Pelé ha inventato il Brasile

Il documentario Netflix su O Rei mostra l’importanza dell’icona pop ancora più che del calciatore, di cui forse, tra non molto, non ci ricorderemo nemmeno più.
di Patrizio Ruviglioni 02 Marzo 2021 alle 14:42

La storia di Pelé corrisponde alla storia dei Mondiali che ha giocato, e la storia dei Mondiali che ha giocato corrisponde a quella del Brasile moderno. O perlomeno questa è la lettura di Pelé: il Re del Calcio, il documentario Netflix sul “calciatore del secolo” uscito il 23 febbraio e diretto da Ben Nicholas e David Tryhon. Dove non trovano spazio, per esempio, vicende e impressioni legate al periodo da dirigente o alle vittorie col Santos, né fatti personali che non riguardino le radici della famiglia, semmai solo il racconto di un’epopea che va dall’infanzia alla fama globale e al ritiro del 1974, in stretta e spontanea connessione con l’evoluzione del suo Paese d’appartenenza, che da rurale e «sconosciuto» al mondo anche grazie a lui diventa popolare, persino cool, prima di piombare nella dittatura militare.

E, contraddizioni comprese, è andata così: proprio le vittorie della Seleção dal 1958 al 1974 (tra l’altro, le prime dopo anni di delusioni e “vorrei ma non posso”) hanno diffuso quello storytelling dell’identità “carioca” ancora onnipresente nella cultura occidentale, cioè l’idea di una realtà festosa e accogliente che col calcio ha un rapporto messianico, integralista. E Pelé, già nella percezione dell’epoca, ne era ambasciatore, icona di costume piuttosto che semplice atleta con doti tecniche straordinarie. In questo senso, a livello di materiali c’è tutto ciò che siamo abituati ad aspettarci da un documentario del genere (filmati d’epoca, foto di repertorio, contributi originali dello stesso O Rei e di compagni come Zagallo e Amarildo), anche se poi la narrazione procede leggera glissando su alcuni coni d’ombra che avrebbero meritato maggiore approfondimento, e non solo per esigenze di una trama altrimenti con pochi spigoli.

Non che manchino spunti d’interesse, però. Da una parte, il Pelé ottantenne (classe 1940) che entra in scena – per sedersi, e iniziare a raccontare da un angolo di casa – aiutandosi con un deambulatore subito tirato via goffamente dall’inquadratura da una mano, e che continua a frequentare i giocatori di allora, ormai amici di una vita. Ecco: confrontare quest’immagine con quella che ci lasciano i filmati sgranati dei Cinquanta, di quando a diciassette anni era fra i pionieri del ruolo di atleta-star, «giovane, bello, sano», sorriso «magnetico» e ascendente à la Marilyn Monroe (per citare una contemporanea), è un contrasto che vale da sé il prezzo del biglietto. Dall’altro lato, poi, c’è appunto la ricostruzione di cosa significasse rappresentare un volto pop che travalica i confini dello sport nel mondo non globalizzato dell’epoca, dagli spot alle divinizzazioni pagane. Di quando, insomma, le partite si ascoltavano alla radio e l’unico pensiero del protagonista era che la famiglia avesse potuto seguire i suoi gol in finale ai Mondiali di Svezia del 1958, che vince da protagonista e che inseriscono la Seleção nel giro delle grandi Nazionali, consacrando la maglia numero dieci come quella del fuoriclasse mentre i bambini del posto gli toccano la faccia credendo che il colore scuro della pelle fosse «un trucco».

Storie normali giusto perché lontanissime nel tempo, come del resto lo era il Brasile da cui parte tutto e che dal primo minuto viene messo in parallelo con la crescita di Pelé, figlio predestinato ma sempre con radici umili e comuni («Venivamo dal nulla, vivevamo con poco», dice lui a proposito della famiglia mentre sullo schermo scorrono case basse, strade sterrate, calessi). Il mondo, al momento è in guerra, non conosce quel posto esotico e arretrato. Ci penserà lui a sdoganarne l’immagine sui media di lì a poco, quasi a “inventarne” l’identità, vincendo i Mondiali nel 1958 e il 1962 e diventando simbolo del riscatto brasiliano dopo anni di frustrazioni, per un popolo che «trova l’autostima», per dei bambini poveri che in lui vedono un modello di riscatto e, in generale, per una nazione che ovunque diventa «quella di Pelé», mentre intanto cresce a livello economico, sociale e culturale. Per le strade, si vede, un lungo carnevale.

Finché, nel 1964, su stretta degli Stati Uniti la situazione non implode in una dittatura militare, che col generale Emílio Garrastazu Médici (al potere fra il 1969 e il 1974) mostrerà il lato più feroce e, al tempo stesso, “calcistico”. I successi della Seleção, infatti, diventeranno deterrenti alle tensioni sociali e un biglietto da vista vincente per la dittatura nel mondo. E Pelé, che dopo il collasso dei Mondiali del 1966 tornerà a vincerli, ancora da protagonista assoluto, nel 1970 (a proposito: solo lui ha alzato tre volte quel trofeo), si trasformerà in icona ambigua: possibile voglia vendersi come apartitico («Di politica non capisco nulla, penso solo al calcio» è il mantra) mentre la gente viene torturata e uccisa nelle carceri? Possibile non sappia prendere posizione contro gli spargimenti di sangue? Se avesse parlato, sarebbe cambiata qualcosa? Ecco: in merito il documentario dà voce a opinioni opposte, ne confronta l’influenza con quella di un Muhammad Ali che nel frattempo si è già schierato contro la guerra in Vietnam, ma alla fine non approfondisce troppo la questione, ed è un peccato perché sono gli aspetti controversi quelli più interessanti da indagare, su un’icona pop.

È successo – seppur coi guanti del caso – in The Last Dance con Micheal Jordan (anche lui accusato di “disimpegno”), ed è diventato centrale nel Maradona di Asif Kapadia, che quasi descrive l’ascesa e la caduta di una popstar. Al contrario, Pelé: il re del calcio non cerca contraddizioni, tantomeno la drammatizzazione o la dichiarazione piccante e inedita, anzi resta una produzione lineare, piacevole ma mai davvero profonda. L’eroe è limpido e senza macchie, persino un po’ noioso. Anche se, va detto, il taglio per cui sia stato lui a contribuire alla nascita dell’identità brasiliana moderna è originale e interessante, così come la ricostruzione storica.

Ma proprio per l’importanza dell’impronta culturale che gli si attribuisce, c’è un fantasma – tradito già dal titolo – che aleggia su tutta l’opera: quello del Pelé calciatore. Riconoscergli la giusta attenzione gli avrebbe garantito una profondità inedita. Perché lo si vede giusto nei filmati d’epoca, mentre segna quintali di gol con gesti che sembrano appartenere soltanto a lui, garantendogli quasi una velocità d’esecuzione aliena agli altri, e poi nient’altro. E, come negli altri lavori a tema, ci si concentra su di lui come icona in maniera più o meno diversificata, ma si dà sempre per scontato l’atleta che è stato, tanto che qui non ci si concentra neanche per un attimo sul gesto tecnico in sé, sull’intuizione o il gol. Elementi che – viene da pensare alla fine – sono stati alla base della costruzione della narrazione del Brasile moderno. E allora forse era meglio non sottovalutarli, per completezza.

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