La pena di Prandelli è che non è riuscito a cambiare il calcio

Storia intima di un uomo complesso, che ha provato per anni a mettere l'etica e il fair play al centro del villaggio. E che alla fine si è arreso.

In Uno, nessuno e centomila, Gengè Mosca scopre all’improvviso che il naso gli pende leggermente verso destra. Lui sta davanti allo specchio a controllarsi le narici perché lì dentro sente un dolorino e la moglie gli rifà i connotati: adesso il naso di Gengè è effettivamente una curva verso destra. E mica finisce qui: le sopracciglia che sono come due accenti circonflessi, un orecchio più sporgente dell’altro, un mignolo un poco strano, la gamba destra un pochino più arcuata della sinistra. Quando la moglie finisce di parlare, Gengè si guarda allo specchio e non si riconosce più. «Probabilmente questo mondo di cui ho fatto parte per tutta la mia vita non fa più per me e non mi ci riconosco più», scrive Cesare Prandelli nella lettera con la quale ha spiegato la decisione di lasciare la panchina della Fiorentina. “Non mi ci riconosco più” è un’affermazione sempre inquietante: chi o cosa è cambiato? Come? Quando? Perché? Il naso di Gengè Mosca pendeva verso destra anche prima che la moglie glielo facesse notare o si è mosso dopo che lui si è messo a seguire quella curva nel riflesso dello specchio? Tra Prandelli e il calcio chi è che non fa più per l’altro, chi è che si dovrebbe adeguare all’altro, l’uomo o il mondo, Gengè Mosca o lo specchio?

Quel che resta di Prandelli nel racconto del calcio è una storia di escapologia, un susseguirsi di fughe. «Non mi stupisce affatto il suo comportamento. L’ho già visto scappare ai tempi della Fiorentina, evidentemente fa parte del dna dell’uomo. Prandelli è uno che non sa gestire le cose, si crea un profilo di alto livello ma quando c’è bisogno di sostanza manca sempre all’appello. Ha lasciato l’Italia con l’amaro in bocca, e non è stato in grado e non ha avuto nemmeno la modestia di spiegare cosa è accaduto», questo fu il commento (ingiusto, incompleto, crudele) di Diego Della Valle alle dimissioni dell’allora commissario tecnico della Nazionale dopo il disastro del Mondiale brasiliano. Una fama (infamia?), questa, che comincia quando comincia la carriera di Prandelli: dopo sette anni nelle giovanili dell’Atalanta (uno scudetto Allievi, uno Primavera e un Torneo di Viareggio messi in bacheca) se ne va a Lecce, ci resta per 18 partite (14 sconfitte, due pareggi e due vittorie) e si dimette. Comincia a farsi un nome da allenatore al Verona: in due stagioni porta la squadra dalla Serie B all’Intertoto, all’inizio della terza annata la società decide di non partecipare alla competizione europea e Prandelli si dimette. Se ne va percorrendo la stessa strada dalla quale è arrivato: torna in Serie B e porta il Venezia in Seria A. L’uomo non è estraneo alla rivalsa, che poi è la vendetta di chi riesce a non apparire vendicativo. L’anno dopo Zamparini lo esonera e Prandelli comincia a manifestare i primi segni di insofferenza in questa alternanza, in questo andirivieni di successo e fallimento che è il meccanismo che muove il calcio e gli altri sport. Si rilassa giocando a golf, è da solo, si convince che l’allenatore è uomo al comando e quindi solo.

Nel dna di Prandelli non c’è la predisposizione alla fuga: questa convinzione è un equivoco inevitabile in un mondo che scambia la pacatezza per debolezza, che confonde la riservatezza con fragilità. Prandelli appare timido, ma il timido è solo la maschera del permaloso: va via quando le cose non sono come le vuole lui, non vanno come decide lui. È un radicale le cui pretese si sono fatte sempre più grandi con il passare degli anni, un ambizioso scambiato per modesto solo perché i suoi sogni non erano fatti dell’argento dei trofei: Prandelli non ha mai avuto interesse a cambiare il gioco del calcio, lui voleva cambiare il calcio che sta ai bordi e oltre il gioco. Negli anni l’ego si è ingrossato e infiammato: prima voleva fare la filosofia di una squadra, poi di una società, poi di una federcalcio, poi di uno sport intero. Una escalation di pretese che poteva essere solo marcia trionfale o caduta nella polvere: alla fine è stata la seconda, e dopo aver lasciato una società, dopo aver mollato una federcalcio, non restava che abbandonare uno sport.

Dieci anni prima che le dichiarazioni di Massimiliano Allegri aprissero e chiudessero scuole di pensiero, Prandelli già sembrava attempato parlando di calcio quale gioco semplice, di supremazia della tecnica sulla tattica, degli schemi come strumenti d’esecuzione del calcio piazzato e niente di più, della necessità di ripartire dalla scuola calcio. «Non c’è più nulla da inventare», diceva già nel 2010 in un’intervista a Repubblica. Il calcio vive in cicli, si sa: tutto questo è già successo in passato e succederà ancora in futuro. Forse è solo la cadenza livornese che si fa ascoltare più dell’accento bresciano.

Finché le cose gli sono andate bene, il calcio s’è fatto piccolo davanti a Prandelli e gli ha trovato un posto in cui accomodarsi: la Fiorentina del quarto posto come abitudine, della semifinale di Europa League contro i Rangers di Glasgow, dell’ottavo di finale di Champions League contro il Bayern Monaco valeva la concessione di quel terzo tempo imbarazzato e impacciato voluto dall’allenatore alla fine di ogni partita; la finale di un Europeo valeva la pena di un grottesco “codice etico” a decidere che De Rossi in Nazionale non serve. Prandelli ha voluto essere il riformatore di una chiesa che alla fine lo ha scacciato come eretico e perché perdente, ha provato a costruire uno stato etico superando e abolendo la legge della giungla, a mettere il fair play al centro di un villaggio che si chiama vincere-è-l’unica-cosa-che-conta: vinca il più bravo ma conti il più giusto, questo il messaggio che voleva far passare. I fought the law and the law won, faceva la canzone.

Il problema di Prandelli non è il mondo che non riconosce più, è il mondo che è rimasto sempre lo stesso nonostante il suo desiderio di cambiarlo, che continua a girare nello spazio senza fine anche ora che lui non ha più alcun potere di influenzarne la rotazione. Prandelli non è né la brava persona né il grande uomo che un certo sentimentalismo appiccicoso ha sempre bisogno di mettere in contrapposizione a mai identificate cattive persone e piccoli uomini. Prandelli è uno che ci ha provato e non ci è riuscito: voleva cambiare il suo pezzo di mondo, non ce l’ha fatta e ora quel pezzo di mondo non gli piace più perché lui non può più farci nulla. Non perché il calcio sia così adesso e non lo fosse prima, ma perché lo era prima, lo è adesso e lo sarà in futuro, indifferente al passaggio e al dibattersi di Claudio Cesare Prandelli: il suo “assurdo disagio” è la quotidiana lotta di tutti noi che non possiamo cambiare nulla di ciò che ci circonda, è la ferita fresca di un uomo al quale il talento ha concesso la presunzione di provare a cambiare la realtà circostante, è il dolore nuovo di una persona che si accorge troppo tardi di aver perso l’occasione. Quella di Prandelli non è una fuga ma una resa, la ritirata di un uomo che c’è stato sempre, ma solo alle sue condizioni. Ci può essere onore nella resa, nobiltà nella ritirata: forse è questo l’unico riconoscimento che si deve a Prandelli, invece di queste campane in saluto a lui e in morte del calcio lento, pulito di una volta.

Chi riduce Prandelli al suo rifiuto di uno sport che ormai è solo soldi e velocità (quale sport non lo è) fa un torto all’uomo: Prandelli questo mondo lo ha frequentato per tutta la vita e nei suoi giorni di gloria lo ha anche dominato, anche lui ha fatto di tutto per essere più veloce degli altri e anche lui ha contrattato per guadagnare più dell’anno fiscale precedente. Prandelli era in campo all’Heysel: è ingenuo credere che stia scoprendo, conoscendo e rifiutando ora un mondo crudele. Prandelli ha accettato di costruire sulle macerie, al Parma sconquassato da Tanzi prima, alla Roma tradita da Capello poi, alla Nazionale ingannata dal Lippi-bis alla fine (perché è in Brasile che è finita la sua carriera di allenatore): è ingenuo credere che stia imparando adesso che il calcio è un mondo di assoluti, in cui bisogna avere tutto e subito, in cui bisogna fare prima e meglio. Prandelli voleva fare l’architetto, studiò per diventare geometra e alla fine divenne calciatore di professione: è ingenuo credere che solo ora abbia imparato che il calcio è il mondo dei sogni e del privilegio. Prandelli ha allenato l’Al-Nasr, e non certo perché la missione della sua vita era portare il Verbo del calcio italiano ai pagani del pallone emiratino.

In Serie A, Prandelli ha allenato Atalanta, Lecce, Verona, Venezia, Parma, Fiorentina e Genoa; all’estero, Galatasaray, Valencia e Al-Nasr; nei suoi quattro anni alla guida della Nazionale italiana, dal 2010 al 2014, ha vinto 23 partite su 56 e ha conquistato il secondo posto agli Europei 2012 (Grazia Neri/Getty Images)

Chi fa del probabile epilogo della carriera di Prandelli una questione di equilibrio psichico da tutelare commette un torto nei confronti di quelli che stanno cercando di portare avanti questa discussione: contano più le parole di Morata che la lettera di Prandelli, se parliamo di sport e malattie della mente. Il più grande merito e il peggior peccato di Prandelli resterà quello di aver messo in discussione il calcio come vocazione, lo sport come dovere: gli sportivi non ci devono nulla, non c’è nessuna libbra di carne da pretendere ogni maledetta domenica, se uno non ha più voglia e non ce la fa più può semplicemente dedicarsi agli ulivi in giardino, come ha raccontato di aver fatto lui tra il marzo e l’aprile del lockdown. «Il calcio non è la vita, parlare di pallone non è come trattare cose serie», disse in un’intervista concessa alla Gazzetta di Mantova nella primavera dello scorso anno.

I primi segni del suo nuovo e ultimo malessere si notarono durante una conferenza stampa in cui ci tenne a sottolineare che per stare sulla panchina della Fiorentina stava trascurando la famiglia e gli amici: la vita è quella, non questa vostra ossessione che comincia e finisce ogni novanta minuti. Fossimo capaci di sfuggire al dibattito ozioso in cui ogni volta e in ogni caso indulgiamo, quello che vede in un angolo i sostenitori del denaro come panacea di tutti i mali (anche quelli della mente, per non dire dell’anima) e nell’altro i convinti che i soldi siano la causa di tutti i problemi, riusciremmo a cogliere la lezione banale e fondamentale che la carriera di Cesare Prandelli ci lascia: «Il calcio si prende troppo sul serio, e non da oggi».