Un anno fa il calcio si è fermato

Atalanta-Valencia è stata la partita zero, da lì in poi i tifosi hanno dovuto iniziare ad abbandonare gli stadi, e poi imparare a fare a meno del gioco.

Ci sono una serie di fotografie molto belle che ritraggono i tifosi atalantini a San Siro. I motivi per cui sono affascinanti sono due; il primo è oggettivo, si tratta di bellissimi scatti, molto suggestivi, anche perché l’evento rappresenta una novità assoluta: l’Atalanta si gioca per la prima volta nella sua storia il passaggio ai quarti di finale di Champions League, nel doppio confronto con il Valencia, e la casa per l’andata è la Scala del calcio, il Meazza di Milano, ritenuto più congruo per l’accoglienza di un numero adeguato di tifosi. Tutto ciò conferisce all’evento un’aggiunta di romanticismo ancor prima che la partita si disputi. Una massa enorme di tifosi si muove da Bergamo e provincia e da altre parti d’Italia verso Milano. L’altro motivo per cui quelle immagini, il colpo d’occhio sui sostenitori increduli e festanti, è tanto bello è perché non possiamo dimenticarle. Sono fotografie memorabili, perché si poggiano su una base che implica ripetitività – lo scatto di un fotografo bravo verso una gradinata colma di tifosi, le sciarpe sollevate, le bandiere – ma la ripetizione cessa da quella sera, nessuno lo sa ma quella sarà una delle ultime volte in cui vedremo uno stadio pieno. Qualcosa di terribile sta per piombarci addosso, ma non ne conosciamo gli effetti e capiremo poco ancora per le due o tre settimane successive.

Quell’incontro degli ottavi di finale è destinato a diventare, suo malgrado, il simbolo di qualcos’altro. Sappiamo che l’Atalanta disputa una partita grandiosa, vincendo per 4-1, con Ilicic in grande spolvero, con Hateboer che segnerà addirittura una doppietta. Sappiamo che per i tifosi dell’Atalanta e per Bergamo è una serata di festa, per molte ore ancora sapremo più o meno questo. Quella stessa sera mi trovo a Napoli per la presentazione di un mio libro. La libreria è piena, si preannuncia una bella serata, nessuno accenna al virus, sembra ancora qualcosa di remoto, un problema orientale, siamo tutti concentrati sulle emozioni cui ci porterà la nostra serata. Essendo la mia città ci sono molti amici, c’è mia madre, mia sorella. Prima che si cominci c’è modo di fare due chiacchiere, con Massimiliano Gallo, direttore de Il Napolista, ci diciamo due cose sul Napoli – ovviamente – commentiamo l’esonero di Ancelotti avvenuto un paio di mesi prima, ancora non ce lo spieghiamo. Gattuso non ci convince (anche questa è una cosa di cui al tempo non conosciamo gli effetti), scherziamo, lui mi sfotte sulla mia passione per Sarri e abbiamo modo di parlare un po’ della sorprendente Atalanta, che sta per giocarsi una partita importante. Il Napoli il 25 febbraio giocherà contro il Barcellona al San Paolo, una partita che temiamo, ma crediamo che la nostra squadra possa giocarsela, tutto sommato.

La presentazione va bene, saluto tutti un po’ commosso, il giorno dopo devo andare a Roma. Nessuno di noi sospetta che per molto tempo non ci vedremo più. Non guardo la partita dell’Atalanta ma, col senno di poi, mi sento come se l’avessi guardata. Come se avessi partecipato anche io a quei momenti di sport che poi non si sarebbero più ripetuti per molto tempo e che successivamente sarebbero ripresi con altre modalità, differenti attese, nuove regole d’ingaggio e di fruizione.

Ludogorets-Inter

Il 20 febbraio parto per Roma, mi raggiungerà Anna e resteremo fino a domenica, un paio di giorni di vacanza misti ad appuntamenti di poesia. Leggo un po’ di articoli sulla partita dell’Atalanta, guardo gli highlights sullo smartphone. Roma indossa abiti primaverili, controllo in maniera pigra il calendario del campionato per il prossimo weekend, gli anticipi e i posticipi, le solite cose. Il senno di poi applicato alle solite cose mette paura. Quella sera si disputa l’Europa League, di squadre italiane è di scena l’Inter in Bulgaria, contro il Lugodorets. Vincerà 2-0 con gol di Eriksen e di Lukaku. Mi accorgo di non avere mai guardato le immagini di quella partita fino a oggi. Lo stadio è pieno, anche quella sera non sappiamo niente, a parte che l’Inter metta la qualificazione agli ottavi in tasca. L’Inter vince, io bevo con gli amici a Roma, più tardi ceneremo in un ristorante dietro via della Conciliazione, pieno di preti ortodossi, ci diciamo di trovarci in un contenuto extra di Sorrentino. Alla stessa ora qualcuno si presenta al pronto soccorso dell’ospedale di Codogno, non sa di essere il primo paziente italiano di coronavirus. È una nota a margine per ora, come i tifosi in Bulgaria, come il gol di Eriksen (un bel sinistro dal limite), come due ragazzi che vogliono vendermi i biglietti per la partita che la Roma giocherà contro il Lecce domenica 23 febbraio. Tutto è marginale, ogni elemento è scollegato ma le cose stanno entrando in relazione, siamo connessi, entro poco tempo scopriremo davvero quanto.

Il 21 febbraio si disputa l’anticipo della 25esima giornata di Serie A, il Napoli gioca a Brescia. Il giorno dopo scoprirò che qualche tifoso del Brescia – ignaro come tutti – ha intonato qualcosa che abbinava i napoletani al coronavirus. Il coro insulto è una routine, aggiungere al coro un elemento di cui ancora non si sa nulla è solo eccesso di ottimismo. Eravamo tutti ottimisti, non solo i tifosi bresciani, non sapevamo niente, si stava accertando il primo caso di coronavirus, non sembrava grave. Il Napoli vince una partita complicata per 2-1, ma di buon auspicio per la partita da disputarsi contro il Barcellona. Buon auspicio si usa spesso commentando il calcio, aprendo un universo di senno di poi sconfinato. La sera del 21 partecipiamo a una cena che chiude una manifestazione culturale. Un centinaio di persone raggruppate in pochi tavoli. Accanto a me c’è seduto Andrea, è di Pavia, è un poeta e tifa Inter. Parliamo delle nostre squadre, azzardiamo pronostici sul resto della stagione. A fine cena ci salutiamo, il giorno dopo ripartiremo, promettiamo di rivederci presto, magari a Milano.

20 febbraio 2020: Christian Eriksen segna il suo primo gol con l’Inter durante la partita di Europa League contro il Ludogorets (Nikolay Doychinov/AFP via Getty Images)

La mattina dopo, leggendo i giornali capiamo meglio che il coronavirus, un fatto solo cinese fino a quel punto, è arrivato in Italia, ma sembra ancora una cosa circoscritta, distante, non così contagiosa. Ognuna delle persone che conosco fino al decreto che comunicava il primo lockdown ha creduto che non stesse succedendo per davvero. Continuiamo la nostra vacanza romana, è sabato di Carnevale, mi dicono che a Venezia, la nostra città, c’è un sacco di gente; nel pomeriggio si disputeranno gli anticipi. Sabato 22 febbraio si giocano tre partite. Bologna-Udinese (con pubblico sugli spalti), risultato 1-1, segnano Okaka e Palacio; Spal-Juventus 1-2 (a Ferrara lo stadio è strapieno, ed è normale, segnano Ronaldo, Ramsey e Petagna su rigore); Fiorentina-Milan 1-1 (l’Artemio Franchi è pieno), segnano Rebic e Pulgar su rigore. Vale la pena ricordare i marcatori di quelle partite, così come riguardare le sintesi, perché di quel poco prima non ricordo nulla. I due gol che segna la Juve, per esempio, sono molto sarriani, un dettaglio interessante, scappato via come tutte le altre cose. Vale la pena ricordare i tonnarelli cacio e pepe mangiati a Trastevere, in una trattoria pienissima, più o meno mentre Pulgar calciava il rigore. Vale la pena perché il terremoto si stava scatenando ma in silenzio. Un terremoto che non s’avverte (come scrive Angelo Carotenuto, nel suo splendido Le canaglie, Sellerio, riferendosi alla Lazio di Maestrelli). Un terremoto sottotraccia che avrebbe presentato il conto giorni dopo, intanto la Fiorentina l’aveva raddrizzata.

Il 23 febbraio, domenica mattina, ci prepariamo a tornare a Venezia, sappiamo delle cose in più. Codogno e Vo’ Euganeo andranno in isolamento, non capiamo bene cosa significhi questo isolamento, chiusura o altro. Leggo che si parla di partite a porte chiuse o di rinvii, per il momento le zone interessate sarebbero la Lombardia e il Veneto. Verso ora di pranzo andiamo a Termini a prendere il treno, lungo un binario incrociamo l’amico Michele Masneri che sta rientrando a Roma. Con la sua consueta ironia, Michele gioca e dice: «Che facciamo? Ci abbracciamo?», gli rispondo di sì, ci salutiamo. Delle partite previste dalla giornata di Serie A ne verranno rinviate quattro. Inter-Sampdoria; Torino-Parma; Atalanta-Sassuolo e Verona-Cagliari. Ricordo bene di essermi infastidito – e questo dà l’esatta misura di come non ci rendessimo conto di niente – dopo averlo letto, devo aver pensato che con le partite spostate non si sarebbe mai capito quanti punti avesse una squadra, chi dovesse recuperare cosa e quando. Uno sciocco, come tutti. D’altro canto, quella domenica si disputano sia Roma-Lecce, i giallorossi vincono 4-0, sia Genoa-Lazio, i rossoblu perdono in casa per 2-3. Dando un’occhiata ai commenti sui quotidiani di quei giorni, si trova la speranza pressoché unanime che le partite rinviate per ora (e tutte quelle a venire) saranno di sicuro recuperate con la primavera, quando la situazione sarà più tranquilla. A Venezia viene annullato il Carnevale, un segnale forte ma che non cogliamo nella sua importanza, quando scendiamo dal treno la città pare normale, ancora molto affollata.

Napoli-Barcellona

La settimana successiva cominciamo a capire che la situazione è seria, ma non intuiamo quanto, pensiamo a qualcosa di circoscritto, a una brutta questione che si risolverà presto. Andiamo a lavorare, controlliamo cosa è successo nei campionati stranieri, aspettiamo Napoli-Barcellona per il martedì sera. Pensiamo sempre che quello che ci piace non possa sparire, il calcio è la prima evidenza. Camminando per calli e campielli sento un paio di volte la frase «Figurati se sospendono i campionati», e quando la sento quasi ci credo, la faccio mia. Qualche ora prima di Napoli-Barcellona ho  una sorta di pensiero laterale, una riflessione oscura, nascosta, mi domando se abbia senso giocare la partita con il pubblico. Il pensiero però è sparito subito. I tifosi a Fuorigrotta ci sono e la partita è anche piacevole. Leggo oggi sul sito dell’Uefa che a Napoli quella sera c’erano 11 gradi, il vento soffiava a 15 chilometri orari, l’umidità era dell’82%. La serata era parzialmente nuvolosa. Sono cose inutili che adesso è bene sapere, perché gli aspetti inutili delle nostre vite ci mancheranno spesso.

Il Napoli va in vantaggio con Mertens, un gol bellissimo, nel secondo tempo pareggia Griezmann, dopo una bella azione in velocità. Penso che al ritorno sarà dura, e ho ragione, quello che non so è che il ritorno si disputerà in estate. E che tra l’andata e il ritorno succederà di tutto. Quella stessa sera il Bayern Monaco vince per 3-0 allo Stamford Bridge, ipotecando la qualificazione. Quello che non sappiamo ancora è che qualche mese più avanti i tedeschi vinceranno la Champions League più strana di sempre, dominandola. Le ultime partite che facciamo ancora in tempo a percepire come normali sono le due che si giocano mercoledì 26 febbraio: Lione-Juventus (1-0 il risultato) e Real Madrid-Manchester City (1-2 il finale). L’epidemia (anche se non la chiamiamo ancora così) avanza specialmente in Italia, chi lavora e nel calcio (e di conseguenza chi lo segue) è costretto a farsi delle domande, ancora molto generiche. Del tipo cosa si farà nel prossimo fine settimana? Si giocherà o no? Le partite dovranno disputarsi a porte chiuse? Ci si trascina verso il weekend.

25 febbraio 2020: Mertens segnato ill gol del vantaggio del Napoli nella partita giocata al San Paolo contro il Barcellona (Filippo Monteforte/AFP via Getty Images)

In quei giorni stavo leggendo un libro divertente e interessante: Il giardiniere di Jonathan Evison (edito da Sem). Il protagonista recita questa battuta: «Se la vita ti regala merda, tu usala come fertilizzante». La posto sui social, un pensiero che metto a metà tra De André e Lipsyte, e scherzo dicendo che mentre capiamo come rendere tutto ciò fertilizzante: laviamoci le mani. Poi leggiamo un libro, poi laviamoci di nuovo le mani. Minimizzo, guardo gli highlights di Lione-Juventus e mi chiedo dove sia finito Sarri.

Scambio messaggi con amici che seguono il calcio, non riusciamo a parlare solo delle prossime partite, ma comunque guardiamo a quello che accadrà nel fine settimana con interesse, come quando si attende un segnale. Se il calcio (lo sport) si ferma vuol dire che la faccenda è molto più complicata di come ci appare, che è già complicata, che si complicherà all’inverosimile.

Sono giorni in cui viviamo in sospensione senza rendercene conto, siamo i migliori a far finta di niente, figuriamoci se la finzione è agevolata dalla mutazione costante e sorprendente di tutto ciò che sta intorno a noi. Nel resto d’Europa la situazione è – all’apparenza – più tranquilla che qua, dagli altri maggiori campionati – anche in funzione dei ritorni delle coppe europee – si guarda all’evoluzione della situazione della nostra Serie A con una sequenza di punti di vista contrastanti che vanno dall’esagerazione alla farsa, dall’attenzione al timore delle ripercussioni.

Valencia-Atalanta, di nuovo

La giornata numero 26 dovrebbe svolgersi tra il 29 febbraio e il 2 marzo, tra sabato e lunedì, diventerà molto più lunga, concludendosi il 9 marzo. Quella tra Sassuolo-Brescia, vinta dagli emiliani per 3-0 sarà l’ultima partita di campionato disputata prima della sospensione, fino al 20 giugno in Italia non si giocherà più. Lazio-Bologna del 29 febbraio si gioca con il pubblico che gremisce gli spalti dell’Olimpico. Per Napoli-Torino, anticipo serale, il pubblico è presente. Domenica 1 marzo si giocano solo due partite: Lecce-Atalanta (2-7 il risultato) e Cagliari-Roma (3-4), gli stadi sono entrambi gremiti dai tifosi. Sono quattro partite che si svolgono a sud, dove il virus pare non circolare ancora. Le altre partite vengono rinviate e recuperate tra l’8 e il 9 marzo, tutte quante a porte chiuse. Sipario o quasi.

9 marzo 2020: Sassuolo-Brescia si gioca a porte chiuse, e sarà l’ultima partita di Serie A fino al 20 giugno (Emilio Andreoli/Getty Images)

Tra il primo e il 9 marzo succedono molte cose. Il virus si diffonde, cominciamo a staccare dai nostri lavori e dalle nostre abitudini, si comincia a chiudere. Tra l’inizio della giornata di campionato e la sua fine faccio una telefonata particolare a mia mamma, è il 4 marzo, le suggerisco di trasferirsi un po’ (senza avere idea di come si quantifichi quel po’) da mia sorella. In quei giorni mi convinco che i campionati andrebbero annullati o terminati (come accadrà per esempio in Francia). Non riusciamo a spiegarci come sia possibile che in Europa si continui a giocare. Non ce lo spieghiamo, noi che fino a qualche giorno prima siamo rimasti delusi perché ci hanno negato lo stadio, sgomenti dall’orrore di assistere a una partita a porte chiuse, dal fatto che uno o più incontri venissero rinviati. Noi che di colpo abbiamo paura. Il mondo intorno a noi sta cadendo a pezzi, ed è come se venisse giù San Siro, come se il San Paolo si incendiasse, o come se l’Olimpico implodesse su sé stesso. Abbiamo paura.

Questa storia finisce con una partita. È il 10 marzo, al Mestalla si disputa Valencia-Atalanta, uno degli ultimi ottavi di finale a concludersi nella data indicata dal calendario Uefa. Le partite previste per la settimana successiva saranno tutte rinviate. È la partita – di nuovo – di Ilicic, che segnerà tutti i quattro gol dell’Atalanta. Una partita di cui guardo una decina di minuti del primo tempo, poi smetto, perché credo sia una partita che in quel momento non abbia alcun senso. Cambio idea e guardo anche l’ultimo quarto d’ora, dicendomi che per molto tempo non vedrò alcuna partita. Non posso esserne certo ma lo sento. Gli spalti di Valencia sono vuoti e fanno moltissimo rumore. Quando l’incontro finisce penso a Iličic, al suo talento purissimo, alla consacrazione tardiva; penso a lui e al fatto che la prestazione calcistica migliore della sua carriera non possa sublimarla correndo verso i suoi tifosi. Nessuno potrà dire: «Io c’ero la sera in cui Ilicic ha fatto quattro gol». Dopo, per un paio di mesi, fingerò di non badare al fatto che dappertutto nessuno stia giocando.