I giocatori bambini sono la nuova miniera del calcio?

Anche per le società più importanti, investire sulla formazione dei più piccoli può essere una strategia efficace a lungo termine, e non solo per produrre i talenti del futuro.

Lo scouting nel calcio è come un sondaggio in politica: serve a fotografare un momento particolare, ma, a differenza di quanto si possa pensare, non basta per prevedere il futuro. Un osservatore, per quanto esperto, non può avere la certezza matematica che un giocatore avrà un rendimento positivo se inserito in un’altra squadra; allo stesso modo un sondaggista non potrà dire in anticipo chi vincerà le prossime elezioni. Entrambi, però, sono in grado di dire qual è lo stato delle cose al momento della loro valutazione; poi quelle informazioni possono essere lette, analizzate, interpretate in più modi per provare a intercettare gli sviluppi futuri. Per entrambi i mestieri – l’osservatore e il sondaggista – il pericolo più grande è l’imprevidibilità del caso: sono tante le variabili che possono cambiare le cose nel tempo che intercorre dal momento in cui viene scattata fotografia all’inizio della fase successiva. Per un osservatore che si muove nel mondo giovanile il rischio è ancora maggiore, perché si allungano i tempi e quindi ci sono più fattori di imprevedibilità, il futuro è ancora più incerto.

La settimana scorsa il Manchester United ha deciso di potenziare lo scouting ingaggiando un osservatore per seguire aspiranti calciatori tra i sei e i nove anni. I Red Devils cercano una figura in grado di coordinare la rete di professionisti che lavora per identificare, monitorare, raccomandare e supportare il reclutamento di giocatori di base, quello di potenziale interesse per l’Academy. Questa figura dovrà scovare e pescare i futuri talenti nella regione nord-occidentale del Regno Unito – quella di Manchester, insomma. Non sorprende che l’annuncio sia proprio del Manchester United, una società che da sempre ha un’attenzione particolare, profondissima, per il settore giovanile: a dicembre 2019, i Red Devils hanno raggiunto il traguardo delle 4000 partite consecutive in cui c’era almeno un giocatore dell’Academy nella formazione iniziale; l’ultima volta che lo United ha giocato una partita senza un giocatore cresciuto nel vivaio era una il 1937, e oggi in rosa – tra gli altri – c’è Marcus Rashford, un ragazzo cresciuto proprio nella zona di Manchester che oggi è uno dei simboli del club e della città. Nonostante ci sia questo background, la decisione di investire in uno scout che segua solo la fascia d’età tra i sei e i nove anni sembra ancora in qualche modo sorprendente. Per capire il margine di rischio di un’operazione del genere può essere interessante un dato pubblicato dalla Bbc nel 2015: dei 12.500 giocatori presenti nel sistema delle Academy inglese mediamente solo lo 0,5% degli Under 9 presenti nei migliori club arriverà alla prima squadra.

Per capire che senso ha, per un club di primo piano, investire in una soluzione così a lungo termine, Rivista Undici ha parlato con Gianluca Baschieri, Responsabile attività di base e del progetto Academy del Parma, che ha individuato un primo elemento fondamentale nello sport di base per un club professionistico: «L’idea è quella di creare un rapporto personale di fiducia e di conoscenza reciproca con ragazzini o bambini che imparano a crescere nelle strutture di un club professionistico, con la mentalità e con i valori di una società grande e importante. Così si inizia a costruire un percorso di crescita condiviso, che non è un percorso solo calcistico, solo tecnico, ma soprattutto umano. Lungo questo cammino, allo sport viene riconosciuta una funzione anche formativa per la persona».

Il rovescio della medaglia per il club sono i tanti rischi derivanti anche da fattori esterni, non controllabili: non deve sorprendere se da un anno all’altro il bambino non ha uno sviluppo fisico armonico a 360°, o ancora la famiglia si trasferisce altrove per motivi di lavoro. Selezionare giocatori che possano fare un lungo percorso nel club è ancora più difficile quando si abbassa l’età. Oltretutto per l’osservatore è più complicato valutare i giocatori da un punto di vista strettamente calcistico, quando si muove su fasce d’età così basse: i parametri in base ai quali vengono stilati i report sono fisici e tecnici, si basano sui cosiddetti Tips (Technique, Insight, Personality e Speed), e poi vanno valutate la comprensione del gioco, l’interazione con i compagni, la concentrazione. Tutti questi appunti, o meglio tutte queste sensazioni possono variare da un anno all’altro, se parliamo di bambini. E possono cambiare anche radicalmente, senza troppi segnali che lo dicano in anticipo.

Se oggi i club scelgono di investire (più) tempo e risorse nella ricerca dei futuri talenti, anche tra bambini delle fasce d’età più basse, è anche perché sta cambiando il mercato. La carriera dei calciatori si è allungata in una direzione e nell’altra. Gli Ibrahimovic, i Cristiano Ronaldo, i Sergio Ramos sono la dimostrazione che anche oltre i 35 anni si può mantenere un livello di prestazione d’élite. Ma oggi le carriere possono iniziare ancora prima: solo nelle ultime due stagioni abbiamo visto comparire ed esplodere e brillare, davanti ai nostri occhi, gemme come Ansu Fati e Pedri a Barcellona, Musiala al Bayern Monaco, Gio Reyna al Borussia Dortmund. Giovanissimi, già pronti, già fortissimi. Questi futuri campioni valgono moltissimo quando sono ancora teenager e allora può essere utile investire in ricerca e scouting per pescare i loro eredi prima che il valore di mercato li renda inaccessibili alla maggior parte delle squadre. «Non è un caso che fino a dieci anni fa erano molte meno le squadre che avevano categorie sotto l’Under 12», dice Baschieri. «Noi oggi iniziamo dall’Under 9». Si tratta di una scelta che serve anche a strutturare un sistema di formazioni giovanili verticale, in cui è più facile costruire un’identità comune tra le varie squadre. Adottando questo metodo, in prospettiva, sarà più semplice anche sostituire un giocatore senior che cambia squadra, oppure si ritira, con uno più giovane che da tempo milita nel club, e che quindi conosce già i principi di gioco da attuare in campo.

Baschieri spiega che il Parma, un anno fa, con il mondo dello sport fermo, ha portato avanti uno studio sui percorsi di crescita dei giocatori prodotti nei vivai italiani: «Volevamo comprendere come arrivano i giocatori al professionismo, così abbiamo svolto un’indagine su tutta per ricostruire il percorso giovanile, soprattutto quelli italiani. A noi interessava capire quanto il processo di attività di base in preagonistica sia importante. I dati del report dicono che l’età del primo ingresso nei club professionistici è sempre più bassa». La media infatti, è circa 12 anni. Allo stesso tempo, però, solo 30 giocatori sui 96 – tra quelli cresciuti nel vivaio di un club di Serie A – nella fascia d’età 26-35 sono entrati in un club professionistico prima di compiere 12 anni. Il dato cambia con gli atleti più giovani: dei 66 Under 25 cresciuti in una società di Serie A, sono 40 quelli entrati in un club professionistico prima di aver compiuto 12 anni.

Secondo i dati Figc, in Italia più di un bambino maschio su cinque, tra i 5 e i 16 anni, è tesserato per una società di calcio (Etan Abramovich/AFP via Getty Images)

La difficoltà della selezione nelle età più verdi si muove anche su altri piani di lettura. Baschieri, ad esempio, allontana l’idea di un settore giovanile inteso come un “calciatorificio” in cui l’obiettivo primario è la produzione in serie del talento. «L’idea alla base», dice, «è sempre quella dello sviluppo della persona, che verrà condizionata da qualsiasi decisione. Si pensa sempre alla selezione in entrata, ma immaginiamo alla selezione in uscita dei ragazzini più piccoli, magari dopo qualche anno di percorso condiviso: è doloroso, è pesante emotivamente. È per questo che il lavoro di osservazione e di selezione non può ridursi a una somma delle qualità calcistiche».

È qui che entra in gioco il mondo delle Academy, dei vari centri di formazione, delle società affiliate ai club professionistici. Tutti i club più importanti fanno affidamento su squadre satelliti che portano in campo i più piccoli: l’Atalanta, probabilmente la prima società a cui si pensa quando si riflette sulla capacità di sviluppare il talento, ha circa 80 scuole calcio affiliate sparse in tutta Italia. Qui i bambini e i ragazzi crescono, si allenano, giocano senza essere tesserati direttamente da un club professionistico – anche perché vanno rispettate le regole della federazione, che impediscono di tesserare un giocatore fuori regione prima dei 14 anni, a meno che non si muova con lui anche un genitore. La rete di osservatori centrale interagisce con l’Academy, ma le due entità non sono necessariamente legate, anzi procedono su binari separati. Poi gli scout fanno il loro monitoraggio anche e soprattutto tra le società affiliate, perché il talento va protetto, sostenuto, cercato. Ma va anche lasciato libero di svilupparsi, nella maggior parte dei casi.

Il lavoro di osservazione tra i più piccoli – nella fascia dai sei agli otto anni, insomma – può servire soprattutto a individuare un grande talento evidente fin dai primi passi in un campo da calcio. Il prossimo Lionel Messi, qualora fosse già nato, forse sta giocando in un campetto di periferia in provincia di Parma, Bergamo, Firenze, Napoli: in quel caso il compito dell’osservatore è individuarlo prima della concorrenza e segnalarlo alla società. Ma quella è un’eccezione. Fuori dalle eccezioni si osserva, si guarda la fotografia del momento, poi magari quella successiva e quella dopo ancora, in attesa di un’età in cui si può iniziare a pensare di avere a che fare un futuro calciatore. E si lavora per essere pronti a quel momento, facendo formazione.