Luna Rossa era a un passo dalla perfezione

La barca italiana ha iniziato bene la finale di America's Cup, ma nel corso delle regate Team New Zealand ha dimostrato di essere ancora superiore.

Se, grazie a un eccellente atto finale Luna Rossa, è entrata (meritatamente) nella storia della vela italica, Team New Zealand scrive ancora il suo nome nell’albo d’oro dell’America’s Cup: è una bella differenza, al di là degli applausi reciproci tra gli equipaggi al termine della decima prova che ha sancito il 7-3. I kiwi della vela, entrati a gamba tesa nell’edizione 1987, all’inizio degli anni Novanta hanno iniziato a essere protagonisti: il primo a capirlo fu Raul Gardini che dovette far ricorso alle proteste per avere ragione nella finale della Louis Vuitton Cup, a San Diego. Dal ’95 in poi, il ruolino dei neozelandesi è impressionante: sette volte in finale in otto edizioni, due successi come challenger e due come defender. Potendo contare su budget notevoli ma non stratosferici (difatti, la festa per il trionfo è stata guastata dalle voci di abbandono da parte del main sponsor Emirates) e su un serbatoio di ottimi velisti comunque limitato, pensando a una Nazione con 4,8 milioni di abitanti. I “cugini” australiani, dal passato velico superiore e con una popolazione cinque volte più grande, non azzeccano un bordo da 35 anni.

La verità: il compito di Luna Rossa Prada Pirelli era molto, molto difficile. E la strategia iniziale ha anche pagato. Partenze al limite (quasi sempre vinte), marcature asfissianti in puro stile match race che qualcuno aveva dato per morto con gli AC75, manovre ben eseguite. E l’inesorabile effetto-sorpresa che solitamente sfavorisce il defender: mentre i nostri sono arrivati forgiati dalla doppia fatica della Prada Cup, i neozelandesi si erano allenati da soli. E sicuramente non pensavano a una Luna Rossa così pericolosa, forti di una storia fatta di successi: dal 2000 a oggi, l’avevano sempre spuntata nel confronto diretto. Da qui tre giornate ad alto livello e un 3-3 sorprendente, ma solo per chi non è addetto ai lavori. Quando dopo la sesta regata, il timoniere kiwi Peter Burling ha detto «vogliamo ancora imparare», non era la battuta prima di cena ma la verità. Difatti, favorita da qualche errore di Luna Rossa, la tattica più accorta – in pratica stare lontani il più possibile dalla barca italiana – e la maggiore messa a punto hanno scatenato tutta la potenza di Te Rehutai: è diventata praticamente imbattibile con vento medio e velocissima anche con poca aria – una situazione che, in teoria, era ideale per i nostri.

Le cinque vittorie consecutive sono lì a dimostrarlo, senza trascurare gli elementi umani: il logico scoramento dei ragazzi di Max Sirena nel vedere la facilità di recupero dei rivali dopo uno sbaglio, la consapevolezza che il mancato 4-4 (quando Luna Rossa si è divorata un lato intero di vantaggio) avrebbe pesato non poco e l’esperienza dei kiwi a questi livelli, favorita dalla perfetta conoscenza del campo di regata da parte di Burling e soci. Realmente cresciuti in quelle acque e capaci di interpretare meglio ogni brezza, ogni nuvoletta, ogni cambiamento. La vela è uno degli sport meno matematici in assoluto, però se a ogni salto di vento un velista si trova dalla parte giusta e l’altro dalla parte sbagliata, è solo bravura e non fortuna.

E poi c’è la barca. Senza essere il missile da 100 km/h come era stato fatto credere, Te Rehutai ha confermato la capacità tutta neozelandese di fare innovazione, servendosi anche dei velisti a bordo che da sempre hanno l’attitudine a fornire, più di altri, quei suggerimenti capaci di migliorare le performance dello scafo. C’è sempre uno strettissimo legame fra chi progetta e chi porta in mare l’AC75: il roccioso Burling, del resto, vanta studi di ingegneria, come Russell Coutts, ex-idolo nazionale per via del tradimento post-2000. Evidentemente le scelte diverse in molti elementi (la carena piatta con effetto suolo, i foil a T, i grinder “scavati” nella coperta) hanno pagato in termini di velocità, e a nulla servono le recriminazioni sentite sul tema, basate sul concetto che a mezzi invertiti il nostro equipaggio avrebbe vinto per 7-0. Non ha senso, anche se fosse vero: basta leggere il bigino dell’America’s Cup per capire che dagli albori è stata (e sarà sempre) una sfida tecnologica, con l’obiettivo di affidare al “pilota” il mezzo più veloce possibile. Tanto da far riflettere sulla composizione dell’equipaggio: quello guidato da Francesco Bruni e James Spithill si è comportato bene, talvolta benissimo. Ha mollato solo nell’ultima regata, ma è comprensibile. Però, come tasso tecnico generale si può fare di più.

Per Luna Rossa, quella arrivata contro Team New Zealand è la seconda sconfitta in finale di America’s Cup, dopo quella del 2000 (Gilles Martin-Raget/AFP via Getty Images)

L’importante è tenerlo presente per il prossimo giro, su cui peraltro ci sono poche certezze: a meno di colpi di scena, Luna Rossa risponderà ancora all’appello ma facilmente ci saranno cambiamenti nel team, sia progettuale sia velico. A partire dal dubbio lasciato dalle parole di Max Sirena, skipper di esperienza, che potrebbe farsi da parte dopo la settima America’s Cup. L’apparente sorpresa è che non sarà più Challenger of Record – il ‘responsabile’ degli sfidanti, sostituito da Ineos Team Uk del magnate inglese Jim Ratcliffe, sempre più protagonista dello sport a livello mondiale. È la conferma che il rapporto tra Patrizio Bertelli e Grant Dalton – n.1 dei kiwi – si è perso strada facendo, obiettivamente per colpa del secondo: abbastanza core ‘ngrato verso il patron aretino che aveva dato una mano ai kiwi per conquistare il trofeo alle Bermuda, nel 2017, e in questa edizione ha fatto da sponsor e creato il principale motivo di interesse sportivo. Ma la comunanza storica e velistica tra anglosassoni è venuta fuori sin da quando Dalton – che conosce benissimo l’Italia e gli italiani – ha mostrato la speranza di una sfida con la barca di Sir Ben Ainslie. Aveva fiutato il pericolo, insomma.

La curiosità vera è un’altra. Se era sicuro che, in caso di approdo nel Mediterraneo, altri team europei si sarebbero lanciati nell’impresa (tra questi il redivivo Ernesto Bertarelli di Alinghi) sino a dare vita a un circuito sul modello F1, una nuova avventura ad Auckland non suscita entusiasmo. The City of Sail resta un luogo ideale per regatare, ma ben poco allettante per gli sponsor che devono spendere milioni di dollari per la gloria, vista la limitatezza degli antipodi come mercato. Non è da escludere quindi uno spostamento di sede, del resto il defender può scegliere nel mondo: se dobbiamo scommettere qualche euro, lo puntiamo su Dubai. Campo di regata eccellente, enorme possibilità di ritorno (soprattutto per le maison del lusso, ma non solo) e una famiglia reale come gli Al Maktoum che amano lo sport. Pronti a spendere, ovvio.