Ivan Juric, ritratto di un idealista

Lavoro e identità di gioco sono principi non negoziabili per il tecnico croato, che grazie a questo approccio ha trasformato il Verona in una squadra moderna e divertente. E ora punta a qualcosa di più.

Durante la sua prima conferenza stampa da allenatore dell’Hellas Verona, un giornalista chiese a Ivan Juric come avrebbe fatto a conquistare la sua nuova tifoseria. In quel momento, la breve carriera dell’allenatore croato sembrava già al primo bivio determinante: le aspettative che aveva generato con l’eccezionale promozione in Serie A del Crotone sembravano esser state erose da un vento invisibile, a Genova infatti aveva vissuto tre stagioni monche, psicologicamente massacranti e scandite da esoneri – propri e altrui – senza mai avere a disposizione un campionato intero o comunque il tempo necessario per trovare continuità, rimediare ai propri errori, dare prova della propria crescita e delle proprie qualità senza essere irrimediabilmente legato alle contingenze. Dopo quei tre anni il nome di Ivan Juric, pur facendo ancora parte della lista “allenatore emergenti”, e nonostante i lampi di ottimo calcio mostrati dalle sue squadre, sembrava già stantio, invecchiato male e troppo in fretta. Al Verona, in quell’istante, a suo dire, solo Bessa e Pazzini avevano già dimostrato di poter giocare in Serie A: probabilmente, conosceva bene i limiti della rosa, così come sapeva – più per la piega presa dagli avvenimenti che per demeriti propri – di non avere margine di errore. Alla domanda del giornalista, rispose: «Con il gioco». Il lavoro è l’unico strumento che Juric conosce per far funzionare le cose.

La carriera da allenatore di Ivan Juric è iniziata a Mantova, nell’estate 2014. Per capire la realtà che ha trovato nel momento in cui ha deciso di camminare da solo, dopo tanti anni come secondo di Gasperini (al Genoa, all’Inter, al Palermo), basta ricorrere a tutto ciò che ci viene in mente quando pensiamo a una squadra di Lega Pro in difficoltà. Nel corso del primo mese di lavoro, si erano già avvicendati tre presidenti diversi e quel che era rimasto della stagione precedente erano tre punti di penalizzazione e l’urgenza di tagliare le spese. A disposizione di Juric erano rimasti quasi solo giovanissimi: una delle pochissime eccezioni era Matteo Paro, che lo avrebbe seguito anche a Crotone e che oggi è suo vice all’Hellas. Per quanto il tecnico croato fosse perfettamente al corrente della situazione finanziaria del club, il mercato insufficiente fu subito una causa di tensione con il presidente del momento e gli costò persino l’esonero, ma alla fine, tra i due, fu il dirigente a lasciare la squadra. L’obiettivo era la salvezza ma, con questi presupposti, la squadra di Juric era da molti considerata spacciata.

«Dopo sette partite avevamo ottenuto solo tre punti, che di fatto valevano zero, a causa della penalizzazione. Nonostante questo, il suo atteggiamento non è mai cambiato: giocavamo bene, non ci si poteva recriminare nulla», racconta a Undici Andrea Trainotti, il centrale destro del 3-4-3 del Mantova 2014/15. «Ci abbiamo messo due-tre mesi per assorbire completamente il suo calcio. Facevamo gli stessi movimenti che oggi vediamo fare ai giocatori del Verona. Juric ce li faceva provare a campo ridotto, in modo da eseguirli ancora più facilmente con più spazi a disposizione. Quando abbiamo iniziato a vincere le prime partite non ci siamo più fermati, tutti ci temevano perché giocavamo a memoria. Ci siamo salvati con 46 punti». Trainotti, che oggi gioca al Trento, in Serie D, allora aveva 21 anni e arrivava dalla Serie C2, ma è diventato subito un giocatore irrinunciabile per Juric, tanto da essere premiato a fine anno come miglior difensore della Lega Pro. «Io non sono mai stato molto tecnico«, racconta, «però l’impostazione dal basso mi veniva facile perché mi smarcavo con quel mezzo secondo in anticipo necessario. Seguivamo tutti dei meccanismi che conoscevamo a memoria. Giocavamo con la difesa a tre, con la linea alta, e non avevamo mai paura di farci sfidare nell’uno-contro-uno. Dietro accettavamo la parità numerica senza andare in difficoltà. Prendevamo gli attaccanti a uomo, come fa oggi l’Atalanta, e spesso anche noi braccetti salivamo a crossare».

In quel Mantova c’era già tutto Ivan Juric, non soltanto perché è stato il primo laboratorio in cui ha preso forma la sua idea di calcio, ma soprattutto per le circostanze in cui era riuscito a mettere a frutto il proprio lavoro: con pochissime risorse a disposizione, insistendo nel costruire su un’identità forte, in grado di sopperire ai limiti della rosa. «Si vedeva già che era un allenatore di livello superiore», aggiunge Trainotti, «ci chiedeva moltissimo in allenamento, a livello fisico: di solito il martedì, dopo la partita, si fa lavoro di scarico, con lui invece i Gps segnavano spesso 12-13 km di corsa. Io abitavo al terzo piano e all’inizio, il martedì, facevo fatica a fare le scale. È un tipo duro, come appare dall’esterno, ma ci stimolava sempre a migliorare. E quando le cose andavano bene, ci faceva sentire più forti di tutti». Il Mantova finì la stagione al tredicesimo posto del Girone A di Lega Pro.

Queste circostanze, sperimentate a Mantova, sarebbero state una costante della carriera di Juric: il coraggio di accettare situazioni impervie, a volte persino al limite tra l’eroico e l’incosciente, lo ha portato a raccogliere tenacemente per tre anni il Genoa nei suoi momenti più difficili, come se venirne a capo fosse una questione di principio. La straordinaria abilità nel costruire contesti tatticamente sorprendenti, fondati sulla ricerca di un gioco ad altissima intensità, fatto di meccanismi codificati e in grado di nascondere i limiti tecnici dei suoi giocatori, è stata alla base dei suoi successi. Come la promozione del Crotone 2015/16, costruita sulla base di una squadra arrivata sedicesima nella stagione precedente e raggiunta grazie a un’identità di gioco forte e solida, che diventa l’oggetto di un lavoro quotidiano maniacale, la prospettiva a cui guardare e aggrapparsi nei momenti in cui i risultati non arrivano. L’evoluzione di Ivan Juric è stata sottile, legata agli accomodamenti necessari perché le sue squadre potessero rendere al meglio. Ma è avvenuta sempre senza discostarsi da una serie di principi non negoziabili. Il suo è un percorso coerente, che è passato attraverso le difficoltà e la frustrazione di non riuscire a sviluppare fino in fondo il proprio disegno, di non vederlo funzionare con continuità negli anni al Genoa, ma che si rispecchia nelle forme che lo hanno portato al successo: la salvezza del Mantova e il nono posto dell’Hellas Verona hanno premesse, sviluppi ed esiti praticamente sovrapponibili, considerando materiale a disposizione e lavoro del tecnico.

Juric ha guidato il Genoa per 56 gare tra campionato e Coppa Italia, a cavallo tra il 2016 e il 2018: il suo score totale è stato di 12 vittorie, 15 pareggi e 29( sconfitte Gabriele Maltinti/Getty Images)

Una delle frasi più belle e poetiche che potrete sentir dire a un giocatore o un allenatore sul suo maestro è quella che Juric ha usato per raccontare l’influenza che Gasperini ha esercitato sul suo modo di giocare e di comprendere il calcio. «Prima di essere allenato da lui, la partita mi passava tra le mani senza capirla: dopo ho iniziato a decifrarla. Prima di andare in campo sapevo perfettamente cosa fare, dopo sapevo perfettamente se avevo giocato bene o male, e perché». Il modello di Gian Piero Gasperini è uno stilema fisso del racconto che si fa di Juric, e difficilmente potrebbe essere altrimenti, dato che lo stesso allenatore di Spalato ha ammesso in più occasioni che tutto ciò che sa di calcio lo ha imparato dall’attuale tecnico dell’Atalanta. Eppure non è tanto per il passato o per aver allenato negli stessi contesti, che ha senso accostare l’allievo e il maestro, quanto per il futuro che attende Juric. «Non siamo al livello di Genoa e Samp, ma nemmeno vicini. Non è questa la strada, per me: stiamo facendo risultati e creando un gruppo, ma serve un’altra visione. Leggo delle plusvalenze, ma se vogliamo crescere non devono esserci più. E se ci saranno cessioni non ci sarò più io», ha detto lo scorso dicembre, in una conferenza stampa alla vigilia di una partita di campionato. Poi ha aggiunto: «Serve un altro approccio. Non bisogna vendere i migliori giocatori, ma bisogna comprarli come le altre società. Quando ti manca un pezzo lo sostituisci».

È evidente che Juric non voglia limitarsi a portare al massimo rendimento possibile i giocatori che allena, monetizzare e poi ripartire da zero. Vuole guidare un progetto con prospettive di crescita, anche a costo di essere brutalmente schietto. Il Verona, che negli ultimi due anni ha lavorato bene nello scouting e nella scelta di profili low-cost, ha risposto al suo allenatore con gli arrivi in prestito di Sturaro e Lasagna, due giocatori già formati, ideali per il suo disegno tattico, e nei loro contratti ci sono opzioni di acquisto definitivo piuttosto onerose. Juric, con le idee e il lavoro, ha schivato un precipizio immeritato e, come Gasperini – con cui condivide la forma mentis, prima ancora della preferenza comune per le marcature a uomo – sta cercando la propria Atalanta, consapevole di essersela guadagnata.