che ha a disposizione, e che non ha mai manifestato l’ambizione di dominare le partite solo attraverso il possesso palla – abbia ritenuto giusto andare in questa direzione.

Alisson Becker è il primo portiere della Premier League per numero di passaggi corti per match: sono 21.3, con un errore ogni due partite (Laurence Griffiths/Getty Images)

I giudizi più critici rispetto a questa visione tattica sottolineano come Reina, Neuer o Ter Stegen siano portieri dalle doti rare, e lo stesso concetto è valido anche per i difensori: se non tutti i centrali e/o i terzini sono bravi a giocare il pallone come Dani Alves, Bonucci o Van Dijk, giusto per fare qualche esempio importante, perché insistere nel tentativo di emulazione? È una domanda sensata, che però si scontra con le evidenze statistiche. Una su tutte: nella Premier League 2019/20, i rinvii dal fondo battuti lunghi (oltre i 40 metri) hanno garantito una progressione media, sul campo, di 38 metri; quelli giocati con un primo passaggio più corto, invece, hanno guadagnato 49 metri in media. In questo modo, anche i possibili (e pure frequenti) errori che potrebbero portare a un gol avversario sono in qualche modo compensati, o meglio ammortizzati, dai vantaggi a lungo termine. E il range di 40 metri è abbastanza ampio, quindi non parliamo solo di scambi ravvicinati, ma anche di cambi di gioco e passaggi di media gittata, presupposto di un calcio verticale e che non esaspera il possesso palla.

Ripartire dal basso, pertanto, può essere una scelta funzionale per tutte le squadre, soprattutto a un certo livello. La tendenza a pensare che gli allenatori dello Spezia, dell’Eibar, del Fulham o dell’Union Berlin applichino questa teoria per ideologia cieca, oppure per moda, per copiare i manager delle grandi squadre, è sconfessata dai dati. Del resto un difensore o anche un portiere che arrivano a giocare nei principali campionati europei dell’era moderna possiederanno sicuramente le qualità per gestire il possesso palla anche nella propria trequarti, per servire bene un compagno distante cinque, dieci o anche venti-trenta metri. E allora è sacrosanto che gli allenatori tentino di utilizzare la strategia che, secondo loro ma anche secondo le rilevazioni statistiche, garantisce i maggiori vantaggi. E poi l”evoluzione tattica è un gioco di compromessi, di bilanciamento tra vantaggi e scompensi che vengono misurati, analizzati, pesati continuamente, e che finiscono per influenzare anche il regolamento: non è un caso che pochi mesi fa, alla vigilia della stagione 2019/20, l’International Board abbia decretato che la rimessa dal fondo si possa battere anche all’interno dell’area di rigore. È stato un modo per riconoscere che il calcio, oggi, si gioca in questo modo. E al tempo stesso è stato un ulteriore impulso per questo particolare concetto tattico.

L’unico discrimine che, in alcuni casi, può andare oltre i numeri e le tendenze oggettive, è la sensibilità calcistica. I giocatori possono manifestarla a breve termine, direttamente in campo, quando ci sono certe azioni in cui non conviene avventurarsi dentro articolate ragnatele di passaggi o lanci complessi, e allora è meglio spazzare via il pallone – ed è una cosa che succede molto più spesso di quanto sembri, anche in squadre che amano costruire dal basso. Gli allenatori, invece, possono farlo in maniera più estesa ed estensiva, in base alle proprie idee, al proprio vissuto, alle richieste dell’ambiente in cui lavorano, ma soprattutto alle caratteristiche dei giocatori che hanno a disposizione. Il caso più chiaro e significativo, in questo senso, è stato ed è quello descritto da Carlo Ancelotti: poche settimane dopo il suo arrivo all’Everton, ha detto che «quando inizi a lavorare in una nuova squadra, devi scegliere il gioco che si adatta meglio al suo contesto: a Milano, Madrid o Barcellona, per esempio, sai già che tipo di calciatori troverai, cosa piace al pubblico, cosa vuole la società. All’Everton c’è una tradizione diversa, poi ci sono gli uomini adatti per risalire il campo con delle palle lunghe, e anche i tifosi si esaltano con questo tipo di calcio. Quindi perché non provare a giocare in questo modo?». È tutto qui, è l’idea del calcio come ricerca di forma e funzionalità: nulla di tanto diverso rispetto a chi sceglie di costruire dal basso, se ci pensi.