Cinema e calcio non vanno d’accordo?

Ci hanno provato in tanti, con esiti piuttosto dimenticabili. Forse perché le partite non sono per facili da sceneggiare, da immortalare con la macchina da presa e con i tempi del cinema.

Ogni volta che vedo un film con dentro scene di calcio giocato mi torna in mente il Maifredi Team: nel 2003 a Quelli che il calcio (conduzione Simona Ventura-Gene Gnocchi) decidono di mostrare i gol in diretta anche se la Rai non ha i diritti necessari a mostrare i gol in diretta, per farlo si servono di una squadra di vecchie glorie (chi più vecchio e chi meno, chi più gloria e chi meno) guidata dall’ex-allenatore (soprattutto) della Juventus Gigi Maifredi. Sull’erba verde sintetico di un campo di calcio a 5, il Maifredi Team mostra al pubblico dei non-possessori di antenna satellitare montata sul terrazzo cosa succede sui campi della Serie A: repliche in scala calcio-calcetto dei gol segnati, delle principali occasioni, degli episodi più discussi. “Moviola umana”, la chiamavano: il movimento era (quasi) quello, la velocità era quella del rallenty, della moviola, appunto. Ogni volta che vedo un film con dentro scene di calcio giocato mi torna in mente il Maifredi Team, si diceva: la stessa atmosfera di costrizione, la stessa sensazione di impaccio, la stessa impressione di imbarazzo. Il rapporto tra calcio e cinema è una storia di ostinazione: non funziona, è evidente che non ha mai funzionato, è chiaro che probabilmente non funzionerà mai, eppure continuiamo a crederci, a provarci, a insistere. Nonostante la saga di Goal! (di cui aspettiamo ancora un quarto capitolo che dia all’eroe dei due mondi Santiago Muñez il finale che merita).

In realtà la disfunzione non sta nel rapporto tra calcio e cinema: il calcio al cinema funziona benissimo, i guai cominciano quando si prova a sceneggiare una partita contenendo l’azione nella pagina, a riprendere il gioco spezzettandolo con gli strumenti della cinematografia (l’inquadratura, il montaggio), a far vedere il campo. Finché il calcio rimane parte della scenografia, può persino diventare un pezzo di un piccolo classico di genere: nel 1939 in Inghilterra esce The Arsenal Stadium Mystery (sfortunatamente tradotto in italiano Il mistero dell’arsenale), film in cui il grande Thorold Dickinson racconta un misterioso omicidio avvenuto durante la partita tra Arsenal (all’epoca la squadra più popolare d’Inghilterra) e The Trojans, sul campo di Highbury. Una delle scene più memorabili del film è quella che vede l’allora allenatore dei Gunners, George Allison, chino sulla lavagna tattica a spiegare i movimenti, intorno a lui i giocatori dell’Arsenal attenti all’ascolto (Allison aveva anche un paio di battute, i calciatori no: i rapporti di potere all’epoca erano assai diversi). Il calcio come studio in rosso, una scena del crimine degna dei classici del murder mistery.

I guai cominciano quando si prova a sceneggiare una partita, si diceva. Forse è per questo che il calcio sta così bene nel documentario: lì l’azione va raccontata e non creata, la storia va ricordata e non inventata. È dal 1954 che la FIFA racconta ogni edizione dei Mondiali con un documentario dedicato: gli ultimi due, quelli che raccontano Brasile 2014 e Russia 2018, si trovano su Amazon Prime, per i precedenti tocca fare una richiesta apposita alla FIFA scrivendo una mail. Tra questi documentari il più incredibile è ovviamente quello dedicato al Mondiale del 1978, intitolato Copa 78 – O poder do futebol e girato in due versioni: la prima fu ritirata dalla FIFA nel ’79 per via di contenuti controversi (si dice così, oggi?) come un’intervista a Rodolfo Galimberti, uno dei capi dei guerriglieri Montoneros, e ripetute accuse alla federcalcio argentina, colpevole, secondo i registi (brasiliani, nota necessaria), di aver fatto di tutto per impedire una vittoria finale dei verdeoro, addirittura di aver manomesso il campo dello stadio José Maria Minella di Mar del Plata. Di questo film oggi resta solo la versione rivista e corretta nel 1991 e intitolata Campeones.

I problemi, come detto, vengono quando si cerca di spezzettare il gioco con gli strumenti della cinematografia (l’inquadratura, il montaggio), si diceva. Una partita di calcio è già troppo spezzettata di suo per poter sopportare altro découpage: il tempo è frammentato in un’infinità di fischi, l’azione è spezzata in un’immensità di tentativi falliti, lo spazio è diviso tra una folla di protagonisti. Il cinema è un linguaggio troppo diverso da quelli con i quali siamo abituati a parlare di calcio: quello dell’occhio umano e quello della telecamera, quello dello spettatore che assiste all’evento e quello dello spettatore che assiste al racconto che dell’evento fa la regia televisiva. Ricordo la prima volta allo stadio con mio padre e mio fratello minore (stagione 2001/2002, stadio Erasmo Iacovone, Taranto-Sora 2-0): abituato a vedere le partite in tv, quello non mi sembrava nemmeno calcio, non sapevo dove guardare senza la guida della telecamera e le indicazioni della regia, mi mancavano i riferimenti nello spazio (le inquadrature che si allargano e si stringono) e nel tempo (gli stacchi, i tagli, i replay, i ralenti), non capivo cosa stesse succedendo senza il commento a spiegarmelo.

Forse è per questo che i film sul calcio giocato che hanno funzionato meglio sono quelli che hanno rinunciato all’ampiezza della scena, alla molteplicità dei protagonisti, all’infinità degli eventi: una partita di calcio è un fatto troppo grande per stare dentro una sceneggiatura, un evento troppo veloce perché una cinepresa possa stargli dietro. Tanto vale rinunciare e concentrarsi sull’unità fondamentale del gioco: il calciatore, da solo per gran parte del suo tempo in campo, accompagnato solo dall’avversario protagonista dell’eventuale duello, avvicinato così al pugile (non per niente il più cinematografico degli sportivi). Zidane: a 21st century portrait, l’unico lascito di quello strumento dell’inutile che fu la player cam, fu allo stesso tempo resa e celebrazione del cinema davanti al calcio. Quando uscì si parlò dell’Empire del calcio, di Douglas Gordon e Philippe Parreno come Andy Warhol. I più modesti nei paragoni si limitarono al ricordo di George Best e di quello strano film dedicatogli da Hellmuth Costard nel 1970, Fußball wie noch nie. I più contemporanei ricorderanno quella puntata di Buffa racconta Storie Mondiali in cui l’Avvocato parla della troupe sovietica incaricata di tenere la cinepresa fissa sull’uruguaiano Andrade durante tutte le partite giocate dalla Celeste nel Mondiale del 1930.

Il trailer di Fuga per la Vittoria (1981), in cui recitano Sylvester Stallone, Michael Caine e poi Pelé, Bobby Moore, Osvaldo Ardilles

Il calcio è troppo drammatico di per sé per non diventare melodramma nel momento in cui finisce sul grande schermo. In campo la posta è ogni volta così alta, ogni partita è così finale, ogni risultato è così assoluto che non c’è modo allo sceneggiatore di sfuggire all’esagerazione, al posticcio, all’insincero: il fatto è che quel sentimento così totalizzante esiste solo in un momento (la partita), solo in un luogo (il campo) e solo in una persona (il tifoso), e non può essere ricostruito, sintetizzato, clonato. Forse è questa la ragione per cui i film sul calcio che funzionano meglio sono quelli che ne raccontano l’esperienza più comune, quella del tifoso. Non c’è tifoso che non abbia pensato con un certo imbarazzo alla tanta paccottiglia brandizzata comprata negli anni dopo aver visto Paul Ashworth e il suo intimo a fantasia Arsenal in Febbre a 90°.

Forse non è possibile contenere un rito collettivo come la partita di calcio in un medium che è inevitabilmente punto di vista: singolo nella cinepresa, individuale nel regista, personale nello spettatore. Una partita di calcio è semplicemente troppe cose per troppe persone nello stesso momento: il campo è troppo grande, gli stadi troppo pieni, i giocatori troppo numerosi, i movimenti troppo variabili, gli imprevisti troppo frequenti. Una partita di calcio è irriducibile a uno per definizione, moltiplicabile all’infinito per sua stessa natura. Forse sta tutto nel poeta della telecronaca calcistica inglese, Peter Drury: ogni volta che si trova a commentare il susseguirsi di imprevedibilità che è una partita di calcio, la frase urlata è sempre “You simply couldn’t script it”». Anche a volerlo, il calcio non lo si potrebbe scrivere.