Paolo Maldini, giù dall’Olimpo

Il libro Paolo Maldini, 1041 di Diego Guido mostra un uomo complesso e lontano dai cliché tipici del calciatore, prima ancora che un fuoriclasse assoluto.

Giù dall’Olimpo degli dei su cui l’abbiamo issato già da qualche anno, c’è un Paolo Maldini diverso: «Umano, imperfetto, con luci e ombre; di sicuro, più interessante del cavaliere senza macchia a cui lo associamo sempre di più». Parola di Diego Guido, giornalista, che ha scritto Paolo Maldini, 1041 (66thand2nd, collana Vite inattese), ritratto-geografia dell’ex capitano del Milan fra eredità paterne, sconfitte, rapporto coi tifosi e conversione da dirigente, con dentro interviste al protagonista stesso e ad amici, colleghi, esperti.

Ne viene fuori un’immagine con poche contraddizioni, certo, ma con diversi lati spigolosi di un carattere permaloso, insoliti per un’icona specie nel rapportarsi al calcio stesso e alla comunicazione con i giornalisti e il pubblico dello stadio. Bandiera quindi, sì, ma atipica. E non a caso, fischiata da alcuni ultras della sua stessa squadra all’addio al campo. «Il contrario, insomma, della narrazione asettica, limpidissima e sostanzialmente banale che ne abbiamo fatto negli ultimi tempi».

 

 

Ⓤ: Quindi l’abbiamo idealizzato?

Un po’, sì. La sua vita è piena di aspetti curiosi e scelte controcorrente che l’hanno reso meno istituzionale e diplomatico di quanto lo si voglia far passare. Non sto dicendo che Maldini abbia vere e proprie ombre, ma non era certo un tipo scontato. Se adesso ha questo alone di santità, è soprattutto per quanto ha fatto nella seconda parte di carriera. È paradossale a pensarci, ma lui stesso ha ammesso di aver vissuto una delle sue due migliori stagioni a trentacinque anni, nei primi Duemila, quando vinse la Champions League a Manchester. E io, da milanista nato negli anni Ottanta, lo associo solo a quella fase: soltanto scrivendo questo libro ho realizzato davvero che è esistito un altro Maldini, un Maldini “prima”. Tutt’altro che beatificato, s’intende. Quando nel 1996 Baresi lasciò il Milan, il pubblico faticava a vederlo come erede, a riconoscerne le doti da capitano; era molto discusso, criticato.

Ⓤ: Al contrario di Baresi.

Baresi si è sempre mosso in maniera aziendalista, allineandosi spesso alle posizioni della società e degli ultras. E non lo dico con accezione negativa, ma è un dato di fatto. La sera di Marsiglia, per dire, quando Galliani ritirò la squadra per un guasto ai riflettori, lui era d’accordo. Maldini, invece, all’epoca era giovane per esporsi, ma sappiamo che era fra chi voleva rimanere in campo. Entrambi erano silenziosi, ma Baresi non ha mai messo una parola fuori posto; Paolo, al contrario, le poche volte che ha parlato non sempre ha detto le cose che gli altri si aspettavano da lui.

Ⓤ: Nel libro lasci intendere che abbia affrontato il calcio come un “lavoro”, e basta.

Che in parte è l’eredità più importante che gli ha lasciato il padre. Nel senso: a casa Maldini non si parlava mai del lavoro di Cesare, che tendeva a separare la vita professionale da quella privata. Tant’è che il padre è stato l’ultimo, lì, a sapere che il figlio era bravo col pallone fra i piedi.

Ⓤ: E il cognome, Paolo, non lo trovava ingombrante?

Non per il peso in sé, semmai per il chiacchiericcio che c’era intorno ai tempi delle giovanili. Una volta in prima squadra, tutti si sono resi conto che era all’altezza del posto, specie con le prime vittorie col Milan di Sacchi, di cui era titolare a vent’anni. Di lì a poco non sarebbe più stato il “figlio di Cesare”: il rapporto col padre, nell’immaginario collettivo, si sarebbe presto ribaltato. Paolo, poi, ci teneva a essere giudicato per ciò che faceva in campo, senza allusioni e riferimenti col resto. Gli è sempre interessato questo: andare oltre le etichette, controcorrente, per poi dimostrare che nonostante ciò vince lo stesso, che ha ragione lui.

Ⓤ: Ed è un modo di intendere il lavoro, questo, che ritorna anche ora che è dirigente.

Da una parte, solo con la sua presenza la società ha riacquisito credibilità e le trattative sono più semplici, perché garantisce autorevolezza. Dall’altra, però, vuole essere giudicato come dirigente, non per il passato da calciatore. Quello è un capitolo chiuso, che lui ha archiviato con serenità – al contrario, per dire, di un Totti. Una volta si è sfogato con Leonardo, che l’ha voluto al Milan come dirigente, proprio per questo: Maldini non è tornato in società per la bella presenza, per fare il prestanome; è lì per prendere decisioni in prima persona. Che poi queste operazioni abbiano un risalto mediatico maggiore, è un altro conto. Nel senso: pensiamo a quando è andato a Ibiza a convincere Theo Hernández; se Maldini si scomoda tanto per un terzino sinistro, l’idea che arriva è che quel terzino sinistro è veramente forte. E, per ora, ha avuto ragione lui. Si sta costruendo una credibilità da dirigente.

Ⓤ: Tecnicamente, invece, che giocatore era?

Gli esperti che ho interpellato l’hanno confermato: un destro naturale che gioca a sinistra è un talento assoluto. Ma aveva anche eccellenti dote fisiche, oltre che tecniche. E mi ha incuriosito un dettaglio che mi ha confessato in una delle interviste: prima dei Mondiali del 1994 non calciava neanche bene, non distendeva del tutto la gamba; poi negli Usa ebbe una distorsione, quindi imparò il movimento corretto solo nel periodo di rieducazione. Questo per dire che non era tutta estetica: certo, era elegante in campo e fuori, direi persino un bel ragazzo, ma questo ci ha dato un’immagine di lui epurata dell’aspetto più ruvido, che rimaneva fondamentale. Era un giocatore duro; leale, sì, ma duro. E che, specie, nella prima parte di carriera, in campo era esuberante, riempiva gli spazi. Per il resto, giocava “a terra”, che è sconsigliato sin dalla scuola calcio. Ma lui era atipico anche in questo: poteva permetterselo, e allora perché non farlo?

Ⓤ: Parliamo di una bandiera atipica, insomma.

Perlomeno a me, dava l’idea di uno che era in campo per fare il proprio lavoro, non per amore del calcio o dei tifosi. Trasmetteva quasi una sorta di freddezza.

Ⓤ: E tu, riferendoti alle esultanze, parli di “istinto inclusivo” per quelle, per esempio, di Gattuso, e di “istinto esclusivo” per quelle di Maldini.

Sì, e questo nonostante lui stesso mi abbia confessato di essere invece partecipe col pubblico, molto più di quanto sembrasse. Quella “freddezza” non era voluta: è parte del suo carattere. Però, sì, il risultato era un senso di distacco reciproco col pubblico.

Ⓤ: Infatti a un certo punto dici che non è mai stato facile indossare la sua maglietta. E non per motivi tecnici.

Messi e Ronaldo sono due alieni, eppure i ragazzini ne indossano eccome le maglie al campetto. Maldini, al contrario, non ti ha mai spinto a farlo. Esultava coi compagni, prima che con lo stadio. Il suo mondo era il rettangolo verde. Era rispettoso nei confronti della gente che tifava, ma in un certo senso “pretendeva” anche del rispetto. Ripeto: per lui il calcio era un lavoro.

Ⓤ: Il programma in radio che negli anni Novanta ha condotto con Ringo rientra in quest’ottica?

Ne è emblema, direi. Banalmente, perché non hanno quasi mai parlato di calcio: era la prova che per Maldini il pallone non è mai stato tutto, anzi; ha tante passioni, e lì ne discuteva. E poi perché quel programma è andato in onda durante due stagioni disastrose per il Milan, quelle del ritorno di Sacchi e Capello. Cesare Maldini si vergognava a farsi vedere a passaggio dopo una sconfitta; Paolo, in due annate maledette in cui aveva pure ereditato la fascia da capitano, nel tempo libero era in radio. La gente gli chiedeva: “Perché?”. La sua risposta, implicita, era: “Perché no?”. La sua professionalità non è venuta meno, ma il campo non ha mai inglobato del tutto la sua vita. Tra l’altro, quella era una situazione informale e ciò lo divertiva parecchio: di solito, nei salotti televisivi, Maldini è sempre stato poco sereno, non a proprio agio, diffidente. E, in generale, non ha mai fatto pace con alcune dinamiche del nostro calcio.

Ⓤ: Anche per questo il rapporto coi tifosi non è mai stato facile. Mi viene in mente il suo rapporto, sereno, con la sconfitta. Era quasi pedagogico nei confronti di chi pretendeva da lui e dalla squadra sempre e solo la vittoria.

Considerava la sconfitta non come un’onta da cui risollevarsi, ma come una possibilità da mettere in preventivo. Per lui, il giorno dopo una delusione si volta pagina. Gli ho chiesto se fosse uno di quelli che ama le sconfitte più delle vittorie, perché magari gli insegnavano qualcosa; mi ha detto, semplicemente, di no. Gli piaceva vincere, ma non aveva paura di perdere. La notte di ritorno da Istanbul, nel 2005, gli ultras volevano (pretendevano) il diritto di sfogarsi coi calciatori, sperando che questi fossero comprensivi della loro rabbia. Insomma: si veniva da una finale persa ai rigori dopo aver chiuso il primo tempo in vantaggio di 3-0. Cercavano quasi di ottenere delle scuse dai giocatori. Ma Maldini non è tipo che ti porge la spalla per piangere. Da lì, quindi, è iniziato un parapiglia collettivo che ha rotto per sempre il suo rapporto col tifo organizzato, che quattro anni dopo lo fischierà nel giorno dell’addio. Chiariamo: si è trattato di pochissime persone nel complesso di San Siro. Ma lui avrebbe voluto salutare loro come con tutte le altre.

Ⓤ: Che significa questo?

Che Maldini, che comunque aveva sofferto ogni contestazione sin dai tempi della radio, era pronto a mettere da parte ciò che era successo. Alcuni ultras, evidentemente, no. Si dice che se nella curva del Milan c’è la bandiera di Baresi e non quella di Maldini, un pezzo della sua è comunque in ogni curva altra d’Italia. È stato un personaggio trasversale, trans-generazionale. L’ostilità degli ultras rossoneri l’ha reso persino più “simpatico” agli avversari. E resta un’icona complessa – atipica – anche per questo: non gli è mai interessato piacere agli altri a tutti i costi.