È la metà di febbraio 2021, e significa che è passato un anno dall’ultima volta in cui sono andato allo stadio, dall’ultima volta in cui San Siro è stato pieno di pubblico, dall’ultima volta che una corsa di Theo Hernández ha fatto risuonare sessantamila voci tutte insieme in un brusio come di pioggia che inizia piano e si fa via via più intensa per diventare sulla linea di fondo un temporale di entusiasmo.
Ho guardato la partita di Champions League tra Barcellona e Paris Saint-Germain con la telecronaca in francese: il gol del 3-1 di Kylian Mbappé. Un destro a giro mostruosamente potente e preciso, un colpo arrogante e fuori dall’ordinario perché realizzato con una disarmante facilità dopo 80 minuti di gara intensissima, ha fatto urlare di gioia, incredulità ed esaltazione i telecronisti. Il peccato di questa partita in un Camp Nou vuoto, ha scritto qualcuno su Twitter, è che non c’è stata la possibilità di assistere a una sicura e commovente standing-ovation per Mbappé.
Quello che mi manca di più di non vedere la mia squadra allo stadio, tuttavia, non è legato per forza alle grandi folle e ai grandi eventi e ai momenti memorabili come la tripletta di Mbappé al Barcellona al Camp Nou (la seconda di un giocatore avversario nella storia della Champions League). È invece in quell’aggettivo possessivo: mia. La mia squadra. Il tifo, un certo tifo, un certo tipo di passione, non può prescindere da questo senso del possesso e di amore, appartenenza, fiducia e fedeltà. Non può prescindere dai rituali, che diventano tali se sono ripetuti, abitudinari, ben oliati e conosciuti.
Il calcio si sta evolvendo rapidamente, e non soltanto in campo. Anzi, a ben vedere il calcio in campo si evolve molto meno rapidamente del calcio nei media, nelle strategie di marketing, nella comunicazione dei giocatori e dei club. Oggi, i figli dei miei amici non tifano soltanto Milan, o Inter, o Napoli, ma anche Real Madrid, Barcellona e Manchester City, pur essendo nati a Milano, Napoli, Torino. È un’evoluzione, non una depravazione del tifo, ed è bello che esista. Per dirla in modo semplicistico e un po’ romantico, è bello che una bambina oppure un bambino di Albacete si appassioni a un attaccante belga di origini congolesi che gioca nell’Inter di Milano, o che un tifoso di Trapani sogni con il numero nove polacco di una squadra bavarese. È però vero che, antropologicamente, il calcio ha una dimensione locale e di comunità il cui valore non può essere sottostimato nemmeno nel 2021, e anche se non l’ho mai sottovalutato – gran parte di quello che sono lo sono diventato nelle curve, che ho frequentato per oltre dieci anni, dal liceo all’università, in casa e in trasferta, in Italia e in Europa – questi dodici mesi di stadi vuoti e mancanza di legame tra architettura, territorio e club l’ha rimarcato in modo drastico.
Non significa che una cosa escluda l’altra, ovvero che la globalizzazione della passione debba essere in contrasto con la consapevolezza dell’importanza del senso comunitario dell’esperienza di tifo. Essere un praticante musulmano ad Amman, dopotutto, è diverso che esserlo a Città del Messico, così come essere cristiani a Roma non è come esserlo a Kyoto: questo non indebolisce la forza di una fede rispetto a un altra, ma in qualche modo le rende differenti nella pratica della quotidianità.
Quello che più mi sta mancando, in questi mesi di stadi vuoti, non è dunque il catino strabordando delle grandi occasioni, le centomila persone in festa per la vittoria della competizione più prestigiosa, e lo dico a poche ore dal derby di Milano, un’occasione a cui si legano alcuni dei ricordi più belli che un tifoso di calcio possa avere (leggi: 11 maggio 2001, 13 maggio 2003). Quello che mi manca, a un anno dall’ultima partita a San Siro, è l’essenza di quell’ultima partita, che fu un Milan-Torino il cui risultato ho dovuto controllare su Google, noiosa nel campo, ma preziosa come tassello di esperienza. Quello che più mi manca dell’esperienza del calcio dal vivo non sono le emozioni tipo questione di vita o di morte, quanto piuttosto la semplice esistenza delle partite normali. La possibilità di scelta, in fondo, di non andare allo stadio, oppure di andarci, di annoiarsi un po’, di guardare la partita distrattamente, di pensare ad altro. Lo stadio come normalità, il calcio come esperienza personale.
In inglese si chiama Covid fatigue il tipo di stress tutto nuovo, nato e cresciuto in quest’anno di pandemia, che si alimenta di smart working, di mancanza di disconnessioni, della presenza costante di uno schermo o più schermi perennemente davanti agli occhi e impossibile da evadere, nemmeno grazie a una delle centinaia di nuove applicazioni per meditare, calmarsi, riflettere, tutte però da utilizzare sempre su altri schermi. È spersonalizzante, la vita vissuta soltanto sugli schermi: non importa come tu sia vestito, non importa la tua relazione con l’ambiente circostante, non importa il modo in cui occupi lo spazio fisico di quel momento. Nel mondo online-only della connessione permanente e dello smart-tutto la fisicità dell’individuo è annullata, gli stimoli fisici sono concentrati negli occhi, il luogo in cui ci si trova è indifferente. Se anche la distrazione suprema, il Beautiful game, diventa un’esperienza da fruire in modo esclusivamente passivo, lo sport, e non soltanto il calcio, perdono allora il loro stesso senso intrinseco, sia spirituale che ludico, trasformandosi in business vuoti e destinati, nel giro di poco, a crollare su se stessi.
Di Milan-Torino non ricordavo il risultato finale ma ricordo ancora il contorno, l’esperienza, la cornice, più importante dell’evento che racchiude. Ricordo la passeggiata a piedi, una giornata di febbraio umida ma non troppo fredda, dal centro verso San Siro, lungo corso Magenta, via Marghera, via Faruffini seguendo il tram 16. In via Faruffini, da adolescente, compravo spesso vestiti per lo stadio, roba inglese di importazione, adesso quel posto si è spostato in via Lanzone, davanti all’Università cattolica. Ricordi. Poi due birre bevute prima della partita, la ricerca del cancello giusto, i controlli sicurezza e lo sprint sulle scale interminabili fino al secondo anello arancio, il passaggio al secondo anello blu grazie a un’altra birra offerta allo steward che sorvegliava la porta, ne abbiamo riso tutti, pensavamo scherzasse e invece la birra la voleva davvero, poi i fumogeni, le bandiere, la partita guardata distrattamente e le chiacchiere su quel virus che era già arrivato in Europa e in Italia, un po’ di preoccupazione, tutto sommato non troppa. Ho guardato gli highlights, segnò Rebic, non ricordavo niente del gol, ma ricordavo l’uscita dallo stadio, i cori, il mio amico arrivato da Londra con cui avevamo deciso di andare allo stadio insieme dopo anni e anni di separazione che dice: «Questo è uno dei miei preferiti» appena sente le prime note del coro che dice Sosteniamo la squadra più forte che il mondo ha visto mai. È sempre stato anche uno dei miei preferiti. È un anno che non lo sento più.