I cattivi non sono cattivi davvero

Piccolo compendio del fair play controcorrente: tanti calciatori considerati ingestibili hanno vissuto momenti da buoni, in campo e fuori.

Prendiamo Shylock, usuraio atipico che gode per la rovina di un suo debitore, gongola all’idea di perdere il capitale imprestato per intascare finalmente la sua penale: la sua libbra di carne da strapparsi all’altezza del cuore, ovverosia la vita di un cristiano. Ma guardiamo la faccenda dal suo punto di vista, ascoltiamo le sue ragioni di ebreo «vilipeso in tutti i modi» dai potenti di Venezia proprio perché ebreo. Egli si domanda: «Non ha forse occhi un ebreo? Non ha mani, organi, membra, sensi, affetti e passioni? […] Se ci ferite noi non sanguiniamo? Se ci avvelenate noi non moriamo? E se ci fate un torto, non ci vendicheremo?». Ecco quindi che Shylock non è soltanto un sadico in cerca di vendetta, ma anche un uomo d’affari frustrato dall’ipocrisia dei cristiani che governano Venezia. Lo odiamo, Shylock, facciamo il tifo per lui. Del resto Shakespeare lo sapeva meglio di tutti: non esiste ombra senza luce. Ed è per questo che meglio di tutti ha saputo restituire le infinite sfumature del nero cupo. Il punto è che se pure siamo in grado di individuare il male non sempre siamo in grado di capirlo. Forse perché ci fa paura, forse perché in fondo è qualcosa ci appartiene.

Prendiamo Maradona, neppure il tempo di seppellirlo che cominciavano a piovere i distinguo: celebrare il calciatore e deprecare l’uomo, come se l’uno potesse esistere senza l’altro. Se abbiamo imparato qualcosa dalla controversa parabola di Diego Armando Maradona, è che l’esercizio retorico di separare il bene dal male è sia sterile che noioso. Non esiste il gol del secolo senza la mano de Dios, non c’è militanza al fianco degli oppressi senza l’ostentazione del lusso, non ci sono le confessioni commoventi a Gianni Minà senza i pallini sparati ai giornalisti con un fucile ad aria compressa. Maradona non si può né assolvere né condannare, va celebrato così, nella sua dolorosa complessità. Lo abbiamo odiato, Diego, abbiamo fatto il tifo per lui. Qualche volta dovremmo semplicemente accettare di non capire e tenerci almeno la bellezza, prenderla come viene, fosse anche con riserva. Cercare quei lampi di stupore che non sono mai davvero redenzione, ma se non altro delle magnifiche epifanie.

Prendiamo Eric Cantona, che si è consegnato alla storia in molti modi compreso un assurdo calcio volante inflitto a un tifoso ventenne del Crystal Palace, Matthew Simmons. Il numero 7 dello United sta lasciando il terreno di gioco, espulso dopo aver reagito alle botte del suo diretto marcatore, Shaw. Si dirige verso gli spogliatoi quando Simmons dagli spalti esagera, o forse no. «Reagisci in un giorno preciso», dirà Cantona, «ma le parole sono le stesse che hai sentito milioni di volte». Eric prende la rincorsa e sferra un colpo di kung-fu, quindi si accanisce a mani nude sino a che non viene allontanato. Dopo le multe, le condanne e le squalifiche, Cantona continuerà a essere molte cose: un grande calciatore, un criptico provocatore, un attore per Ken Loach, un collezionista d’arte. Insieme a Maradona proverà a fondare un sindacato mondiale dei calciatori, rispettando il facile pronostico di non riuscirci. Oggi la sua filantropia si chiama “Common Goal”, un’associazione benefica che sostiene chi ha bisogno, fondata nel 2017 da Juan Mata. «Molti calciatori ed ex calciatori», dice, «dovrebbero usare la propria posizione. Non dico che devono esporsi per forza, ma devono almeno sapere quello che succede». Un calcio in faccia all’indifferenza.

Restiamo nella Premier League degli anni ’90 e prendiamo Robbie Fowler, amato dai tifosi del Liverpool e odiato da tutti gli altri: scommesse pesanti alle corse dei cavalli, auto sportive distrutte, risse nei pub, scandali sui tabloid. E tanta cocaina, sostengono alcuni. Lui replica sniffando la linea di fondo campo dopo un gol all’Everton. Ma è contro il Chelsea che dà il peggio di sé. Viene marcato da Le Saux, cognome francese, aspetto curato: ce n’è abbastanza in un ambiente machista per essere additato come omosessuale. Il tabù per antonomasia nel mondo del calcio, allora come oggi.

Fowler lo insulta, Le Saux gli dice «Ehi, non esagerare, c’è mia moglie in tribuna, sono sposato». Il nostro risponde «E allora? Anche Elton John lo era». Robbie Fowler, il bad boy di Toxteth, sobborgo proletario di Liverpool, che per mesi ha sostenuto con massicce donazioni l’associazione dei portuali licenziati in massa dopo uno sciopero. Robbie Fowler che rifiuta un rigore assegnato in un big match con l’Arsenal: «Nothing», dice agitando le braccia, «nothing». L’arbitro lo assegna comunque, Robbie tira molle e quasi centrale, secondo molti sbaglia di proposito (poi McAteer ribadisce in rete la parata di Seaman). «Ho fatto delle cose stupide», dirà, «non ero pronto per essere un modello da seguire, non ho mai capito fino in fondo questo lato dello sport».

Prendiamo Paul Gascoigne – sì, il Regno Unito ha dato tantissimo alla causa – prendiamolo e scriviamoci un romanzo. Gazza il re dei guasconi, che ha orinato e defecato sui compagni di squadra e i loro effetti personali (Gattuso ha dovuto rottamare un paio di calzini, ai tempi dei Rangers); che ha strizzato per gioco i testicoli di un arbitro nell’atto di abbracciarlo; che è scomparso dai radar di amici e famiglia per riapparire a Budapest, sbronzo ciucco, in tournée con gli Iron Maiden. Gascoigne che a Italia ’90 vede sgretolarsi la sua immagine di spaccone, scoppiando in un pianto dirotto per un cartellino giallo che gli sarebbe costato la finale. Erano lacrime belle e vere, piene di vita. Dirà di lui lo scrittore Salman Rushdie: «Prima di Gascoigne chi altri è diventato un eroe nazionale semplicemente piangendo?» (Si veda La caduta dei campioni, Einaudi 2020).

E veniamo finalmente in Italia, occupiamoci di record, prendiamo Daniele Conti, figlio del Bruno mundial: con 140 cartellini gialli è il giocatore più ammonito di sempre in Serie A. Irruento, a tratti scomposto, il suo ruolo di play lo espone spesso al fallo tattico che lui trasforma in opera d’arte. Poche maglie tirate e molte gambe tese (11 le espulsioni, terzo all time). Negli anni diventa capitano e bandiera del Cagliari ma il suo rapporto con gli arbitri non decolla: «Diciamo che non ero uno che cercava il dialogo», ammette. Al fallo tattico si aggiungono i vaffa e i cartellini si moltiplicano. Per lui, ingranaggio di una dinastia, il riscatto passa attraverso la famiglia: è il 24 febbraio del 2013, festeggia una doppietta contro il Torino con una corsa ad abbracciare un raccattapalle, Bruno jr, suo figlio, per la prima volta a bordo a campo. L’anno dopo altra partita contro il Toro e altra doppietta, altro figlio che esordisce a bordo campo, Manuel. E altro abbraccio strappa lacrime. «È un po’ come quando ti fermi a fantasticare sotto le stelle in una sera d’estate», dirà Daniele (si veda La mia vita in rossoblù, Arkadia 2016).

Altro cattivo da record è Paolo Montero: 16 splendidi cartellini rossi in carriera, come lui nessuno mai. Botte da orbi, pugni e calci a palla lontana o a gioco fermo. Soprattutto nessun pentimento: «In Uruguay ho imparato così, ma quando finisce la partita torno a essere un bravo ragazzo». In piena emergenza Covid non si dimentica di Bergamo, dove ha passato quattro stagioni con la maglia dell’Atalanta: «Chiamo sempre le due famiglie che mi hanno accolto come un figlio, soffro per loro, per una città di grandi lavoratori».

Vite da romanzo, in qualche caso da villain dei fumetti. Mille volte sono caduti, qualche volta hanno provato a raddrizzarsi, spesso non ci sono riusciti. In molti casi quei guizzi di bene sono lì a certificare il loro fallimento, come dei lampi di bellezza che squarciano la notte. Ma se all’improvviso passassimo da Shakespeare a De Amicis, dal Mercante di Venezia al libro Cuore, e cioè a un buono che fa una cosa da buono? Prendiamo Florenzi, che dopo un gol al Cagliari scappa dal campo, scavalca una transenna, si arrampica in tribuna e corre ad abbracciare Aurora, 82 anni, sua nonna che è lì allo stadio per la prima volta. «Gliel’avevo promesso. Mi ha detto “Io vengo a vederti, però tu vieni a salutarmi”». Per ambientazione e interpreti più che De Amicis sembra Verdone. In ogni caso è balsamo per i romantici. Spalmiamolo senza fare storie.

Da Undici n° 36