È il volto di una nuova generazione di calciatori, e a 19 anni ha già lasciato il segno in Italia e con la Nazionale. Intervista a uno dei classe 2000 più interessanti d'Europa.
Di Moise Kean abbiamo cominciato a conoscere le fattezze, i gol, le esultanze molto prima che esordisse in Serie A: per qualche motivo – sì, per un motivo in particolare: era straordinariamente forte – il suo nome ha iniziato a circolare sui media sportivi intorno al 2015, insieme a qualche video a bassa definizione dei suoi gol con le giovanili della Juventus, e titoli che annunciavano il nuovo talento, la nuova promessa, il nuovo gioiello, e così via. In quei video lui faceva cose straordinarie, dribbling nello stretto e in velocità, gol potentissimi, corse a tutto campo, surplus nell’area di rigore, e tutto un campionario di esultanze, da quelle più sincere alle maschere con le mani messe in un certo modo, la maglietta sulla faccia che lascia scoperti solo gli occhi, un po’ di dab quando era l’epoca, un ballo di quelli che si porterà anche in Serie A. I numeri, nella stagione 2015/16, sono quelli di uno che ha dominato il campionato Primavera: 26 presenze e 24 gol. Aveva i capelli più corti di adesso, molti meno muscoli, le gambe e le braccia più sottili e dinoccolate.
Quando esordisce in prima squadra, a novembre 2016, è un momento aspettato da tutti, quasi un avvento: quarantamila persone allo Juventus Stadium, quando lo vedono togliersi la giacca e avvicinarsi alla linea di bordocampo, iniziano a far vibrare quel rumore eccitato di attesa, un ooooh in crescendo che di norma si riserva ai calci di rigore, alle coppe prima di alzarle, ai ritorni dagli infortuni di campioni molto aspettati. Qui invece si gonfia per un ragazzo che non ha ancora 17 anni, e mentre Mandzukic cammina verso la panchina lui fa un sorriso poi torna serio, ancora un po’ di faccette di emozione, poi subito corre a pressare alto un Pescara che sta perdendo 3-0 e vorrebbe solo andarsene a casa.
Il primo gol arriva in primavera, a maggio, a Bologna, l’ultima di campionato, quando Kean ha già compiuto 17 anni ed esordito in Champions League. È un bel gol, anche questo è un dettaglio da non sottovalutare, visto che sarà un ricordo destinato a durare: un colpo di testa astuto e preciso, che vale la vittoria della Juventus e qualche record per aumentare le aspettative: primo classe 2000 a segnare per i bianconeri, anzi in Serie A, anzi nei cinque maggiori campionati europei.
Se gli chiedi del momento dell’esordio sa a memoria tutta la storia: Allegri che lo manda a scaldare, lui che corre, salta, aspetta che arrivi la chiamata per entrare, ha paura che la partita finisca, e poi arriva, «l’emozione più grande della mia vita». Si illumina mentre parla e sorride e si capisce che non è una frase detta tanto per dire. Però contrasta con una caratteristica del carattere di Moise che si nota subito: la freddezza, o meglio, la risolutezza, un diverso approccio alla gravità per cui non sa cosa voglia dire essere sotto pressione. Quando glielo chiedo, anzi, del suo rapporto con la pressione, lui la tratta come un’estranea mai incontrata per strada: «Non la conosco». Più avanti, parlando di Inghilterra, di Nazionale, di stadi pieni che tifano per te o meglio, di stadi pieni che tifano contro di te, provo di nuovo a verificare se non gli viene mai paura, proprio mai, un po’ di ansia, cose così. Due parole: «Io no».
L’anno dell’esplosione non è nemmeno quello in cui va al Verona, anche se fa vedere cose non normali per un diciottenne o giù di lì: 4 gol in 19 partite di Serie A, ma una personalità impressionante, rapidità di esecuzione, dribbling, velocità e una certa sfacciataggine. Quella lì viene dalla strada, dall’oratorio Don Bosco in cui è cresciuto prima di giocare “sul serio” nell’Asti, dove «fare un tunnel era importante tanto quanto un gol», come ha detto a The Players’ Tribune nel maggio 2019.
È il 2018 il momento in cui succede di tutto, si capisce bene guardando un calendario degli eventi. Inizia l’anno con la Nazionale Under 20, partita contro la Polonia e doppietta. Subito il primo salto: va in Under 21, e segna contro la Tunisia. Ancora in Under 21, segna contro l’Inghilterra con un colpo di testa da fotografare per bellezza del gesto atletico. È la volta della Juventus: a segno contro il Bologna, due volte contro l’Udinese, e poi la Nazionale maggiore, senza Under: gol contro la Finlandia, gol contro il Lichtenstein, prima di tornare a segnare in Serie A: Empoli, Cagliari, Milan, Spal. Tutto perfetto, almeno fino a qui, e tutto molto denso. È in questo momento che qualcosa cambia: «Alla fine di quella stagione ho notato tanti miglioramenti». Prima non era così: «Non tanto, cioè non mi sembrava di essere arrivato al cento per cento». Sembra una persona paziente: «Sinceramente, da piccolo non lo ero, ma proprio per niente. Però poi ho imparato a essere molto paziente».
Nell’estate che in quelle settimane di maggio si stava preparando, Moise ha lasciato Torino per la prima volta dopo dodici anni divisi tra Toro e Juve. Sono passati tre anni, abbiamo già visto molto di quello che Kean è in grado di essere, ma in un certo senso non abbiamo ancora visto niente. Cosa è cambiato, nel frattempo? «Sono diventato un uomo», dice lui, «prima, diciamo, che ero ancora giovane. Adesso mi sento cambiato, il calcio ti dà tante responsabilità».
Oggi Kean può essere il volto di una nuova Italia in molti sensi. A partire da quello calcistico: storicamente gli italiani sono giocatori che viaggiano poco, preferendo crescere in casa. Moise dice che invece rappresentare una nuova onda italiana è «una bella cosa, con anche delle responsabilità». C’è poi la parte fuori dal campo: la famiglia di Kean è ivoriana, lui rappresenta quell’enorme massa di italiani giovani e “di seconda generazione”, è una cosa di cui si rende bene conto. È una generazione importante, che può fare molto a livello sociale, non soltanto sportivo? Si fa più decisa, qui, la sua voce: «Assolutamente sì. È questa la nuova Italia», dice, con una bella convinzione, da slogan. «E questo è molto importante», lo ripete, «è molto importante».
Sarà anche, penso guardandolo mentre indossa la maglia Rinascimento dell’Italia, la spina dorsale di una generazione su cui, da tifosi, facciamo affidamento in molti. Mi rendo conto che sto parlando con un ragazzo, forse è la prima volta che mi capita, con cui non condivido l’evento sportivo più importante della mia vita, il Mondiale vinto nel 2006. «Quando l’Italia ha vinto il Mondiale ero al bar col ghiacciolo in mano a guardare la partita», dice e si fa una risata. «Mi ricordo che c’era tutta questa gente per una partita di calcio, tutti attenti ed emozionati».
Ci sono poi lati interessanti perché inaspettati in Moise Kean. Alla base di tutto, mi sembra di poter dire, c’è una forte consapevolezza. Di chi si è e di dove si è e di chi si vuole diventare. I tatuaggi, ad esempio: ne ha uno con Bob Marley, ne ha uno con Martin Luther King: «Sincero… da piccolo a scuola non è che seguivo tanto. Ma quando ho sentito parlare di Martin Luther King mi ha aperto gli occhi», spiega, «è molto importante per la gente di colore». La passione per la moda, poi. «In Inghilterra è molto più importante che in Italia tra i giocatori», dice. Ma le fashion week no: «Ne ho fatto una a Milano. Però no. Non fa per me», dice ridendo un po’. È di poche parole, timido ma non chiuso. Si apre se lo stuzzichi sull’ambizione, chiedendogli quando arrivano le partite più importanti in Premier League. Snocciola il calendario a memoria: «Adesso c’è il Manchester City, poi dopo ci sono Liverpool, Chelsea, Manchester United, Arsenal…». Giocare il derby sarà pazzesco. Gongola: «Mamma mia».
E alla fine parlare con un ragazzo di 19 anni è molto in questo guardare avanti, al calendario del campionato e non solo, e pensare “mamma mia”: le cose successe sono così poche, così tante quelle che succederanno. Cosa succederà, gli chiedo, in questo futuro? Hai già in mente un obiettivo o la vedi giorno per giorno? «Se ti alzi al mattino senza un obiettivo non fai niente», dice lui, sicuro. «Io il mio ce l’ho». Quale? «Lo sto inseguendo».