Il 13 febbraio 2021, Moise Kean ha consegnato al Psg la vittoria contro il Nizza con un gol che è un’istantanea della sua stagione, che dice tanto della crescita vissuta dall’ex attaccante di Juventus ed Everton da quando è arrivato a Parigi. La questione non riguarda tanto la preparazione o l’esecuzione di un gesto tecnico tutto sommato banale – un colpo di testa sotto misura a sfruttare la splendida sponda aerea di Mauro Icardi – quanto, piuttosto, la dimensione spazio-temporale in cui inquadrare e inserire un gol che è di Kean anche esteticamente, soprattutto se ne facciamo una questione di iconografia legata allo swag delle treccine colorate, del lisergico home kit marchiato Jordan. Al termine della partita contro il Nizza, Mauricio Pochettino ha detto che Kean «segna tanto e può giocare ovunque, a destra, a sinistra, al centro», di fatto anticipando la prestazione totale (per quantità e qualità) di tre giorni dopo contro il Barcellona, quando Kean ha completato perfettamente il tridente con Mbappé e Icardi. Dieci giorni dopo, alla vigilia del suo 21esimo compleanno, la rete nel comodo 0-4 in casa del Digione ha fatto di Kean il secondo miglior marcatore stagionale di squadra a quota 15, tre in meno del fuoriclasse francese che veste la maglia numero 7.
Per Kean si tratta di un cambiamento importante, di un passaggio di stato e di status, dal punto di vista tecnico ma anche narrativo: questa stagione segna l’ingresso in una nuova e diversa fase della carriera, la fase della maturità, la fase del calciatore vero, la fase in cui l’unico filtro possibile è quello del campo, non certo le categorie d’appartenenza vere o presunte. Anche perché dopo anni in cui Moise Kean era stato presentato come “the next big thing” a ogni costo, era arrivato un momento in cui le classiche chiavi di lettura della precocità, della predestinazione, della superiorità tecnica e fisica e psicologica rispetto ai pari età, dei record da “più giovane di sempre a fare qualcosa” – il suo gol al Bologna, segnato il 27 maggio 2017 a 17 anni e tre mesi è stato il primo realizzato da un giocatore nato nel 2000 in uno dei cinque campionati top europei – non bastavano più.
Anche perché in realtà Kean aveva già dimostrato di poter andare oltre. Era la primavera del 2019: Massimiliano Allegri, complice il progressivo scadimento di forma di Mandzukic e Dybala, l’aveva eletto “game-changer” della sua ultima Juventus, puntando su di lui nei momenti decisivi della rimonta da leggenda e da tregenda contro l’Atletico Madrid, ma anche nel secondo tempo della sfida di ritorno contro l’Ajax; inoltre, più o meno nelle stesse settimane, Roberto Mancini gli aveva spalancato le porte della Nazionale e gli aveva affidato una maglia da titolare, venendo ricompensato da due gol consecutivi contro Finlandia e Liechtenstein – e con quei due gol Kean diventò il secondo marcatore più giovane nella storia azzurra dopo Bruno Nicolè. Prima e dopo, la doppietta all’Udinese e una serie di quattro gare di campionato consecutive sempre a segno, compresa quella di Cagliari del 2 aprile con tanto di esultanza sotto la curva che lo stava fischiando e insultando per il colore della sua pelle.
Quello realizzativo, comunque, era il dettaglio paradossalmente meno importante. Per la prima volta nella sua storia recente, il calcio italiano poteva dire di aver prodotto un autentico talento generazionale, un giocatore riconoscibile anche oltreconfine per potenzialità, sfacciataggine, attitudine e abitudine alla pressione dei grandi palcoscenici, uno di quelli che eravamo abituati ad attribuire – e invidiare – alle altre culture calcistiche, quelli che vengono invocati a ogni mezzo passo falso della Nazionale o dei club nelle coppe europee. Prospettive e percezioni ribaltate dalla sfortunata parentesi all’Everton: di colpo Kean finisce stritolato nella narrazione del nuovo Balotelli tutto genio e sregolatezza, un po’ per colpa sua, un po’ per quell’idea anti-storica per cui un ragazzo di 20 anni attivo sui social network e attento alle tendenze del momento non abbia la testa giusta per sfondare e competere ad alto livello.
Eppure basterebbe veder giocare Kean, osservare l’impatto – non per forza e non sempre misurabile in termini di gol segnati o minuti giocati – che riesce ad avere in una delle migliori squadre del mondo, per andare oltre questa visione banalizzante e stereotipata della realtà. Una visione che ci ha portato a credere di aver già visto tutto di Kean – e, quindi, ad esprimere giudizi assoluti e definitivi su di lui – quando, invece, avevamo appena iniziato a intuire ciò che fosse in grado di essere, di diventare, di fare, in un determinato contesto. Parliamo di un attaccante multidimensionale che, nonostante abbia ancora alcuni limiti ben definiti per ciò che riguarda la dimensione associativa del gioco, ha risolto a Pochettino il problema dell’assenza di Neymar: da esterno destro che agisce vicino al centravanti di riferimento, Kean si è dimostrato complementare tanto a Icardi quanto a Mbappé; in un contesto del genere, il suo calcio immediato, diretto e verticale trova la sua espressione migliore e più completa, soprattutto quando ha metri di campo da attaccare in progressione alle spalle del diretto avversario o quando può far valere la sua superiorità fisica spalle alla porta per poi girarsi e partire palla al piede in conduzione. Moise Kean è un calciatore adrenalinico, potente, esplosivo, resistente allo sforzo prolungato: ogni sua giocata è la dimostrazione di come il successo nel calcio del futuro dipenderà dalla capacità dei singoli di adeguare la propria tecnica di base a un atletismo fuori scala che, oggi, sembra essere diventato la normalità.
Un po’ di azioni in cui fermare Kean sembra davvero molto difficile
La rete contro il Montpellier, in questo senso, è esemplificativa di come la componente istintiva e primordiale sia ancora quella prevalente, ma non per questo risulti essere inefficace in campo. Quando Kean viene servito sulla corsa da Rafinha, non ha bisogno di pensare troppo perché il movimento successivo è già parte della sua memoria muscolare: puntare l’avversario, prendergli due metri sull’allungo e crearsi lo spazio per una conclusione persino brutale nel suo essere così potente e precisa, nonostante un angolo di tiro complicato, gli viene automatico e naturale.
Il tiro, del resto, è il fondamentale che racconta meglio come Kean possa bastare e bastarsi già adesso come attaccante d’élite, proprio come un grande predatore che non ha bisogno di evolversi per mantenersi in cima alla catena alimentare. Quando calcia in porta non guarda quasi mai il portiere perché non ne ha bisogno: le sue conclusioni sono sempre troppo forti e sempre troppo angolate perché l’estremo difensore possa sfruttare a suo vantaggio la mancanza dell’eye-contact. Contro il Rennes, per esempio, i soli elementi che Kean ha bisogno di includere nel suo campo visivo sono il pallone e la distanza che lo separa dal difensore più vicino in modo che non gli rubi il tempo mentre effettua i quattro tocchi che gli servono per prepararsi una conclusione quasi da fermo:
Però non bisogna pensare che Kean sia un giocatore puramente istintivo solo perché i suoi tempi di azione e reazione sembrano obbedire a una logica ancestrale e ulteriore alle singole situazioni di gioco. L’esperienza inglese – e la difficoltà di trovarsi di fronte, per la prima volta in carriera, avversari ad un livello di fisicità e intensità pari se non superiore – ha affinato le sue qualità di “manipolatore” nell’area di rigore: oggi Kean è un centravanti in senso stretto, un numero nove che sa essere antico e moderno allo stesso tempo, che sa come muoversi negli ultimo terzo di campo per esaltare la sua rapidità d’esecuzione e mascherare i limiti che potrebbe incontrare in situazioni di difesa organizzata per blocchi bassi.
In situazione dinamica, quando può correre fronte porta attaccando lo spazio tra i due centrali, il suo contro-movimento è già adesso troppo rapido per poter essere letto in tempo utile: la sua prima rete con il Psg – a fine ottobre, contro il Digione – arriva grazie alla lettura anticipata di una direttrice di corsa in verticale percorsa alla massima velocità possibile, proprio nel momento in cui l’azione si sviluppa in ampiezza. Un principio che torna buono anche quando colpisce di testa, laddove le mancanze dal punto di vista della verticalità pura vengono compensate dalla qualità del taglio sul primo palo ad anticipare il diretto marcatore.
Quando, poi, la porta è alle sue spalle, Kean punta essenzialmente su due opzioni: la sua capacità di fare perno sul piede d’appoggio dopo il primo controllo, per poi calciare indifferentemente di destro – come in occasione della rete al Saint-Etienne – o di sinistro – come a Istanbul contro il Basaksehir in Champions League; oppure la possibilità di attingere a un campionario di finte e contro-finte sempre più ampio che gli permette di evitare il corpo a corpo contro difensori in grado di assorbire l’impatto fisico delle sue giocate. Il gol contro il Digione nell’ultimo turno di Ligue 1, pur nella sua apparente semplicità, è la rappresentazione di come la finta di corpo dopo il movimento ad andare incontro alla palla sia diventata una vera e propria signature move: quindi il gol sembra semplice nella sua esecuzione, ma è solo una sensazione: è Kean a renderlo semplice, nella fase di preparazione.
In un’intervista a Undici dell’autunno 2019, Kean disse di sentirsi cambiato, più uomo, in un calcio che «ti dà tante responsabilità» e che brucia e consuma tutto a velocità vertiginosa. Aveva 19 anni, erano passati solo pochi mesi da quando aveva lasciato Torino e la Juventus per la prima volta, eppure era già tutto diverso, lui era diverso. Così come è diverso oggi, nel bel mezzo della miglior stagione della sua carriera: la stagione che dimostra come non avessimo ancora visto niente di lui, quando credevamo di aver già visto tutto.